SI AGGRAVA IL DRAMMA DEI PROFUGHI NEL SINAI

Lo scorso dicembre c’eravamo occupati dei profughi  tenuti prigionieri nel Sinai. Avevamo intervistato don Mussie Zerai, esponente della Chiesa Etiope presso il Vaticano e presidente dell’agenzia Habeshia, che si occupa dell’assistenza agli esuli e ai migranti dell’Africa Orientale. Il dramma di questi dimenticati da tutto il mondo continua e la situazione sembra aggravarsi. Ne parliamo con il giornalista Emilio Drudi, che è in contatto con Don Zerai e che da anni si occupa di Corno d’Africa e di Medio Oriente.

Sono centinaia, forse migliaia di migranti  che continuano ad essere tenuti prigionieri dai predoni beduini.. Vengono quasi tutti dal Corno d’Africa: eritrei, etiopi, somali. Ma molti anche dal Sudan e da altri paesi dell’Africa Sub Sahariana. I predoni beduini che li hanno catturati pretendono migliaia di dollari per liberarli. Perché questa grande massa di profughi si ritrovano nel Sinai e quanti sono quelli che si trovano attualmente prigionieri ?

La chiusura dell’Egitto, della Tunisia e soprattutto della Libia come via di fuga dal Corno d’Africa verso l’Europa in seguito alle rivoluzioni arabe ha moltiplicato il numero di profughi che scelgono le piste del Sinai per arrivare in Occidente attraverso Israele: risalgono il Sudan percorrendo la valle del Nilo, poi l’Egitto e da qui puntano a est, nel deserto, verso la frontiera israeliana. Ed è a questo punto che vengono intercettati e bloccati dai predoni beduini.

Secondo le ultime informazioni raccolte dall’agenzia Habeshia ci sono attualmente nel Sinai almeno 400 prigionieri, “gestiti” da varie bande, che hanno organizzato vere e proprie prigioni o campi di concentramento, in genere in prossimità di villaggi o accampamenti nomadi. Su questo dato concorda una vasta rete di associazioni umanitarie internazionali che collaborano con Habeshia in diversi paesi: Physicians for Human Rights  e Hotline for Migrant Workers in Israele; Release Eritrea e United Kingdom International Commission on Eritrean Refugees in Gran Bretagna; United States Eritrean Movement for Democracy and Human Rights in Svezia; The American Team for Displaced Eritreans negli Stati Uniti.

Le stime di altre organizzazioni che si occupano dei diritti umani, come l’agenzia Everyone, tuttavia, sono molto più allarmanti: si calcola che ci siano oltre mille, forse 1.500 prigionieri. E d’altra parte il numero delle persone fuggite dal proprio paese e poi scomparse nel nulla è impressionante. “Sono migliaia – denuncia don Zerai – i giovani spariti senza lasciare traccia negli ultimi anni: solo nel Sinai si può parlare di almeno tremila. E da tutto il Corno d’Africa di almeno 4 mila ragazzi minorenni”.

Ma anche prima della chiusura delle “vie” verso l’Europa attraverso l’Egitto, la Tunisia e la Libia a causa delle rivolte arabe, ha contribuito molto a peggiorare la situazione anche il trattato tra Italia e Libia che ha affidato alla polizia di Gheddafi il controllo e il blocco dell’emigrazione attraversoil Canaledi Sicilia. Decine di vittime della tratta sono state consegnate di fatto ai predoni beduini e ai mercanti di schiavi dagli assurdi “respingimenti in mare” decisi dal governo Berlusconi su pressione in particolare della Lega e del ministro dell’interno Roberto Maroni. Bloccati, arrestati o comunque consegnati alla polizia di Gheddafi (alcuni quando già erano in vista delle coste siciliane) senza verificare se avevano diritto al riconoscimento dello status di rifugiati, diversi giovani eritrei, somali ed etiopi, dopo un periodo più o meno lungo di detenzione nelle prigioni-lager libiche, sono stati espulsi e accompagnati al confine meridionale, in pieno Sahara, e da qui non è rimasta loro altra scelta che tentare la via del Sinai, consapevoli che se fossero rientrati nel proprio paese avrebbero corso il rischio di essere incriminati e imprigionati. Quel trattato è stato ora rinnovato dal governo Monti e ripropone l’affidamento alla polizia libica della sorveglianza anti immigrazione sulle coste e in mare, senza nemmeno aver preteso il ritorno in Libia della Commissione Onu per i diritti umani (costretta a lasciare il paese sotto la dittatura di Gheddafi) per controllare il comportamento di polizia, esercito e milizie volontarie nei confronti dei migranti e le condizioni dei profughi detenuti nelle carceri e nei campi di sicurezza. Eppure sono numerosissime le denunce di soprusi, prepotenze, pestaggi, uccisioni indiscriminate nei confronti di immigrati accusati di aver fatto parte delle formazioni mercenarie di Gheddafi solo perché “neri”. Diverse inchieste giornalistiche e segnalazioni private parlano senza mezzi termini di persecuzione su base razziale.

Ma chi tiene prigionieri i profughi. Si tratta di predoni del deserto improvvisati sequestratori o c’è dell’altro?

La “caccia” ai profughi da ridurre in schiavitù è diventata una vera e propria tratta in mano a nuove organizzazioni criminali ben strutturate.

Il fenomeno era alimentato all’inizio da singoli o piccoli gruppi di migranti che, abbandonando i campi di raccolta in Etiopia o nel Sudan dopo un soggiorno più o meno lungo, trascorso nella vana attesa di un salvacondotto come rifugiati, tentavano autonomamente la via del Sinai, affidandosi a guide improvvisate per raggiungere e varcare il confine di Israele per poi puntare da qui, se possibile, verso l’Europa, dove speravano di ottenere lo status di esuli, perseguitati politici o comunque rifugiati. Proprio queste guide, tuttavia, li hanno venduti spesso ai predoni beduini. Ora la “caccia” inizia all’interno o nei dintorni degli stessi campi profughi: emissari delle bande criminali avvicinano i giovani migranti e offrono loro il “passaggio” in Israele garantendo il superamento del confine in cambio di un ticket di 2-3 mila dollari. Riuniti in piccoli gruppi, quelli che accettano di “acquistare il viaggio” vengono trasportati fino al Sinai e qui, anziché essere accompagnati alla frontiera, sono venduti e consegnati ai predoni che, in caso di mancato pagamento del riscatto, li mettono a disposizione del mercato dei trapianti clandestini, trattandodirettamente con i “trafficanti di organi” o cedendoli ad altre bande in contatto con medici e cliniche specializzate di pochi scrupoli. Non a caso – come rileva uno degli ultimi appelli dell’agenzia Habeshia – diverse inchieste giornalistiche hanno dimostrato che questo mercato criminale dei trapanti è particolarmente fiorente proprio in questa vasta regione del Medio Oriente.

Ma che cosa fanno le polizie locali, come cercano di contrastare il fenomeno?

Purtroppo ai crimini delle organizzazioni schiaviste si aggiungono pesanti responsabilità della polizia di frontiera e del governo egiziani. Diversi profughi sfuggiti alla rete dei trafficanti sono stati uccisi a fucilate da poliziotti e guardie di confine perché non si sono fermati all’alt. Altri sono stati arrestati e trasferiti in carcere dove restano detenuti a lungo in condizioni inumane, accompagnate talvolta da pestaggi e torture, praticamente senza alcuna assistenza medica anche se feriti o malati (tanto che sono stati denunciati diversi decessi) e senza alcuna possibilità di controllo da parte delle Commissioni internazionali. Più volte, in particolare, è stato denunciato da Habeshia e da altre Ong che diversi migranti sono stati scarcerati e consegnati alle autorità dei paesi d’origine simulando “rimpatri volontari”: rimpatri che in realtà gli interessati rifiutano proprio perché non di rado rientrando rischiano il carcere, una pesante incriminazione e dure condanne, inclusa la pena di morte, dopo processi farsa.

Situazioni analoghe vengono segnalate anche nelle carceri libiche, inclusi i cosiddetti “rimpatri volontari”.

Qual è il prezzo del riscatto preteso dai rapitori per la liberazione di ciascun profugo?

Fino alla primavera scorsa il riscatto preteso dai predoni per liberare un solo prigioniero variava tra gli 8 e i 10 mila dollari. Nel corso dell’estate la “taglia” è rapidamente cresciuta, fino ad arrivare oggi ad almeno 30 mila dollari. Una cifra quasi impossibile per persone provenienti da nazioni dove il reddito medio oscilla sui due dollari al giorno. Tanto più se si tiene conto che ciascun profugo in genere ha già investito tutto quello che aveva per pagarsi la fuga dal paese d’origine e il prezzo del transito clandestino nel Sinai. Le famiglie e gli amici, contattati telefonicamente dagli stessi prigionieri con apparecchi satellitari messi a disposizione dai predoni, spesso per mettere insieme almeno parte della somma decidono di vendere tutto quello che hanno (greggi, riserve di granaglie, la stessa casa) e se non basta sono costretti a indebitarsi per la vita intera, offrendo per anni le proprie prestazioni lavorative fino a che il prestito richiesto non viene saldato. Ipotizzando un reddito di 700-720 dollari l’anno per un debito di 30 mila dollari occorrono più di 40 anni di lavoro. Il che crea, per certi versi, un’altra situazione di schiavismo occulto per debiti nei paesi d’origine dei profughi. Paesi nei quali non è quasi mai possibile rivolgersi allo Stato per chiedere aiuto perché in molti casi quei profughi fuggono proprio dai soprusi e dalle persecuzioni del Governo in carica o comunque (come in Eritrea, ad esempio) vengono considerati criminali per il solo fatto di essere emigrati clandestinamente. (I- continua)


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