Giustizia: Osapp, almeno 16mila detenuti in “contenimento chimico”. Nel cervello delle scimmie la fonte dell’ansia. Mamma in difficoltà cede la figlia ai Servizi Sociali. Ospedali: il dolore dei bambini non è considerato. Silenzio in aula: è la lezione di risata. Omofobia? in realtà è “autofobia”. La memoria ci abbandona negli ultimi due anni di vita. Perdite di embrioni: per il Codacons risarcimenti di 1 mln euro a testa.
GIUSTIZIA: ALMENO 16 MILA I DETENUTI IN CONTENIMENTO CHIMICO
(Radicali.it- Ansa) “Oltre il 40% dei detenuti in attesa di giudizio nelle case circondariali, pari ad oltre 12mila individui e oltre il 10% di detenuti condannati nelle case di reclusione pari ad ulteriori 3.500 – 4.000 sono soggetti ad una sorta di contenimento chimico nelle carceri italiane, a causa del massiccio uso di psico-farmaci” è quanto denuncia l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) in un nota a firma del segretario generale Leo Beneduci. “A leggere la lunghissima lista dei farmaci somministrati in carcere – prosegue il sindacato – c’è da rimanere esterrefatti visto che, a parte gli ettolitri di valium, nelle patrie galere si somministra praticamente di tutto, dagli antipsicotici agli ipnotici, dagli antidepressivi agli oppiacei, dalle benzodiazepine agli stabilizzatori dell’umore”. “Si tratta, spesso, di farmaci di non facile reperimento all’esterno, visti gli altissimi rischi di dipendenza e che invece in carcere vengono assunti, su prescrizione del medico dell’istituto e in presenza del personale paramedico e di polizia penitenziaria, quali medicine di contenimento in quanto somministrate non secondo tempi e modalità indicati dalle case farmaceutiche nel bugiardino, ma solo quando viene effettuato il giro della terapia interno alle sezioni”. Secondo l’Osapp: “È facile immaginare che il maggior consumo di psicofarmaci nelle case circondariali, da parte dei detenuti in attesa di giudizio, rispetto ai detenuti con condanna definitiva nelle case di reclusione, sia legato alla maggiore libertà interna per le attività sociali, ricreative o culturali di questi ultimi, rispetto ai detenuti in attesa di giudizio costretti in cella anche per 20 ore ogni giorno.” “In carcere esiste un vero e proprio borsino – indica ancora il leader dell’Osapp – tanto che, ad esempio, mezza pasticca di subtex (un oppiaceo) di regola viene scambiata con due pacchetti di sigarette, mentre venti gocce di rivotril (un tranquillante) equivalgono a 5 sigarette. In alcuni casi vengono persino preparati dei micidiali cocktail con più farmaci e non è da escludersi che tali miscugli siano direttamente collegati alle morti in carcere per overdose o per inalazione di gas dalle bombolette dei fornellini nelle celle”.“Di regola è ritenuto che la sofferenza ed il disagio nelle attuali carceri italiane siano legati al sovraffollamento (66.318 detenuti per 45.757 posti il 5 aprile 2012), all’inigienicità dei locali e alle carenze di risorse e di personale – conclude Beneduci – e non si immagina minimamente che le nostre carceri siano anche una fabbrica di tossico-dipendenti o, nella migliore ipotesi, di intossicati da abuso di farmaci con il costo che ne consegue per la società e questo sarebbe, di per se, un motivo più che valido per deflazionare subito e con immediati provvedimenti di clemenza il sistema penitenziario”.
Fonte: http://www.detenutoignoto.com/2012/04/giustizia-osapp-almeno-16mila-detenuti.html
PADOVA, MAMMA MALATA COSTRETTA A ‘CEDERE’ LA FIGLIA A SERVIZI SOCIALI
TRIBUNALE DECIDE SE DARLA IN ADOZIONE.
(DIRE – Notiziario Minori) Una giovane mamma padovana, stremata da una lunga malattia, si e’ presentata all’assessorato ai Servizi Sociali del Comune a Padova e ha consegnato agli operatori la sua bimba di quasi tre anni. Ha raccomandato loro di prendersene cura, perche’ lei non puo’ piu’ farlo. In un paio d’ore, racconta la stampa locale, e’ stata trovata una famiglia pronta ad accogliere la piccina. Ora il tribunale dovra’ decidere se la piccola dovra’ essere data in adozione, oppure se rimarra’ per un periodo, presumibilmente lungo, con la famiglia affidataria.
SILENZIO IN AULA: E’ L’ORA DI RISATA
(Repubblica.it) Da Harvard alla Sorbona, si moltiplicano nelle università i corsi che insegnano a ridere.
“Un giorno senza un sorriso è un giorno perso”, diceva Charlie Chaplin. La pensano come lui le migliaia di persone che il prossimo 6 maggio si uniranno in una fragorosa risata collettiva, in occasione del World Laughter Day, la Giornata mondiale della risata. L’evento, promosso dalla French School of Laughter and Well-Being, fondata e diretta da Corinne Cosseron, ha poco a che fare con la goliardia. Secondo uno studio dell’Università del Maryland, ridere fa bene a corpo e anima. Il professor Michael Miller, direttore del centro di Cardiologia Preventiva dell’ateneo, ha provato che sbellicarsi dalle risate per due ore davanti a un film comico ha lo stesso potenziale benefico di mezz’ora di ginnastica: “Ridere di gusto – spiega Miller – provoca il rilascio di endorfine nel cervello, che, oltre a generare un diffuso senso di benessere, migliora la circolazione e la respirazione, regolarizza pressione e battito cardiaco”.
A farne tesoro sono stati in tanti. E dagli Usa all’Europa è un fiorire di scuole della risata. Persino ad Harvard. Qui, con un tutto esaurito da mille studenti a lezione, il corso più gettonato è quello di Psicologia positiva di Tal Ben-Shahar. Il giovane professore insegna ad affrontare stress e ansia con creatività, empatia e senso dell’umorismo, puntando all’ottimismo. “La psicologia positiva – spiega – lavora sulle potenzialità di una persona per aiutarla a tirare fuori i suoi lati migliori. Insegna a star bene con se stessi e con gli altri, a circondarsi di affetti ed essere estroversi. Per stare bene bisogna cercare le novità perché ci mettono alla prova e ci risvegliano dalla quotidianità”. Per 90 minuti, si ride di gusto in classe con Ben-Shahar: racconta barzellette, snocciola battute, fa meditare i suoi studenti o proietta serie televisive tra le più ilari.
Alla Sorbona non sono da meno. Nella prestigiosa università di Parigi è nata una vera scuola della risata, ribattezzata “Sorbonne drolatique” per migliorare la società e la vita, con relatori eccellenti come lo psicanalista Boris Cyrulnik o la fumettista Marjane Satrapi.
Per alleggerire l’anima dallo stress, l’École Française du Rire et du Bien-etre di Lione si è inventata workshop che mescolano tecniche da clown, prove di creatività e la metodologia del buonumore di Annette Goodheart. Una valida alternativa è l’Hasya Yoga, lo yoga della risata, ideato dal medico indiano Madan Kataria, che nel ’95 ha dato origine al primo Club della risata (oggi in 75 Paesi, Italia compresa). Questa ginnastica lavora sulla respirazione profonda, con esercizi di risata, vocalizzi e stretching. Ridere produce un benefico massaggio interno, che libera da stress e malumori.
Vedi: http://www.repubblica.it/scienze/2012/04/08/news/scuola_risata-32998043/
OSPEDALI, SPESSO DOLORE BAMBINO NON VIENE CONSIDERATO. SOLO IN META’ DELLE 59 PEDIATRIE MONITORATE VIENE INSERITO IN CARTELLA CLINICA.
(DIRE – Notiziario Minori) Nei reparti pediatrici degli ospedali italiani, quattro bambini su 10 sentono dolore. Ma solo in meta’ delle 59 pediatrie monitorate, il dolore viene misurato e inserito nella cartella clinica. Il rimedio piu’ diffuso e’ il paracetamolo (somministrato nel 34,2% dei casi), seguito dall’ibuprofene (25,2%) e dall’associazione di codeina e paracetamolo (12,6%). E’ quanto emerge da una ricerca condotta dall’associazione Vivere senza dolore, da ottobre a dicembre 2011, e presentata questa mattina a Milano al Circolo della stampa. Sono stati intervistati anche 722 genitori di bambini ricoverati: il 40% non risulta coinvolto o informato dai medici sul dolore provato dal figlio. Nel 71,6% dei casi, e’ comunque la madre a farsi carico del problema. “L’obiettivo della nostra indagine era quello di verificare l’applicazione della legge 38 del 2010”, spiega Marta Gentili, presidente di Vivere senza dolore. Una legge che prevede, tra l’altro, la misurazione del dolore, l’inserimento nella cartella clinica e la predisposizione di cure adeguate. A distanza di un mese dal primo monitoraggio, i reparti che hanno inserito nella cartella clinica dei piccoli pazienti la valutazione del dolore sono saliti all’80%. Spesso il dolore del bambino non viene considerato. “Sono vittime di un pregiudizio secondo cui cio’ che dice il bambino debba essere valutato attraverso la lente di quello che vede e pensa l’adulto – sottolinea Franca Benini, responsabile del Centro regionale Veneto di cure palliative pediatriche dell’Universita’ di Padova-. Il dolore viene cosi’ sottostimato. Ma i bambini ne soffrono con conseguenze gravi sulla loro vita e anche sulle cure della malattie di cui sono colpiti”. Dalla ricerca emerge anche che i pediatri chiedono piu’ formazione (25%), la dotazione di algometri pediatrici (16,7%), una cartella clinica aggiornata che riporti il parametro del dolore (11,9%) e, infine, la presenza nel prontuario farmaceutico dell’ospedale dei farmaci adeguati per la cura del dolore infantile (7,1%). Ai reparti che hanno partecipato all’indagine, sono state donate le lampade di cartapesta del progetto “Accendi un sorriso”: sono state realizzate da bambini di scuole e reparti pediatrici (Wel/ Dire)
OMOFOBIA? E’ IN REALTA’ UNA FORMA DI “AUTOFOBIA”
(Articolotre.com) Una serie di indagini psicologiche condotte da Università britanniche e statunitensi confermano che l’omofobia più marcata si riscontra nei soggetti repressi. Ricercatori delle Università di Rochester e di Essex (Inghilterra) con la collaborazione di studiosi della University of California di Santa Barbara hanno condotto -per la prima volta in assoluto- studi sul ruolo giocato dai genitori e dall’orientamento sessuale nelle forme più aggressive e profonde di intolleranza verso le persone omosessuali.
Secondo gli psicologi i soggetti più orientati all’odio e agli atti violenti contro gay e lesbiche sarebbero spinti da sessualità e personalità represse, ovvero soggetti attratti dal proprio stesso sesso che a causa di genitori autoritari non hanno potuto esprimere il proprio desiderio e reale orientamento.
Una frustrazione che da adulti sfocerebbe nel rifiuto di se stessi e nella conseguente marcata aggressività nei confronti di chi invece esprime liberamente la propria omosessualità. “Gli individui che si identificano come eterosessuali -spiega la coordinatrice del progetto di ricerca dottoressa Neta Weinstein- ma che nei test psicologici dimostrano una forte attrazione per lo stesso sesso, si sentono minacciati da gay e lesbiche perché gli omosessuali ricordano loro tendenze analoghe all’interno di se stessi”.
Gli fa eco il professor Richard Ryan, docente di psicologia presso la University of Rochester: “In moltissimi casi si tratta di persone che sono in guerra con se stesse e che affrontano questo conflitto interno riversandolo verso l’esterno”.
Gli studi sono stati sviluppati in 4 esperimenti separati in Germania e negli Stati Uniti con la collaborazione di un migliaio di studenti universitari: ad essi sono stati proposti questionari da riempire, immagini da valutare e soprattutto test al computer dove, attraverso una serie di messaggi e fotogrammi subliminali, era possibile per gli psicologi valutare il livello implicito ed esplicito di omofobia di ciascun partecipante. Dalla ricerca è emerso il forte legame tra omofobia più marcata e situazioni familiari in cui l’educazione sessuale era fortemente repressiva.
Secondo la Weinstein il nuovo studio avvalora molte teorie psicoanalitiche che ipotizzavano che la paura e l’avversione verso i gay nascessero dai propri desideri repressi, tuttavia non può ritenersi completo poiché i partecipanti erano tutti studenti universitari. La ricercatrice spiega che sarebbe importante riproporlo anche con altre categorie, ad esempio adolescenti non ancora usciti di casa o anziani con una vita ormai stabilizzata.
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SANITA’. SAN FILIPPO, CODACONS: 1 MLN EURO IL DANNO PER COPPIA. RIENZI: PER NOI E’ OMICIDIO COLPOSO.
(DIRE – Notiziario Sanita’) “Lo Stato non puo’ considerare l’embrione un essere umano solo quando si tratta di aborto”. E’ iniziata con queste parole di Carlo Rienzi, presidente del Codacons, la conferenza stampa organizzata dall’associazione insieme a 7 delle 40 coppie coinvolte nell’incidente avvenuto al centro Pma (Procreazione medicalmente assistita) del San Filippo Neri, dove c’e’ stata la perdita di 94 embrioni, 130 ovociti e 5 campioni di liquido seminale. “Per noi e’ omicidio colposo- ha aggiunto Rienzi- e, oltre alle altre ipotesi di reato, chiederemo non meno di un milione di euro a coppia, perche’ il danno che queste coppie hanno avuto e’ immenso”. Nel corso della conferenza, poi, e’ stato pero’ precisato meglio, dallo stesso Rienzi, che, trattandosi di un danno ‘personale’, la richiesta di un milione di euro sara’ a persona, e non a coppia. Proprio le coppie, poi, sono state al centro dell’incontro. A loro il Codacons ha lasciato la parola.
“Non vogliamo la chiusura del centro, perche’ funziona e ci sono persone meravigliose li’, ma vogliamo sapere di chi e’ la responsabilita'” ha detto uno dei pazienti del San Filippo Neri che si era rivolto al centro di Procreazione medicalmente assistita insieme alla moglie, per avere il primo figlio, dopo anni di tentativi. “Lo Stato e la Regione ci lasciano soli- ha continuato- non ci garantiscono nulla. Siamo numeri per loro.
Sapete cosa vuol dire ricominciare adesso?”.
Le accuse contenute nell’esposto alla Procura di Roma sono chiare e dirette: alla presidente Renata Polverini, “per omessi controlli sulla struttura”, alla Asl “per rifiuto atti d’ufficio”, all’azienda ospedaliera, “per interruzione di servizio pubblico, danneggiamento e soppressione degli embrioni, specificato dall’articolo 14 della legge 40/2004”, e naturalmente, alla societa’ Air liquide “per diretta responsabilita’ nel malfuzionamento delle apparecchiature”. Il nodo piu’ problematico sara’ invece la “definizione di embrione, che il Comitato etico vede come essere umano”, ha specificato Rienzi. Da questo dipendera’ anche “la configurazione eventuale del reato di omicidio colposo e l’entita’ dei risarcimenti”.
“Io ho gia’ un figlio e ora ho paura a ricominciare- ha detto poi una delle donne presenti- sia per il mio fisico che per i soldi. Sono stati 7 anni tremendi per noi”. Tutti sono stati pero’ concordi nel sostenere in ogni caso la struttura, che in Italia e’ uno dei pochi centri pubblici sulla procreazione, mentre nelle strutture private si paga “dai 5 mila euro in su”.
“Spesso le strutture ti prendono in giro o ti usano come cavie”, ha aggiunto un papa’- tutti spingono verso il privato, tranne che al San Filippo, dove ci sono angeli veri e propri. Noi vogliamo giustizia, anche se nessuno ci ridara’ il tempo o le speranze perse”. In questo momento l’esposto e’ al vaglio della Procura, a cui il Codacons ha chiesto il sequestro, oltre che delle cartelle cliniche delle coppie anche dei contratti fra le aziende appaltatrici.
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LA MEMORIA DECLINA FORTEMENTE NEGLI ULTIMI DUE ANNI DI VITA
(Sanità News) Durante gli ultimi due anni e mezzo circa di vita la memoria, così come le capacità cognitive in genere, possono avere un tracollo drammatico con una velocità che varia dal 8 a 17 volte maggiore afferma un nuovo studio pubblicato su Neurology, la rivista medica dell’American Academy of Neurology. I ricercatori del Rush University Medical Center di Chicago hanno condotto due separati studi per comprendere gli effetti dell’età e l’allenamento mentale sul declino cognitivo. Nel primo studio, si sono osservati gli effetti degli ultimi anni di vita sulla memoria; nel secondo gli effetti sulla memoria dell’allenamento mentale per mezzo di giochi da tavolo, letture, enigmistica. «Nel nostro primo studio, abbiamo utilizzato la fine della vita come riferimento al punto di partenza per la ricerca sul declino della memoria, piuttosto che la nascita o l’inizio dello studio», spiega Robert S. Wilson, principale autore dello studio e neuropsicologo presso il RUMC.
Il primo studio che ha analizzato l’influenza degli ultimi anni di vita ha visto il coinvolgimento di 174 religiosi di entrambi i sessi che non mostravano segni di declino mentale o memoria. I partecipanti sono stati seguiti durante tutti gli anni che hanno preceduto la loro morte, che è avvenuta in un periodo compreso tra i 6 e i 15 anni. A seguito del decesso, i ricercatori hanno esaminato il cervello per riscontrare se vi fossero segni di declino cognitivo imputabili, per esempio, a malattie come l’Alzheimer, che si evidenziano con la presenza di placche e grovigli. Gli esami hanno rivelato che proprio a circa due anni e mezzo prima del decesso si verificavano i più significativi cali di memoria; cosa che non si mostrava prima di questo periodo di tempo. La presenza di placche amiloidi e grovigli neurofibrillari ha invece mostrato di essere la possibile causa di un esordio più precoce di questo declino – tuttavia pare non influisse sul tasso di declino.
Il secondo studio ha invece messo in evidenza come l’allenamento mentale mantenuto per mezzo delle letture, i giochi da tavolo, l’enigmistica e così via possono aiutare a preservare la memoria, in particolare quando si è anziani. I ricercatori questa volta hanno coinvolto 1.076 ambosessi con un’età media di 80 anni, senza tuttavia problemi di demenza senile. Anche questi soggetti sono stati seguiti per cinque anni, e sono stati sottoposti ogni anno a esami e test per valutare lo stato mentale e cognitivo. Durante l’analisi, i partecipanti dovevano riportare se e con quale frequenza leggevano riviste o libri, svolgevano giochi come gli scacchi o la dama o scrivevano lettere. I dati raccolti hanno mostrato che l’attività mentale aveva il suo peso sul declino cognitivo. In particolare l’attività ha influito sul declino in maniera simile tra le persone che si mantenevano attive mentalmente, creando addirittura i presupposti per un modello di previsione del declino. «I risultati suggeriscono un rapporto causa-effetto: l’essere mentalmente attivi conduce a una migliore salute cognitiva nella terza età», conclude Wilson.
SCOVATA LA FONTE DELL’ANSIA NEL CERVELLO DELLE SCIMMIE
(Sanità News) Passi avanti verso una comprensione piu’ chiara dei meccanismi alla base dell’ansia grazie a uno studio pubblicato online sulla rivista Nature Neuroscience. La base dell’indagine parte dalla stimolazione elettrica del corteccia cingolata anteriore pregenuale nelle scimmie, che aumenta l’attivita’ dell’area dove vengono prese le decisioni che trasmettono sensazioni negative, un effetto che viene bloccato dai farmaci anti-ansia farmaci. Questa zona del cervello pare sia implicata anche nei disturbi d’ansia e nella depressione umana e i dati suggeriscono che potrebbe essere la ‘fonte’ di queste patologie. Ann Graybiel e i suoi colleghi del Massachusetts Institute of Technology, Usa, hanno messo le scimmie in condizioni di scegliere fra un ricompensa, da ottenere pero’ dopo aver dovuto subire un fastidioso getto d’aria in faccia, e un piccolo premio privo di ‘disturbi’. Hanno rilevato che alcuni dei neuroni nella corteccia cingolata anteriore pregenuale vengono bruciati prima che gli animali scelgano fra le due opzioni. Ma la quantita’ maggiore di neuroni persi si aveva quando i primati sceglievano la ricompensa minore per evitare il getto d’aria. Stimolare i neuroni in questa area, assicurano gli scienziati, potrebbe aumentare le probabilita’ che la scimmia scelga di non ricevere il getto d’aria sul muso, accontendandosi del premio piu’ piccolo. Ma questo effetto viene bloccato quando gli animali ricevono farmaci contro l’ansia. Le persone con disturbi ansiosi e depressione sono note per avere difficolta’ nel prendere decisioni nelle quali devono valutare costi e benefici. Questi risultati, e’ convinto il team del Mit, suggeriscono che la corteccia cingolata anteriore pregenuale potrebbe essere la zona ‘chiave’ per regolare gli stati emotivi negativi e aiutare questi pazienti.
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