Proseguiamo l’intervista ad Emilio Drudi sui profughi tenuti prigioniei da bande di predoni nel Sinai. Parliamo stavolta della comunità internazionale, di cosa sta facendo per questa gente disperata. Drudi ci racconta anche della vicenda dei 72 profughi alla deriva nel Canale di Sicilia, nell’aprile dello scorso anno. Di quei 72, solo 9 si sono salvati. Gli altri tutti morti, nell’indifferenza generale.
Di fronte ad una situazione così grave, con persone tenute prigioniere, taglieggiate e depredate, a volte anche uccise, che cosa fa la comunità internazionale?
Nel corso dell’ultimo anno, don Zerai, l’agenzia Habeshia e la rete internazionale di associazioni umanitarie a cuila stessa Habeshia è collegata hanno lanciato una lunga serie di appelli al Consiglio e al Parlamento Europeo, al Governo e al Parlamento italiano perché si facciano carico di questa enorme emergenza umanitaria. La “risposta” si è ridotta ad alcune interrogazioni parlamentari, sia a livello europeo che nazionale, e a una audizione presso la Commissione esteri del Senato, senza alcun provvedimento concreto. In Italia, in particolare, il disinteresse di fatto dimostrato dal governo Berlusconi è stato ribadito anche dal governo Monti.
Habeshia e le altre organizzazioni umanitarie chiedono in sostanza tre cose alla comunità internazionale:
– Un’azione coordinata di polizia internazionale, con la partecipazione di tutti i paesi interessati (Egitto, Israele, Unione Europea, Etiopia, Sudan) per assicurare alla giustizia le bande di predoni e di trafficanti di schiavi.
– Una maggiore apertura delle frontiere europee nei confronti di questi disperati.
– Progetti mirati di sostegno ai paesi che ospitano i principali campi profughi (Sudan ed Etiopia) per migliorare le condizioni di soggiorno provvisorio dei migranti e scoraggiare la tentazione di fuga, che li consegna quasi sempre alle bande di trafficanti di schiavi.
A queste richieste Strasburgo, Bruxelles e il governo italiano (come del resto gli altri governi europei) hanno opposto solo tiepide rassicurazioni. Questo atteggiamento continua anche dopo gli ultimi allarmi che denunciano il grave peggioramento della situazione. Quasi totalmente assente, dopo un iniziale interesse manifestato tra il novembre e il dicembre 2010, anche la stampa internazionale. La tragedia continua così a consumarsi nel silenzio e nell’indifferenza generali.
Tu hai accennato al governo Monti. Quali richieste sono state fatte all’attuale presidente del Consiglio italiano?
Poco prima di Natale la questione è stata sollevata di nuovo in Parlamento da Savino Pezzotta, che ha chiesto al governo Monti misure precise:
– Incaricare l’Interpol per aprire un’inchiesta internazionale su questo traffico di esseri umani, coinvolgendo le polizia egiziana e israeliana ai massimi livelli.
– Disporre indagini specifiche per cercare di risalire alla catena del traffico clandestino di organi: medici, cliniche dove si effettuano i trapianti, ecc.
– Fare pressioni sull’Egitto perché consentail libero accessonelle sue carceri alle organizzazioni umanitarie internazionali che assistono profughi e rifugiati politici.
– Invitare l’Unione Europea ed eventualmente i singoli governi occidentali a fare pressioni su Israele ed Egitto per aprire le frontiere almeno ai profughi sfuggiti ai predoni e, contemporaneamente, rendere più rapide le pratiche sull’emigrazione e la concessione dello status di rifugiato ai profughi per rendere meno inaccessibile la “fortezza Europa”.
– Cambiare in Italia la “politica dell’accoglienza”, per favorire il processo di integrazione dei migranti nel paese. In particolare dei rifugiati, per i quali si richiama il modello della Svizzera o della Svezia.
La risposta, arrivata tramite il sottosegretario agli esteri Staffan De Mistura, è stata ancora una volta evasiva e deludente. Molte promesse ma pochi impegni concreti. Anche in relazione al coinvolgimento della polizia egiziana e israeliana. Eppure le organizzazioni umanitarie che si occupano dei profughi schiavi hanno segnalato anche nomi e cognomi di alcuni trafficanti. Non a caso Pezzotta si è dichiarato insoddisfatto.
Quali sono le ultime notizie trapelate dai profughi prigionieri, com’è la loro condizione attuale?
L’ultimo allarme sull’aggravarsi dell’emergenza risale a metà gennaio. A lanciarlo è stato ancora una volta don Mussie Zerai, dopo aver ricevuto l’ennesima telefonata disperata: la richiesta di aiuto di una donna prigioniera dei trafficanti beduini insieme a un gruppo di oltre 30 persone. Don Zerai ha denunciato che con lei ci sono12 uomini ed altre 20 donne, di cui cinque con i figli. In tutto, sei bambini. Gli uomini sono bendati e legati l’uno all’altro con catene ai piedi e alle braccia. Le donne solo ai piedi. Altri gruppi di ostaggi parlano di abusi sessuali continui sulle donne ma, non di rado, anche sui ragazzi più giovani. La tortura è pratica quotidiana: scariche elettriche, bruciature con sigarette, plastica fusa, ferri roventi. E la minaccia costante di venire sacrificati per il mercato degli organi. Rientra in questo contesto anche la terribile vicenda del gommone con 72 profughi a bordo abbandonato alla deriva tra la fine di marzo e l’inizio di aprile dello scorso anno nel Canale di Sicilia: 63 di loro sono morti di sete, fame e stenti dopo due settimane. Sulla tragedia è in corso un’inchiesta del Consiglio Europeo.
Come sono andate le cose?
Quei disperati erano partiti dalle coste libiche ai primi nell’ultima settimana di marzo del 2011. Sono profughi fuggiti dal Corno d’Africa e dall’area Sub Sahariana. Giovani, donne, ragazzini ed alcuni bambini: hanno lasciato il proprio paese per sfuggire a dure persecuzioni politiche e fame. Ora, mentre in Cirenaica infuriava la rivolta, hanno puntato sulla Sicilia per chiedere asilo come rifugiati in Italia, sottraendosi anche alla “caccia al nero” scatenata dalle milizie anti Gheddafi, che individuano a priori in ogni africano un mercenario a servizio del rais.
Dopo alcune ore di navigazione il motore va in avaria e il natante resta in balia delle correnti. L’allarme viene lanciato con un telefono cellulare a don Zerai: uno dei profughi lo conosce ed è al corrente del suo impegno per i migranti. Il sacerdote informa subitola Guardia Costierae chiede un intervento di soccorso immediato. Ela Guardia Costierarimbalza l’allarme a tutti i comandi di zona e alle numerose unità che incrociano in quel tratto di mare.
A questo punto inizia l’assurdo. Un elicottero militare – rimasto sconosciuto, ma quasi sicuramente Nato: ha scritte in inglese – individua il gommone alla deriva e si avvicina per gettare acqua e un po’ di viveri ai naufraghi. Quei disperati a bordo pensano che sia ormai la salvezza: tutto lascia credere che l’equipaggio di quell’elicottero ormai abbia segnalato la loro posizione e che presto arriverà qualche nave a recuperarli. Il velivolo invece sparisce all’orizzonte e non arriva nessuno. Qualche giorno dopo i profughi, già allo stremo, scorgono una grossa nave che incrocia nelle vicinanze: probabilmente una porta elicotteri della flotta Nato impegnata contro Gheddafi a sostegno dei rivoltosi libici. Urlano, fanno segnali. Sembra impossibile che non li vedano. E invece anche quella nave tira diritto e li ignora. Lo stesso accade successivamente con un peschereccio. E, stranamente, nonostante gli allarmi ripetuti di don Zerai, non sembra scattare una ricerca sistematica e minuziosa, a tappeto, neanche quando, con il passare dei giorni, appare evidente che le possibilità di salvarli sono sempre più flebili.
A bordo si comincia a morire. Cedono per primi i più deboli: i bambini, le donne. Ad ogni giorno che passa i morti aumentano. I cadaveri vengono abbandonati in mare. Al quindicesimo giorno sono 61. Gli altri 11, i più forti o fortunati, sopravvivono solo perché le correnti spingono il natante di nuovo verso le spiagge libiche. La polizia cattura i superstiti stremati e li getta in carcere. Due di loro muoiono poco dopo. Si salvano così soltanto in 9. Alcuni di loro, appena liberi, chiamano di nuovo don Zerai e raccontano tutta la loro odissea: sono loro a riferire, in particolare, gli episodi dell’elicottero e della grossa nave porta elicotteri della flotta Nato, forse americana.
Ma sulla stampa italiana la vicenda è stata affrontata?
I giornali italiani ignorano di fatto la vicenda fino a che non se ne impadronisce la stampa straniera: il primo a parlarne, sollevando il “caso”, è il Guardian di Londra. La Nato, messa sotto accusa, nega ogni responsabilità. Ma la questione finisce al Consiglio Europeo, che dispone una commissione parlamentare d’inchiesta. I commissari arrivano in Italia, per i primi interrogatori, nel mese di settembre. Vengono ascoltati don Zerai, i responsabili Nato,la Guardia Costiera. Orasi attendono le conclusioni che, a quanto pare, tardano ad arrivare.
Nel frattempo la questione è stata rilanciata dalla Tv Svizzera, con una approfondita inchiesta: i giornalisti sono riusciti a trovare e a raccogliere le testimonianze di tutti i 9 superstiti, nel frattempo emigrati in vari paesi europei. Particolarmente toccante il racconto di uno di loro, un giovane sui trent’anni: “Quando abbiamo visto quell’elicottero e poi quella nave – ha detto – ho sollevato in alto, sulle braccia, un bambino piccolissimo, perché potessero vederlo e capire la nostra situazione disperata. E’ impossibile che non lo abbiano visto, specie dall’elicottero. Ma nessuno ci è venuto in soccorso…”.
Nel frattempo la crisi nel Corno d’Africa sembra aggravarsi, e il numero dei profughi sembra aumentare.
La grave situazione generale che si registra nel Corno d’Africa sta moltiplicando l’emergenza. Nella primavera scorsa è esplosa la carestia, che ha investito in particolare la Somalia, ma non ha risparmiato numerose regioni dell’Etiopia e dell’Eritrea. Ora che questo flagello sembra finalmente rientrare, riemergono altri grossi problemi: la rivolta indipendentista nella regione dell’Ogaden, nel sud dell’Etiopia; le persecuzioni della dittatura eritrea. Risultato: mentre si incrementa la via di fuga verso il Sinai, prendono consistenza altri flussi di profughi e richiedenti asilo verso lo Yemen (dove soltanto gli eritrei sono più di 2.000, senza contare migliaia di etiopi-somali fuggiti dall’Ogaden) e verso Gibuti. E proprio da Gibuti arriva l’ennesima richiesta di aiuto a don Zerai: l’hanno lanciata 315 eritrei (di cui 5 donne) chiusi in tre campi di internamento, dove le condizioni di permanenza e trattamento stanno peggiorando di giorno in giorno. Sono tutti ex militari che hanno disertato dall’esercito nazionale, nel quale si viene arruolati per forza, con “ferme” obbligatorie lunghissime, che durano spesso quasi la vita intera. Lasciando l’Eritrea si sono tagliati tutti i ponti alle spalle: se ritornano o vengono riconsegnati alle autorità del loro paese, li aspetta la corte marziale e una quasi certa condanna a morte. E’ la stessa condizione di molti dei giovani profughi che hanno scelto la via del Sinai e sono finiti prigionieri delle bande di predoni beduini. Gli ultimi arrivati sono un gruppo di 52, rinchiusi tutti in una sola cella. Le 5 donne sono state invece trattenute presso la Gendarmeria per gli interrogatori. Nella telefonata giunta a don Zerai si parla in particolare del diffondersi nel campo di una epidemia di Tbc, senza che siano previste cure mediche e, dunque, con un altissimo rischio di contagio. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati è al corrente della situazione, così comela Croce Rossa Internazionale.L’agenzia Habeshia chiede dunque un loro intervento sollecito per garantire almeno un minimo di sicurezza sanitaria nel campo e pretendere dal governo di Gibuti il rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951.
(II – fine)
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