“Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia”, scrive Roberto Saviano su La Repubblica a proposito di Lino Romano, il giovane massacrato dalla camorra, per un errore di persona, il 15 ottobre scorso, nel rione napoletano di Scampia. La democrazia è morta con lui, spiega Saviano, perché il suo assassinio è stato avvertito come un “fatto normale”, una notizia che i media, giornali e televisioni, hanno ritenuto di dare “in coda alle altre e non la notizia principale, da dare per prima”. Solo una notizia tra le tante, in terra di camorra. Ignorata dal Governo, che non si è nemmeno presentato ai funerali. E da un’Italia che “non si indigna più”.
“La democrazia è morta – scrive ancora Saviano – non solo perché Lino è caduto innocente, ma perché per urlare che si trattava dell’ennesimo ragazzo innocente ucciso a sangue freddo e senza motivo, si è aspettato di capire a che famiglia appartenesse, chi fossero i suoi parenti”, quasi a significare che se avesse avuto magari “un lontano parente affiliato o coinvolto in fatti di camorra”, sarebbe stato “meno innocente”. E ancora: “Che paese è quello che non ha sentito il bisogno di andare in massa alla fiaccolata per Lino? E il governo, perché non è andato ai funerali? Avrebbe dato un segnale fondamentale. In questi territori manca giustizia, istruzione, ordine pubblico, lavoro, impresa, l’ambiente è a pezzi: tutti i ministri avrebbero trovato cose da dire e, soprattutto, avrebbero avuto molte, moltissime cose da ascoltare”.
E’ impossibile non essere d’accordo con questa denuncia. Anzi, forse la situazione è anche peggiore. Forse quel ragazzo per bene ha potuto morire così, ammazzato da un sicario nelle strade familiari del suo quartiere, perché la democrazia era già morta. Uccisa, sepolta dall’indifferenza già ai tempi della prima faida tra i clan camorristici a Scampia. L’atto di morte si legge nelle parole di un ragazzo per bene come Lino, intervistato mentre ogni giorno, nei vicoli del rione, c’era una mattanza fatta di sparatorie, vendette, uccisioni, esecuzioni a freddo. Si chiamava Ciro. Non lo intervistarono per i problemi di camorra. Il servizio riguardava il lavoro e il futuro dei giovani nel Meridione d’Italia. Ma lui li tirò fuori quei problemi. Con lucidità e coraggio. Dimostrando che ormai in tante, troppe zone d’Italia, non si può parlare di lavoro e futuro senza fare i conti con il potere infinito della criminalità organizzata. Era un trasfertista, un carpentiere che strappava la vita lavorando nei cantieri di una grossa impresa nel Nord Italia. Cantieri soprattutto di grandi opere pubbliche. Ogni 20, 30 giorni tornava a Napoli, a Scampia, per il fine settimana. “Scappo a casa”, diceva. Ed era proprio una “scappata” veloce, una fuga: appena finito il turno del venerdì pomeriggio, prendeva il treno, uno di quei vecchi “intercity” a poco prezzo, che percorrevano tutta l’Italia e che le Ferrovie ora hanno abolito.
Viaggiando la sera tardi, arrivava a Napoli di notte. Giusto il tempo di passare meno di 48 ore con la famiglia e gli amici e poi riprendeva il treno la domenica sera, cercando di dormire un po’ fino all’alba, stretto nel vagone tra altri trasferisti come lui, per essere di nuovo al lavoro, nel cantiere, il lunedì mattina, prima delle sette. “Ormai mi sento un estraneo ovunque – diceva – Sto tagliando le mie radici a Napoli, perché riesco a tornare meno di due giorni al mese e, dovendo seguire gli spostamenti della ditta, mi è impossibile metterne altrove. Però non ho alternative. Perché restare a Scampia per i ragazzi significa solo due cose: o non trovare alcun tipo di lavoro o finire nella spirale della camorra. E allora è meglio andarsene. Anche a costo di fare la vita da sradicato che sto facendo…”.
Un’analisi cruda, quasi feroce. Di più: era un grido d’aiuto. Ma nessuno lo ha voluto ascoltare. Eppure quel ragazzo stava denunciando un mondo di morte. Perché non c’è vita in un paese senza prospettive di lavoro e di futuro per i suoi giovani. Ed è morta una democrazia che non si accorge o fa finta di non accorgersi di tutto questo. Il risultato – come scrive ora Saviano – è quello che accade e sta emergendo sempre di più: “La crisi sta regalando ai cartelli criminali l’intero Mezzogiorno italiano e si affaccia sulla totalità del paese”. Ma ancora una volta il governo, la “classe dirigente”, non sembrano avvedersene e comunque non ne tengono conto. Continuano a restare indifferenti. Assenti. Mentre l’Italia intera pare abbia perso la capacità di indignarsi.
Così la democrazia continua a morire. E’ morta anche quando questo paese ha lasciato spegnersi, per sete e inedia, le vite di 63 profughi africani, abbandonati alla deriva per due settimane, su un gommone in avaria, nel canale di Sicilia, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 2010: un autentico massacro legato anche all’assurda politica dei respingimenti indiscriminati in mare dei migranti e alla cultura montante di chiusura, ostilità, razzismo verso i “diversi”. E’ morta, la democrazia, quando il Governo, i partiti, buona parte dei sindacati hanno taciuto e l’Italia non si è ribellata di fronte a una palese violazione della Costituzione come il rifiuto, da parte della Fiat, di assumere nella nuova azienda di Pomigliano gli operai “scomodi”, quelli iscritti alla Fiom che ne contestavano la politica industriale. Ci sono volute due sentenze della magistratura per evidenziare l’abuso: per ribadire che non si possono fare discriminazioni in base alle idee politiche e alla tessera che uno ha in tasca. Ma anche dopo il verdetto dei giudici la politica e il Governo sono rimasti “tiepidi”. Sfuggenti.
E muore ogni giorno, la democrazia, nei continui attacchi portati alla Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza e da un secolo di lotte per i diritti fondamentali. In un paese triste, che sembra aver dimenticato come al centro della politica, dell’economia, della vita civile, della società, debba esserci sempre e comunque l’uomo.
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