PREVENIRE IL SUICIDIO

Negare la correlazione fra crisi economica, depressione e quindi suicidio è profondamente sbagliato, non solo perché si nega un fenomeno macroscopico ma soprattutto perché fornisce un’ottima scusa alle autorità competenti per non prendere provvedimenti ad hoc.

Nell’articolo dell’11 maggio ho mostrato che la maggior parte delle ricerche che si sono occupate di questo fenomeno è giunta alla conclusione che questa correlazione è innegabile.

Si potrebbe obiettare che queste indagini siano giunte a conclusioni del genere perché hanno utilizzato campioni troppo ristretti, strumenti di valutazione inadeguati oppure che si riferivano a realtà troppo diverse da quella italiana.

Per fortuna alcuni ricercatori (Blasco-Fontecilla et al., “Worldwide impact of economic cycles on suicide trends over 3 decades: differences according to level of development. A mixed effect model study“) hanno condotto una ricerca monumentale prendendo in considerazione i parametri più freddi e oggettivi possibile per indagare un fenomeno che, al contrario, suscita forti emozioni: il prodotto interno lordo procapite aggiustato per tenere conto del potere d’acquisto del denaro e il tasso di suicidio. Il primo dato è stato ottenuto dalla Banca Mondiale, il secondo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, due enti decisamente super partes. Tale studio ha preso in esame un periodo di quasi 30 anni (dal 1980 al 2007) in ben 210 paesi del mondo! Questi paesi sono stati divisi in diverse macroregioni perché la correlazione fra i due parametri è diversa a seconda della posizione geografica ma i risultati sono stati inequivocabili: nei paesi in via di sviluppo la correlazione fra PIL procapite e numero di suicidi è positiva (il cambiamento troppo repentino del tessuto sociale di cui parla Stuckler), mentre nei paesi industrializzati è negativa (ad eccezione di Giappone e Corea del Sud, realtà culturali e sociopolitiche particolari). In questi ultimi la categoria maggiormente a rischio, è sempre quella dei malati psichiatrici ma è da sottolineare che anche per questi il rischio di suicidio è strettamente correlato con lo status socioeconomico, in poche parole un “matto” con i soldi ci pensa bene prima di suicidarsi, probabilmente perché può contare su un maggior numero di fattori protettivi, primo fra tutti un più facile accesso alle strutture sanitarie. A controprova della correlazione fra crisi e suicidio vi è il fenomeno opposto, ossia, nei periodi in cui i salari minimi sono elevati e vi è crescita economica, il tasso di suicidio crolla.

Dalla stessa ricerca emerge un altro dato di fondamentale importanza: nei paesi appartenenti alla Comunità Europea la spesa pubblica destinata alla sanità è uno dei predittori migliori del tasso di suicidio (ovviamente all’aumentare dell’una diminuisce l’altro).

Proprio quest’ultimo dato mi fa pensare: “Ma non sarà proprio per questo che si vuole negare l’emergenza suicidi? Così il governo non è costretto a spendere in un momento in cui invece si cerca di raschiare anche il fondo del barile!”. Forse sono solo le fantasie di uno psicologo un po’ paranoico, meglio andare avanti…

Blasco-Fontecilla continua affermando che durante le crisi economiche possono essere utili misure di prevenzione a breve termine ma è molto più importante creare strutture in grado di aiutare i soggetti depressi a lungo termine, aumentando ad esempio il numero di servizi psichiatrici e di consulenza, si è visto infatti che in Ungheria il tasso di suicidio è inversamente proporzionale al numero dei medici di base.

Fugato, spero definitivamente, il dubbio che non esista correlazione fra crisi economica, depressione e suicidio, vorrei concentrarmi su come prevenire questo fenomeno che ha per la società costi elevatissimi. Potenziare servizi psichiatrici e di sostegno psicologico è auspicabile ma certamente non è qualcosa che possiamo fare noi, forse sarebbe compito del governo.

Quello che possiamo fare noi, a cominciare dai professionisti del settore come psicologi e psichiatri, è individuare è il potenziale suicida, ma come fare?

May, Kransky e Klein (“Predicting future suicide attempts among depressed suicide ideators: a 10 year longitudinal study“) hanno condotto uno studio longitudinale di ben 10 anni su pazienti con idee suicide evidenziando 6 principali fattori di rischio: appartenenza al cluster A di personalità (schizotipico, schizoide, paranoide), appartenenza al cluster B (antisociale, borderline, istrionico, narcisistico), abuso di sostanze, stati di ansia, carenti relazioni genitoriali e scarsa integrazione sociale. Il più solido predittore di suicidio fra i depressi si è rivelato la comorbidità con i disturbi di personalità del cluster B, tutti caratterizzati da un alto grado di impulsività.

Sull’impulsività si sono concentrati molti autori, vedendo in essa la molla che serve al depresso grave per passare dall’ideazione al fatto. Su questo argomento hanno condotto un interessante studio Kleiman et al. (“The moderating role of social support on the relationship between impulsivity and suicide risk“) giungendo alla conclusione che il supporto sociale mitiga la relazione esistente fra impulsività e rischio di suicidio infatti anche soggetti che hanno evidenziato alti livelli di impulsività corrono minori rischi se inseriti in un tessuto sociale che fornisce loro sostegno.

Ruengorn et al. (“Factors related to suicide attempts among individuals with major depressive disorder“) hanno cercato di individuare quali sono i fattori che determinano il suicidio nei soggetti con disturbo depressivo maggiore. Degna di nota la premessa di questo articolo: ci si aspetta entro il 2020 che la depressione maggiore sarà la seconda causa mondiale di morbilità e mortalità.

L’identikit del suicida è maschio, giovane, single, con bassa educazione, disoccupato, senza figli, con scarso supporto sociale e sottoposto ad un evento di vita altamente stressante che notoriamente aggrava la depressione facendo aumentare il rischio di suicidio. Inoltre il potenziale suicida ha solitamente un problema di alcol o di tipo psicotico, non segue le cure prescritte e ha precedenti tentativi di suicidio personali o familiari.

Anche se quest’ultimo studio è stato condotto in un paese profondamente diverso dal nostro come la Thailandia, esso fornisce comunque dati estremamente importanti ai fini della prevenzione:

1. chi fa uso di alcol corre maggiori rischi perché esso interferisce con il sistema serotoninergico provocando disinibizione comportamentale (come sa chiunque si sia sbronzato almeno una volta), con un aumento dell’aggressività e dell’impulsività, aumentando di conseguenza le probabilità che si compia il temuto gesto estremo;

2. chi è in trattamento per la depressione da meno di un anno è maggiormente a rischio dato che il tasso di suicidio è più alto nei primi 3 mesi dall’insorgere del disturbo, fenomeno che potrebbe essere dovuto all’effetto di alcuni farmaci antidepressivi che richiedono molto tempo prima di essere efficaci e ridurre i sintomi;

3. per questo motivo è fondamentale l’aderenza al trattamento di questi pazienti che se interrompessero l’assunzione dei farmaci prescritti si troverebbero immediatamente in una situazione ad alto rischio.

E se chi ha intenzione di suicidarsi ce lo comunicasse ma noi non fossimo in grado di capirlo?

Di questo si sono occupati Owen et al. (“Suicide communication events: lay interpretation of the communication of suicidal ideation and intent“), i quali affermano che numerose ricerche hanno dimostrato che le persone che intedono suicidarsi comunicano le loro intenzioni a parenti e amici ma poco si sa di come essi interpretano tale informazione. La comunicazione di suicidio (traduzione inesatta di Suicide Communication Event – SCE) è definita come la situazione in cui il soggetto esprime pensieri, sensazioni, intenzioni o piani per suicidarsi ad altre persone nel proprio ambiente sociale esplicitamente o implicitamente. Questi autori hanno analizzato le relazioni dei medici legali di Londra, del sud est dell’Inghilterra e del Galles notando che le SCE sono sempre situazioni faccia a faccia in cui sono necessarie buone competenze comunicative (in questo recettive) perché queste comunicazioni sono spesso in confidenza (off record), indirette, ambigue, umoristiche o eufemistiche. L’ascoltatore solitamente non capisce il vero significato o le intenzioni reali di suicidarsi e fraintende facilmente ciò che gli viene detto, limitando la possibilità di indirizzare la persona ad un aiuto di tipo professionale.

Secondo gli autori è auspicabile una campagna di informazione per rendere l’opinione pubblica consapevole della difficoltà di interpretare queste comunicazioni nel caso le si ricevessero.

A volte, certi pensieri, o sensazioni non abbiamo voglia di raccontarli proprio a nessuno, neanche alle persone che ci sono più vicine, a chi rivolgersi in questo caso?

Mokkenstorm et al. (“Suicide prevention via the internet and the telephone: 113online“) hanno monitorato per un anno intero un sito di aiuto psicologico e hanno notato che un grande numero di richieste di aiuto, purché restasse anonimo, è arrivato da persone che stavano contemplando l’ipotesi di suicidarsi. Inoltre coloro che chiedevano aiuto via internet o tramite telefono quasi mai si erano rivolti o avevano intenzione di rivolgersi ai servizi istituzionali, secondo Mokkenstorm sarebbe quindi fondamentale potenziare questo tipo di sostegno perché si potrebbe colmare il vuoto lasciato dal servizio pubblico. È mia opinione che in Italia sarebbe fondamentale istituire o potenziare servizi di questo tipo perché in questo paese purtroppo esiste ancora una grande diffidenza nei confronti dei servizi psichiatrici o psicologici, per quella convinzione diffusa e mal celata che chi si rivolge a uno specialista della mente è senz’altro un pazzo e come tale va etichettato.

Aldo Gabardo


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