E SE FOSSIMO TROPPI?

Nell’articolo del 6 giugno il direttore di Psicologiaradio Carlo Cerracchio si pone giustamente il dubbio se non sia un grosso errore accorpare la facoltà di medicina con quella di psicologia. In questo modo la medicina invaderebbe spazi che non le appartengono e la psicologia acquisirebbe uno status più dignitoso, scimmiottando il modello medico. Questa motivazione alla storica fusione mi sembra più che plausibile e condivido in pieno l’idea che i medici stiano diventando ogni giorno di più schiavi delle case farmaceutiche.

E se da premesse sbagliate ne scaturisse invece un grosso vantaggio per entrambi, medici e psicologi? Se i medici acquisissero maggiori capacità empatiche e gli psicologi migliori competenze tecniche?

Non nascondiamocelo, almeno fra di noi, la laurea in Psicologia si ottiene con una facilità disarmante! Gli psicologi italiani erano 64000 nel 2010 (uno ogni 700 abitanti!) e adesso il loro numero si aggirerebbe intorno agli 80000; in pratica, in Europa, uno psicologo ogni tre sarebbe italiano. Di fronte a tali numeri si può realisticamente ritenere che questo corso di laurea sia adeguatamente selettivo? Il suo grado di difficoltà è paragonabile con quello del corso di laurea in medicina e della successiva specializzazione in psichiatria (in fondo è lo psichiatra il “nemico” storico dello psicologo)? Io rispondo no ad entrambe le domande.

Gli esami di psicologia sono quasi tutti estremamente facili, affrontabili tranquillamente con un paio di settimane di studio al massimo. E qual è l’esame più difficile di tutti? Quello che noi che abbiamo conseguito questa laurea (poco più di un pezzo di carta, vista la sua spendibilità nel mondo del lavoro) ricordiamo con terrore? “Fondamenti anatomo-fisiologici dell’attività psichica”, non a caso l’unico esame di medicina studiato su testi della facoltà omonima.

Inoltre la stragrande maggioranza degli esami riguarda la psicologia dinamica, che non è l’unico tipo di psicologia esistente (non a caso io mi rifaccio all’approccio cognitivo comportamentale), e in particolare il totem Sigmund Freud, un cocainomane austriaco morto nel 1939, ossessionato dall’idea di fare sesso con la giovane e bella matrigna e di uccidere per questo lo sventurato padre. Il buon Sigmund, tra l’altro, era proprio un medico, un fisiologo per la precisione. Nessuno nega l’importanza storica di questo mostro sacro, ma voi vi fareste operare da un chirurgo che usasse gli strumenti di cento anni fa?

Dopo la laurea è necessario un anno di tirocinio che può essere svolto praticamente in qualunque tipo di struttura, purché abbia la convenzione necessaria: può essere una cooperativa sociale, una casa famiglia o una qualche associazione per disabili.

A questo punto c’è solo da scegliere nel marasma delle scuole di specializzazione private e anche in questo caso è necessario superare un duro esame per accedervi, quello del conto in banca! E più la scuola è rinomata e più dovranno sborsare i vostri genitori (sono ben pochi infatti gli psicologi che arrivati a questo punto possono permettersi di pagare autonomamente la scuola di specializzazione in psicoterapia). Beh, diamine! Direte voi, dopo quattro anni di specializzazione saprete ormai lavorare con un paziente!

Nulla di più lontano dalla realtà: sono stati altri anni di chiacchiere (più specifiche e almeno questa volta l’orientamento l’avrete scelto voi) e per quanto riguarda la pratica, si è limitata ad altri tirocini con le stesse regole che valevano per quello post lauream.

Possiamo paragonare questo cammino inutilmente lungo (nella migliore delle ipotesi saranno passati 10 anni!) con quello dello psichiatra che dal momento in cui inizia la specializzazione sta lavorando in ospedale? Chi avrà visto più pazienti secondo voi? E quale tipo di pazienti avrà visto lo psicologo, ora psicoterapeuta?

Avrà forse trattato qualche caso di ansia, oppure una disfunzione sessuale o al massimo un paziente con una depressione reattiva. Si può affermare che questo psicoterapeuta sia stato a contatto con la follia? Quel male misterioso che ha affascinato tutti noi al punto tale di intraprendere questi studi? La mia risposta è sempre no.

Quanti di questi psicologi, sempre pronti a criticare quei “cattivoni” degli psichiatri hanno lavorato con uno schizofrenico durante una crisi psicotica? O con un depresso, di quelli veri, che magari si è dato fuoco o si è buttato dal balcone? O con un soggetto antisociale che ha appena distrutto un negozio e aggredito la polizia? E che farebbero con un paziente di questo tipo? Gli racconterebbero che ha fatto tutto ciò perché in realtà voleva trombarsi la madre e ammazzare il padre?

Beh, provate a fare una cosa del genere e bene che vada il paziente vi spaccherà la faccia!

Chi interviene in questi casi se non il medico, lo psichiatra? E in che modo opera? Somministrando i tanto vituperati psicofarmaci, indispensabili per sedare persone in una fase di acuzie; saranno pure prodotti dall’impero del male costituito dalle case farmaceutiche ma servono più di qualunque dormita sul lettino dello psicanalista.

E come mai lo psichiatra può somministrare questi farmaci e (grazie a Dio) lo psicologo non ne è autorizzato? Perché lo psichiatra, il medico, è ben consapevole del funzionamento del cervello, lo conosce come le sue tasche (o almeno dovrebbe), ne comprende appieno l’anatomia e la fisiologia. E lo psicologo che ne sa? Praticamente nulla, le sue conoscenze al riguardo derivano si e no da un paio di esami sostenuti secoli addietro. Portereste a riparare la macchina da un meccanico che non sappia nemmeno come funziona il motore? Che non ne conosca nei dettagli la meccanica?

Lo psicologo pretende di fare la stessa cosa, lavorare sui sintomi derivanti dal “malfunzionamento” del cervello senza avere la più pallida idea di come sia fatto. Sarebbe veramente un disastro se lo psicologo conoscesse meglio questa meravigliosa macchina che è il nostro sistema nervoso? Una macchina più bella e tecnologicamente più avanzata di qualsiasi Ferrari.

E come si fa una diagnosi? Premesso che per la maggior parte dei miei colleghi questo è un mistero, non si utilizza forse il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders)? Giusto o sbagliato che sia questo è l’unico manuale diagnostico universalmente riconosciuto, l’unico che consente a tutti i professionisti della mente di parlare la stessa lingua. E chi ha costruito questo manuale? L’APA (American Psychiatric Association), ancora una volta i tanto disprezzati medici.

Ultimamente pullulano i corsi di psicodiagnostica rivolti agli psicologi, come mai? Proprio per colmare questa grave mancanza. Si tratta però di corsi inutili, come tutti quelli rivolti alla nostra categoria; corsi vuoti perché estrapolati da un contesto clinico: come si può comprendere il funzionamento e l’utilizzo dell’MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory) ad esempio, se non lo si è mai somministrato a un “matto” vero invece che alla signora che viene a sfogarsi con noi perché sono troppi anni che non fa sesso?

Il medico la diagnosi la fa e basta, sono anni che lavora in ospedale e utilizza quegli strumenti e la sua specializzazione è retribuita, l’esatto contrario di quanto avviene per lo psicologo che, derelitto, deve pagare anche quella.

La verità è che sono gli psicologi gli unici clienti degli psicologi: non “battono chiodo”, hanno una professionalità limitata e non sapendo come sbarcare il lunario fondano scuole di specializzazione inverosimili che si rifanno ad approcci assurdi (esistono ancora scuole di tipo gestaltico, di psicodramma e perfino bioenergetiche) e vincolano gli sventurati colleghi ad anni di psicoterapia o supervisioni obbligatorie.

Ci farebbe poi così male avvicinarci al modello medico come avviene negli altri paesi del mondo? Sarebbe veramente una iattura?

Come mai fra le pubblicazioni scientifiche mondiali quelle degli psicologi italiani sono praticamente inesistenti al contrario di quelle dei medici? Sarà un caso che gli unici articoli di ricerca psicologica pubblicati dalle riviste internazionali più prestigiose siano quelli di neuropsicologia, la branca della psicologia che apertamente si rifà al modello medico? Si tratta quindi di una congiura mondiale per non riconoscere il nostro grande valore? O forse siamo effettivamente scarsi, usciti da un corso di laurea che non è minimamente selettivo? Al lettore la risposta.

Chiuderò raccontando una vicenda personale.

Qualche anno fa, colto da disperazione per la totale mancanza di lavoro in Italia, decisi che l’unica possibilità era quella di andarmene, ma dove? Negli Stati Uniti, in Canada o in Australia i problemi burocratici mi apparivano insormontabili, nel resto dell’Europa la situazione sembrava più o meno drammatica come la nostra, fatta eccezione per la Germania ma non avevo alcuna intenzione di imparare quella lingua così ostica e, soprattutto, di convivere con i nipotini di Hitler (chiedo perdono per l’orrendo pregiudizio).

Restava l’Inghilterra, tanti conoscenti (medici) erano andati lì a fare fortuna, adesso lavoravano tutti con stipendi da sogno, specialmente se paragonati con quelli del povero italiano. Avevo deciso:

– Che Inghilterra sia! Si mangerà pur male e pioverà tutti i giorni ma almeno potrò finalmente fare il lavoro per il quale ho studiato tutti questi anni! -.

Scrissi una lettera alla BPS (British Psychological Society) spiegando nei dettagli che ero uno psicologo e psicoterapeuta e quali esami avessi sostenuto all’università. Con mio sommo stupore mi risposero dopo un paio di giorni (in Italia sarebbe stato un miracolo solamente avere una risposta) e con estrema cortesia mi fu detto non solo che la mia specializzazione non aveva alcun valore (ahimè l’avevo ampiamente preventivato) ma anche che della mia laurea avrei potuto farne l’uso da me preferito: coriandoli, carta igienica o campo di battaglia per qualche partita a tris. Battute a parte, sostenendo alcuni esami avrei potuto iniziare gli studi dal terzo anno di bachelor, come a dire: “Ricomincia tutto da capo!”.

Come mai il medico italiano può tranquillamente lavorare in Inghilterra e lo psicologo no? Si tratta della solita congiura internazionale ordita dalla “SP.E.C.T.R.E.” dei medici oppure, più realisticamente, gli inglesi sanno bene che è troppo facile ottenere una laurea in psicologia in Italia e non vogliono avere incompetenti che pratichino una professione tanto delicata senza possedere gli strumenti e le conoscenze adatte?

Sarebbe dunque un dramma se lo psicologo italiano potesse essere equiparato alle altre professioni mediche, potendo andare a lavorare all’estero e vedendo la propria professionalità finalmente riconosciuta?

Siamo troppi, c’è poco da fare. Siamo 80000, uno Stadio Olimpico gremito in ogni ordine di posti, è logico pensare che siamo tutti bravi, in grado di affrontare questo lavoro? Non sarebbe meglio essere in pochi ma buoni? Preparati e soprattutto occupati?

La contrapposizione con i medici in generale e gli psichiatri in particolare non serve a nessuno: conferma solo il loro pregiudizio che lo psicologo è un cialtrone e ci emargina ulteriormente nel mondo della sanità. È una lotta che possiamo solo perdere perché loro hanno il coltello dalla parte del manico: la medicina ha migliaia di anni di storia, la psicologia è la neonata delle scienze, ne ha meno di 150 ed è stata fondata da un filosofo e fisiologo, quindi un medico (Wilhelm Wundt). Inoltre essi possono additare in ogni momento migliaia di psicologi e psicoterapeuti come incompetenti e mi duole dirlo ma hanno ragione: la maggior parte dei nostri colleghi è proprio così, incompetente e priva dell’umiltà necessaria per capire i propri limiti, un insight imprescindibile per poter “battere” un avversario più forte di te. Per fare un esempio calcistico è come se una squadra affrontasse il Barcellona a viso aperto, con la pretesa di giocare meglio, con l’inevitabile risultato di essere subissata di goal mentre invece l’unica possibilità di sconfiggere quei “mostri” è fare un gran catenaccio sperando di trafiggerli in contropiede.

L’ipergeneralizzazione è una distorsione cognitiva pericolosissima e credo di non esserne affetto: ci sono molti psicologi e psicoterapeuti bravissimi ma sono diventati tali con l’impegno personale, non certo grazie all’università o alla scuola di specializzazione o a questi inutili corsi di cui brulica il panorama italiano. Essi hanno studiato per proprio conto, hanno lavorato gratuitamente nelle più disparate associazioni e hanno conosciuto la vera malattia mentale, quella dei reparti psichiatrici, condotti dai famigerati medici.

Se ognuno fa bene la sua parte non c’è nessuna invasione di spazio o di competenze: la malattia psichiatrica, quella vera, può essere curata solo con i farmaci (basta sostenere posizioni utopistiche, per cortesia), dopo interviene lo psicologo, quando il paziente è in grado di collaborare nel lungo e difficile percorso terapeutico.

Esistono molti altri spazi in cui può intervenire lo psicologo: la malattia terminale o la geriatria di fronte alle quali il medico è impotente, i reparti maternità dove è necessario assistere le puerpere prima e dopo il parto, la scuola in cui il bravo professionista può individuare soggetti a rischio e prevenire il successivo sviluppo di patologie psichiatriche, la psicologia della salute e del benessere, le comunità terapeutiche e potrei andare avanti ancora a lungo. Sarà sempre un bene avere come clienti il ragazzetto che non riesce a “rimorchiare” o la signora cicciona che vuole dimagrire, perché in fondo gioverà a loro che avranno il beneficio della relazione e a noi che avremo qualche soldo in più ma, per favore, non paragoniamoci ai medici.

Ha ragione Cerracchio quando dice che il medico vede spesso il paziente come un pezzo di carne da sezionare e non ha a cuore i suoi sentimenti (evitiamo però di generalizzare) ed è vero che alcuni di essi, schiavi delle case farmaceutiche, cercano di somministrare psicofarmaci anche a chi è in lutto per la morte del gatto, ma proprio per questo, non potrebbe la storica fusione giovare anche a loro? Che imparassero finalmente ad essere empatici con il paziente che è una persona e non una cavia da laboratorio (le quali ahimè soffrono anch’esse)? Non potremmo abbandonare queste beghe campanilistiche una volta per tutte e lavorare fianco a fianco per lenire la sofferenza di chi ci chiede un aiuto che in fondo dovrebbe essere il fine ultimo di entrambe le professioni?

Aldo Gabardo


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