“PERCHÉ IO SONO IO E VOI NON SIETE UN CAZZO”

Bambino conteso a PadovaHa sconvolto la sensibilità di tutti il caso del bambino conteso tra padre e madre a Padova. Non può avere giustificazione il modo con cui il piccolo è stato afferrato per le braccia e per le gambe, trascinato per terra, caricato di forza su un’auto della polizia. Qualunque fosse il contesto e a fronte di qualsiasi difficoltà ad eseguire l’ordinanza del Tribunale dei minori sulla controversia tra i genitori. Ma al di là del momento drammatico della “traduzione forzata” dalla scuola alla volante della Questura – che resta l’aspetto emotivamente e sostanzialmente più grave, proprio perché si tratta di un bimbo di appena dieci anni – ciò che, subito dopo, appare forse più sconcertante è l’atteggiamento dell’ispettrice di polizia la quale, rivolta a una zia del bambino, esclama: “Non sono tenuta a fornire spiegazioni… Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”.

E’ un’affermazione assurda, assolutamente non accettabile in bocca ad un agente di pubblica sicurezza in un paese democratico. Un’affermazione che, per certi versi, appare “figlia della Diaz”. Che cioè – fatte ovviamente le debite differenze sulla gravità dei fatti – sembra nascere da quella stessa mentalità sul ruolo di “tutore dell’ordine” che, non opportunamente controllata e contrastata, ha portato alla vergogna della “macelleria messicana” contro i ragazzi no-global del G-8 nella scuola di Genova. Un assalto a freddo, spietato come una vendetta, che – come ha sottolineato la Corte di Cassazione nella motivazione della sentenza definitiva di condanna – ha gettato di fronte al mondo un discredito indelebile sul nostro Paese. Peggio: ha segnato un regresso della democrazia con la cancellazione, quella notte e nei giorni seguenti, dei diritti fondamentali dell’uomo. Ed è proprio questa mentalità, probabilmente, che sempre più spesso porta agenti e carabinieri all’attenzione delle cronache e magari sul banco degli imputati per abusi e prepotenze.

“Non sono tenuta a dare spiegazioni…”, ha detto quell’ispettrice. E invece no. In una democrazia la polizia è tenuta a fornire spiegazioni. Specie in un contesto come quello che si era creato, con un bambino strattonato, portato via di peso e caricato su una volante contro la sua volontà. Uno scenario che, visto come appare nel filmato trasmesso da tutte le reti televisive, sembra configurare un abuso o magari anche un reato. E di fronte a un possibile abuso o reato, ogni cittadino ha il diritto, addirittura il dovere di intervenire e di chiedere chiarimenti. Anche se di fronte ha un poliziotto. Anzi, soprattutto se ha di fronte un poliziotto. Proprio perché, in tutte le democrazie, ogni tutore dell’ordine è un “cittadino in divisa” al servizio della comunità, mille miglia lontano da un “caporale” al servizio di un “potere” qualsiasi, autorizzato a sentirsi in qualche modo superiore ai semplici “uomini comuni”. Ai tanti “nessuno”.

Ed ecco, appunto, la seconda parte dell’affermazione, che sembra per certi versi completare e spiegare la prima frase: “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno”. Un’affermazione confermata, in un certo senso, dalla successiva denuncia della Questura, per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, contro la zia materna e il nonno del bambino. Una denuncia che, arrivata mentre stavano esplodendo le proteste per quanto è accaduto, rischia di apparire una difesa a oltranza e a priori dei rappresentanti della polizia. Anche in una situazione come questa, nella quale sono tantissimi gli interrogativi, i dubbi, le cose da chiarire. E da cui, forse, prendere le distanze. Perché è verissimo che quegli agenti, ispettrice inclusa, stavano eseguendo l’ordinanza di un magistrato, alla presenza del padre del bambino. E magari sarà vero che nonno e zia del piccolo hanno cercato di opporsi. Ma in quella stessa ordinanza era specificato chiaramente che, in buona sostanza, bisognava agire con tatto e discrezione, senza creare traumi (e conseguenze forse irreparabili) proprio al bambino che si vuole tutelare. Se c’è qualcosa di cui, invece, non c’è stata traccia, nel momento cruciale di questa vicenda, sono proprio il tatto e la discrezione. Tanto da costringere persino il Governo e il capo della polizia a scusarsi.

Allora, probabilmente, è necessario un ripensamento. Una riflessione profonda. Le scuse in sé non bastano. Perché quelle parole denotano un distacco enorme dai cittadini, dalla gente comune che una polizia democratica deve tutelare e di cui è al servizio. “Io sono un ispettore di polizia e lei non è nessuno…”. Sembra quasi: “Io sono io e lei non conta nulla”. Non è qualcosa che possa trovare posto in una democrazia. Lasciamolo alla Roma papalina e reazionaria del marchese del Grillo.


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