Pubblichiamo l’articolo di Emilio Drudi, giornalista per anni al Messaggero, autore di diversi articoli sul Medio oriente, Africa, immigrazione. Il pezzo che pubblichiamo si ricollega in qualche modo alla questione dei profughi prigionieri nel Sinai, dimenticati da tutti , una questione di cui Psicologia Radio si è occupata più volte . Il fatto che siano state trovate nel Sinai fosse comuni con cadaveri privi di organi è collegabile all’inchiesta in corso partita dal Kosovo?
Una branca del traffico di organi per i trapianti clandestini arriva anche in Europa, in Kosovo. E tutto lascia credere che una delle basi dell’organizzazione abbia operato a lungo in Israele, dove vive quello che, secondo gli inquirenti, è uno dei capi della rete criminale internazionale. E’ quanto emerge da una recente operazione di polizia che ha portato a una decina di arresti a Tel Aviv, incluso il principale sospettato, un medico israeliano.
L’inchiesta va avanti da circa quattro anni. L’ha promossa inizialmente il procuratore speciale della missione Eulex in Kosovo, Francesco Mandoi ed è stata proseguita, dal 2010 in poi, dal collega che gli è subentrato, Jonathan Ratel. Punto di partenza: la denuncia di un passeggero turco fermato casualmente per un controllo all’aeroporto di Pristina. Il giovane, sofferente e in cattive condizioni fisiche, presentava una recente, grossa ferita alla schiena: soccorso e poi interrogato dalla polizia europea in servizio al posto di frontiera, ha dichiarato che, pur essendogli stato rimosso un rene, era stato “buttato per strada” quasi all’indomani dell’operazione. Sotto accusa è finito subito un grande centro medico privato di Pristina. La prima fase degli accertamenti ha portato, entro pochi mesi, all’arresto di sette kosovari albanesi e all’imputazione di un chirurgo turco, subito battezzato “dottor Frankestein” dalla stampa kosovara: catturato a Istanbul quasi tre anni dopo, nel gennaio del 2011, è tuttora in carcere in Turchia, a disposizione della magistratura di Ankara.
Nel 2008, insieme ai sette kosovari, era stato imprigionato a Pristina anche il chirurgo israeliano ritenuto ora al vertice della “rete” ma, rimesso provvisoriamente in libertà, aveva trovato il modo di fuggire e di rientrare in Israele, dove ha continuato ad esercitare la professione medica in contatto, a quanto pare, anche con alcuni ospedali. La notizia del suo nuovo arresto, questa volta ad opera della polizia israeliana, è stata data a Pristina, verso la fine dello scorso mese di maggio, dallo stesso procuratore Jonathan Ratel. Sulla stampa europea e in particolare italiana non ha avuto molta eco, ma i media serbi e kosovari l’hanno trattata invece con grande risalto, ricordando tra l’altro che per i sette albanesi finiti in carcere nel 2008, all’inizio dell’inchiesta, nel frattempo si è aperto il processo: la prima udienza si è tenuta il 4 ottobre 2011. L’atto di accusa definisce esplicitamente il medico di Tel Aviv “l’organizzatore della rete di reclutamento di donatori e riceventi”. Ma, a quanto sembra di capire, i dieci arresti in Israele e in particolare quello del chirurgo, non sono legati soltanto al mandato di cattura internazionale emesso a suo tempo dalle autorità kosovare. Le imputazioni – appartenenza a una rete internazionale per il traffico di organi umani, estorsione, frode fiscale, lesioni corporee permanenti – nascono da un nuovo filone di indagine condotte in gran segreto dopo che, nel 2009, anche sulla scia del rapporto presentato da Dick Marty, membro del Consiglio d’Europa ed ex procuratore del Canton Ticino, diversi paesi hanno sollecitato il governo di Gerusalemme ad aprire una inchiesta sul traffico di organi nel proprio territorio, poiché si era scoperto che in Kosovo erano implicati in questo assurdo, terribile mercato anche cittadini israeliani.
Secondo quanto è stato ricostruito dalla polizia di Tel Aviv, la rete criminale reclutava “donatori” in Israele soprattutto tra i lavoratori immigrati più poveri e senza prospettive, braccianti a giornata o disoccupati, in particolare turchi, inviandoli poi in Kosovo e in Azerbaijan per l’espianto. Ma Israele era, a quanto pare, solo una delle zone di “ingaggio”: giovani disposti a cedere un proprio organo, in genere un rene, venivano cercati nelle regioni più emarginate e depresse della Moldavia, della Russia, del Kazakhstan. Il compenso, per chi accettava, variava tra i 15 e i 20 mila dollari mentre i malati che ricevevano la vita da quei disperati dovevano pagarne dai 130 ai 150 mila.
L’inchiesta non parla di vittime africane. Ma èforte ilsospetto che siano finiti nella rete, attraverso Israele, anche uomini e donne fuggiti dal Corno d’Africa e dalla regione sub sahariana. A sollevarlo, all’indomani della notizia dei dieci arresti a Tel Aviv, è stato il gruppo Everyone per i diritti umani, ricordando il dramma dei tantissimi costretti ad abbandonare il proprio paese da guerre, fame e persecuzione e poi spariti nel nulla proprio mentre cercavano di raggiungere il confine israeliano nel Sinai. Sono centinaia, forse migliaia infatti – come ha segnalato più volte anche l’agenzia Habeshia, denunciando la tragedia dei profughi schiavi – i giovani di cui si è persa ogni traccia negli ultimi due anni. Ed è noto che ai margini della frontiera di Israele operano bande di predoni beduini che prendono prigionieri gli esuli in cerca di asilo, chiedendo un riscatto di almeno 35 mila dollari a testa per liberarli e vendendo chi non riesce a pagare sul mercato dei trapianti clandestini. Anzi, da diversi mesi emissari dei trafficanti reclutanodirettamente i migranti nei campi di raccolta in Sudan e in Etiopia, con il miraggio di un “passaggio facile” in Israele attraverso il Sinai. Non a caso Everyone ha sottolineato che sono state trovate nel deserto diverse fosse comuni contenenti cadaveri di africani privi di alcuni organi. C’è un collegamento, allora, tra il dramma dei profughi schiavi, i recenti arresti a Tel Aviv e l’inchiesta partita dal Kosovo? E’ prematuro formulare ipotesi. Certamente viene da sospettarlo. E, in ogni caso, quanto è emerso a Pristina e a Tel Aviv conferma la necessità di promuove una indagine globale, magari affidata all’Interpol, sul traffico di organi per i trapianti clandestini in tutto il Medio Oriente. E’ un obbligo a cui ormai la comunità internazionale (Onu, Unione Europea, singoli stati nazionali) non può più sottrarsi. Habeshia, insieme a una rete di organizzazioni umanitarie europee, americane e canadesi, ha anche segnalato ripetutamente l’identità di alcuni dei personaggi che sarebbero a capo di questo mercato di sequestri e di morte. Si potrebbe partire proprio da queste denunce.
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