Il suicidio assistito di Lucio Magri ha suscitato l’inevitabile sequela di reazioni, tentativi d’interpretazione, commenti più o meno composti ed opportuni. Inevitabile perché, a parte il dovuto dei lavoratori del mercato dell’informazione che non possono evadere la notizia, il tema del suicidio scuote ogni persona nell’intimo degli equilibri faticosamente e spesso tragicamente acquisiti.
La coscienza della morte ci rende unici nel serraglio dei viventi e tutte le nostre attività, culturali, relazionali e sociali, sostengono il dovere di dimenticare questa terribile condizione. Non la morte ci terrorizza, non ne avremo mai conoscenza, ma la vita in attesa della sua fine.
C’è chi giudica questa nostra condizione di aver coscienza della fine come una spietata crudeltà di qualunque cosa sia all’origine dell’esistenza. Ma senza voler entrare nel dibattito sulla qualità morale del principio vitale che ci sbarca nel mondo, senza questa coscienza saremmo sicuramente diversi, e non necessariamente migliori. Non avremmo le filosofie, le religioni, e forse ci saremmo estinti da tempo per mancanza di attenzione al vivere che il dolore della fine ci rende.
Tra la vita e l’inevitabile morte c’è l’idea, a volte compiuta, del suicidio. Spegnersi autonomamente, come chiudere il computer quando si è finito il lavoro, è vissuto anche come estrema libertà dell’uomo nei confronti della più angosciante attesa. E ci sono sacrosante ragioni, le malattie, le inabilità della vecchiaia, i dolori estremi non più ricomponibili. Ma ogni dolore può spingere all’idea del suicidio. E quando accade siamo sempre attenti a giudicarne il motivo, e a volte non lo accettiamo, quando lo valutiamo insufficiente per ottenere il nulla osta alla diserzione. Ci turbano i suicidi dei giovani, dei sani, di quelli che hanno avuto tutto e ci lasciano senza giustificazione. Ma il dolore non ha una scala di misura universale, ed è solo la capacità d’immaginare la sua fine che ci tiene in vita dopo le inevitabili sconfitte, i fallimenti, i lutti. Non siamo forti con il dolore, e la natura ci ha programmato il lutto, quella fase di avvicinamento delirante e progressivo al distacco, che ci accompagna al suo superamento, comunque sempre parziale e che allunga il conto delle cicatrici.
Ogni essere umano ha un’idea di se che crea significato nella parte della propria persona, che per le vicende evolutive individuali, si è resa maggiormente protagonista. Il proprio corpo, la mente, gli ideali, ed è per questo che c’è chi porta avanti l’esistenza senza pensare troppo alla fine in condizioni estreme. Non è solo coraggio, o mera rassegnazione, è anche diverso valore del sé.
Ed è per questo che c’è chi se ne va, perché quella parte fondamentale del proprio esistere si è spenta, o comunque non riesce ad immaginarne la rinascita.
La depressione non è la causa delle nostre morti, anzi spesso ci salva la vita, ma quella che diventa costante filtro grigio dell’esistenza è il sintomo della perdita di capacità di cambiamento, di comunicazione dei nostri dolori a noi e agli altri, di una rigidità che non permette la modifica dei significati, proprio come un antidepressivo.
E il nostro essere sociale ci mette in comunicazione inevitabile con gli altrui destini, e come marinai della stessa nave osserviamo con attenzione le mosse e gli atteggiamenti dell’intera ciurma richiamando all’ordine chi crea pericolo d’affondamento. Esistiamo perché esistono gli altri, anche se spesso ce ne dimentichiamo, e ogni abbandono volontario è il pericolo terribile della sconfitta del vivere di tutti.
E poi siamo diventati tecnologici, abituati ad accendere e spegnere quello che usiamo per vivere, senza più l’angoscia dell’attesa degli eventi o con la fatica di procurarli.
La tecnologia ha partorito l’idea e la sostanza di quella moderna cicuta che spegne l’esistenza non più accettabile. Fantasia forse non lontana dal realizzarsi di un pulsante di shutdown che ci rende più simili all’antropomorfia tecnologica che stiamo acquisendo, perdendo il valore creativo della nostra esistenza in cambio dell’anestesia dal dolore offerta dalle macchine, dai farmaci, dalla virtualizzazione delle relazioni e delle rivoluzioni.
Il suicidio assistito è conquista di pietà e sconfitta d’immaginazione, solitudine esistenziale di noi ormai persi nel viaggio siderale verso la morte sempre più accecati dalla destinazione, perdendoci il valore incommensurabile del percorso.
E per la vicenda umana che ha dato spunto a questo inevitabile commento, non più nulla da aggiungere, solo rispetto e bandiera a mezz’asta sulla prua come merita ogni perdita della nostra nave.
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Sembra tutto asettico, privo di emozioni, sentimenti.
Questo aspetto rende la scelta tra vita e morte come se si trattasse di due stadi identici di una medesima esistenza.
Acceso o spento, ON e OFF.
Ma questa è una logica economica, applicabile alle macchine e non all’essere umano.
La scelta del suicidio invece non è una scelta dell’indifferenza, è piuttosto una scelta di rinuncia, di sconfitta.
Siamo portati a comprenderla in un uomo di 79 anni, ma se la immaginiamo applicata ai ventenni o ai quarantenni diventa subito allarme sociale, paura, panico.
Eppure la scelta è identica: la vita non merita di essere vissuta un minuto di più.
E questo messaggio è profondamente depressivo.
Tutte le scelte vanno rispettate, ma certamente è possibile anche opporsi ad un messaggio di autodistruzione, in cui nulla aiuta alla crescita e al progresso dell’umanità.