Lo Spiraglio – Filmfestival della Salute Mentale II Edizione

Un matrimonio, un fidanzamento, qualcosa con amore che sia agito, li ritenete un rito necessario per essere felici, o possiamo semplicemente immaginarli?” Domanda di Maurizio, in comunità psichiatrica da quando aveva 6 anni, alla platea.
Abbiamo battuto a lungo le mani dopo aver corso da una sala all’altra e dall’altra all’una.
Al primo piano dell Casa del Cinema di Villa Borghese c’è stato un continuo movimento di persone e personaggi. Sono contenta per aver giocato d’anticipo in modo da poter ritagliare una netta mezz’ora a capire la struttura dell’evento. A parole sembrava difficile da spiegare e io continuavo a chiedere parole e orari, presentazione e ordine dei fatti. Finalmente mi sono arresa e ho deciso di farmi guidare dalle immagini, sedendomi ho scoperto il trucco : nessuno, tranne guardare il più possibile le proiezioni e i partecipanti.
Lo Spiraglio- Filmfestival della Salute Mentale è alla sua seconda edizione. Durante i mesi precedenti è avvenuta la selezione dei lavori, in totale più di 100 e venerdì scorso, primo Giugno, nello spazio di una giornata sono stati mostrati i finalisti e premiati i vincitori. Due le categorie in concorso: lungometraggi e cortometraggi, per i primi posti un premio di 1000 euro e, chiaramente, ancora applausi insieme ad una bella targa per ricordare.
Il premio per il lungometraggio porta il nome di Paolo Pancheri, psichiatra appassionato che amava ridere dell’idea che la vita sia l’intervallo fra un film e l’altro. Il premio per la seconda categoria porta il nome di un altrettanto appassionato psichiatra, Fausto Antonucci, figura di riferimento nel processo di deistituzionalizzazione del Manicomio di Santa Maria della Pietà.
Un’ultimo spazio di giuria è stato riservato al pubblico che, dopo aver espresso la propria preferenza su apposite schede, ha permesso al vincitore designato, la distribuzione gratuita sul portale informatico di cinema IndieFrame.
Veniamo ai nomi per perderci poi nelle complesse strutture di incontri, parole, immagini.
La composizione della giuria mi ha ricordato i romanzi di Agatha Christie o le barzellette che iniziano con un italiano, un inglese e un tedesco. Noi abbiamo avuto un critico cinematografico, un regista, uno psichiatra, una giornalista e un infermiere psichiatrico con decenni di esperienza.
Cortometraggio vincente “L’altra verità” di Antonio Andrisano, concerto di videopoesia con Alda Merini in sottofondo e cancelli immaginari in sottovoce. Lungometraggio vincente “People in White” di una coppia finlotedesca, i Kalleinen. Ascolto silenzioso di dieci donne e uomini olandesi in terapia psichiatrica che raccontano e rimettono in scena i loro medici. Irresistibile capovolgimento di voci con irresistibile domanda da un milione di dollari: “Ma perché quello se ne sta li seduto senza dire una parola, mentre io parlo e parlo?”.
Premio del pubblico a “Trieste racconta Basaglia”, di Erika Rossi, altrettanto irresistibile capovolgimento. La città mescola ricordi corali di quegli anni ’70 durante i quali si è cercato di portare il teatro dei folli nelle strade, proprio perché causato da una condizione di eventi che solo nelle strade poteva migliorare, forse guarire. E allora il vecchio con ristorante di fronte al manicomio ricorda i personaggi “un po’ strani” che, con Basaglia capofila, non volevano mai pagare. Il tassista che ricorda il paziente appena liberato che con mille lire voleva andare a Beirut. I vecchi infermieri ricordano le vecchie distinzioni all’ingresso: “Agitati, semi Agitati e Cagoni (ebbene sì)”, dicendo anche come: ” A forza di stare qui dentro finivi a contare le mattonelle anche tu, che altro potevi fare?”
In conclusione il vecchio paziente, sulle condizioni antecedenti Basaglia e la sue équipe: “Dopo che superi certi limiti negativi dell’estetica…se deve morì.” Postilla, l’équipe era costituita da neolaureati che non sapevano bene cosa e come, ma lo facevano fino in fondo.
La giornata si è conclusa con l’assegnazione del premio “Lo Spiraglio”, assegnato dalla Fondazione Roma Solidale, partner del Festival, al cineasta Marco Bellocchio per l’insieme della sua carriera. In particolare per l’attenzione del suo stile alle metafore oniriche e introspettive e la valenza catartica raggiunta con i suoi lavori, anche sulla base di una lunga esperienza psicoanalitica personale. Se Woody Allen lo scoprisse dovrebbe cambiare terapeuta.
Il regista non è stato presente di persona ma sotto forma di intervista-ringraziamento, scritta e montata dai ragazzi del Centro diurno Pasquariello ,come lavoro finale del corso seguito presso la Scuola di Cinema Sentieri Selvaggi, co- organizzatrice del Festival. Si tratta di un’organizzazione operante sul territorio di Roma da dieci anni, coordinata dallo psichiatra Federico Russo, direttore generale del Festival, presente in sala dibattito con orecchio attento e discreto.

Qui un’altra sopresa, in questa densa e ricca confusione non pensavo di trovare ancora altro. Invece il piccolo primo piano custodiva due mostre fotografiche organizzate dal Centro Palestro e dal Centro Pasquariello. Scatti e frasi dei ragazzi, coordinati dalla vitale e sorridente insegnante Francesca Lepori. Con loro ho chiacchierato molto e ringrazio Fabrizio per avermi spiegato l’impegno di ognuno, Antonella per la vivacità ed Emanuele per avermi fatto conoscere tutti i colleghi fotografi. Ingenua, gli ho detto che aveva fatto bene a fare la sua foto a colori perché c’erano molte sfumature. Lui mi ha corretto dicendo: “Nel bianco e nero ci sono almeno 27 toni di grigio”. E meno male che ci sono le sfumature. Tra tutte le parole riporto quelle di Paolo: “…la cosa che mi piace di più è che ogni paziente che sta al Centro non è cattivo.”  La foto di copertina è una figliola del loro per-corso fotografico.
Il premio di chi scrive va ad una perlina chiamata “Tommasina” di Margherita Spampinato. Un momento di una signora malata di Alzheimer. Nonostante la condizione ogni mattina indossa grandi perle, appunto, e abbina i vestiti mescolando i fiori con il rosso e il viola. E, sempre nonostante, legge alcune parole scritte da lei su un diario: ” Non importa ricordare ciò che mi è accaduto, ho le mie cicatrici che mi distinguono e mi caratterizzano. Io sono quello che ho dimenticato”.
Altra nota, letteralmente, la offro a “Rockman” di Mattia Epifani. Documentario su Piero Longo, fondatore del Sud Sound System e del movimento reggae italiano. Da anni bipolare, leone con voce rotta e piatta e aspetto da bestia ferita in gabbia stretta. Gli amici lo raccontano omone che si batte i pugni sul petto chiamandosi “uomo di roccia”, resistendo agli effetti nebbia dei farmaci. Ad oggi Piero dice “Quando la vita ti vuole artista non sei bipolare, di facce devi averne migliaia”.
A me ha ricordato Walt Withman nel contraddirsi a volte, certo, è contenere moltitudini. Sembra giudizio leggero ma l’uomo di roccia di musica ne ha fatta e sul palco ci rimaneva anche per 6 ore, maniacalmente.
Cortometraggio impeccabile lo regala Giuseppe Piccolo, UFE nel Centro di Salute Mentale di Trieste. La sigla indica una figura presente sul posto da alcuni anni, quella di utente e familiare esperto. Esperto in cosa chiedo io, “Esperto in sofferenza“. Giuseppe, abito distinto come una iena di Tarantino. Capelli bianchi che la rivoluzione Triestina di Psi & Co. l’ha vissuta tutta e adesso offre ascolto a chi ne ha viste meno di lui. Dal lunedì al giovedì lui c’è, per sette ore al giorno. E cosa offre, chiedo ancora. Aprendo le mani osservo l’anello d’oro spesso che porta e sembra un sigillo di coscienza. ” Io non sono un medico rispondesono solo una persona che ha sofferto della vita. Con me la gente parla volentieri perché io non sono della gang (dei medici). Cosa offro? Una parola, un sorriso, ma più volentieri un caffè e una sigaretta, però in compagnia.
Normalissimo, no?


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