Le commissioni europee per gli affari interni e per i diritti umani non considerano positivi, anzi, tendono a sconsigliare gli accordi bilaterali tra singoli stati dell’Unione e altri governi per il controllo dell’emigrazione. E stanno studiando il sistema per rendere meno chiuse le frontiere della “fortezza Europa”, specie per i profughi e i richiedenti asilo. Sia pure non espresso in termini espliciti, appare per molti versi un richiamo all’Italia che ha rinnovato con la Libia del dopo rivoluzione, tra febbraio ed aprile, il trattato generale di collaborazione e, soprattutto, l’accordo sui migranti, ricalcando nella sostanza quello sottoscritto nel 2009 da Berlusconi e Gheddafi. Quell’accordo contestatissimo che è alla base della condanna pronunciata nei confronti del nostro Paese dalla Corte per i diritti umani di Bruxelles e, successivamente, dal Consiglio d’Europa di Strasburgo. Quasi contemporaneamente si è concretizzata, a livello internazionale, un’altra decisa forma di pressione su Palazzo Chigi, in relazione ai rapporti con la Libia: Amnesty ha consegnato al ministro Anna Maria Cancellieri la petizione con circa 30 mila firme, raccolte negli ultimi due mesi in tutta Europa, per la revoca dell’accordo sul controllo dell’emigrazione, che proprio lei ha firmato come responsabile del dicastero degli interni, e perché non ne vengano fatti altri, di alcun tipo, fino a quando il governo libico non garantirà il rispetto dei diritti umani in tutto il paese.
La presa di posizione delle commissioni europee arriva sulla scia dell’incontro che l’11 ottobre si è avuto a Bruxelles con don Mussie Zerai. Il portavoce dell’agenzia Habeshia ha messo a disposizione di Cecilia Malmstrom, commissario Ue per gli affari interni, un eloquente dossier sulla situazione generale dei rifugiati in Libia e, in particolare, sulle condizioni di vita nelle carceri e nei centri di detenzione, citando località, episodi, personaggi, testimoni pronti a confermare le denunce che la stessa Habeshia ed altre organizzazioni umanitarie stanno facendo da mesi, anni, senza trovare ascolto. Casi concreti e documentati, che hanno dato forza alla richiesta rivolta all’Europa di assumersi la responsabilità di attenuare, in tutti gli stati dell’Unione, la chiusura che ha caratterizzato finora la politica dell’accoglienza e di abbattere progressivamente, dunque, il sistema di “frontiere blindate” che continua a provocare vittime, sofferenze, soprusi, annullamento dei diritti più elementari. Basti ricordare che, come ha censito il Commissariato Onu per i rifugiati, almeno 1.500 persone, inclusi bambini piccolissimi, spesso famiglie intere, scompaiono ogni anno nel Mediterraneo, inghiottiti dal mare mentre, a bordo di vecchi barconi buoni solo per la rottamazione, cercano di far rotta dall’Africa Settentrionale all’Europa. In particolare verso l’Italia, la frontiera europea più vicina, anche se rigidamente sbarrata, con le chiavi affidate in sostanza alla polizia libica.
Proprio questo è uno dei punti su cui, forte del dossier presentato, don Zerai ha insistito di più. “E’ assurdo – ha denunciato alla baronessa Malmstrom e alla Commissione – che alcuni Stati membri dell’Unione, come l’Italia, sottoscrivano accordi con governi che non rispettano i diritti più elementari ed universalmente riconosciuti ad ogni uomo e, a maggior ragione, ai profughi e ai rifugiati, gli ultimi degli ultimi. La Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela di profughi e migranti, non può fare il gendarme d’Europa, violando ogni legge e calpestando la dignità umana. Lo stesso vale per altri governi del Nord Africa”. E questa denuncia sembra aver fatto breccia. A parte l’orientamento a non favorire accordi bilaterali da parte di singoli stati della Ue con partner nordafricani in tema di emigrazione, la Commissione ha assicurato che non appena il nuovo governo libico si sarà insediato ed entrerà nel pieno dei suoi poteri, verranno presi contatti ai massimi livelli per chiedere la garanzia del rispetto dei diritti di tutti gli stranieri presenti nel paese e piena libertà di accesso per i funzionari del Commissariato Onu per consentire verifiche e controlli costanti. Specie nelle carceri e nei centri di detenzione.
Una settimana dopo questi impegni presi a Bruxelles, venerdì 19 ottobre, è maturata poi l’iniziativa di Amnesty International, che a sua volta ha incontrato don Zerai presso la sede del Consiglio europeo e che per prima ha contestato il contenuto del trattato sull’emigrazione firmato in aprile tra Italia e Libia. Fin da quando è riuscita rompere lo strano “silenziamento” che lo circondava, Amnesty ha chiesto al governo Monti di revocare quell’accordo, mai discusso in Parlamento e in evidente contrasto con i diritti umani, lanciando una campagna a livello europeo. In poco più di due mesi sono state raccolte quasi 30 mila firme e venerdì sera la petizione è stata consegnata al ministro Anna Maria Cancellieri perché le sottoponga a Palazzo Chigi. “La nostra battaglia – ha dichiarato Giusy D’Alconzo, direttrice dell’ufficio ricerca di Amnesty – non si ferma con la consegna di quell’appello forte di 30 mila firme. Continueremo a fare pressioni affinché gli accordi con la Libia siano cancellati e non ne vengano sottoscritti di nuovi sino a quando nel paese non saranno garantiti i diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, adesso in forte pericolo”. Il primo passo della nuova mobilitazione si è avuto la sera stessa che si è conclusa la sottoscrizione, con l’invio di decine di video appelli al ministro Cancellieri, proiettati su alcuni dei monumenti più famosi di Roma.
Si fa strada, intanto, una nuova contestazione sulle priorità scelte dal governo Monti. Punto di partenza, l’ultima relazione del ministero della Difesa sull’acquisto di 90 F-35, i nuovi caccia bombardieri per l’Aeronautica. Era già noto che si tratta di una spesa enorme: 80 milioni di euro ad aereo. Ora è venuto fuori che questa cifra è largamente sottostimata. Ottanta milioni è il costo di un caccia “nudo”, senza attrezzature, servizi, armamento, ecc. Un F-35 completo, inclusi i ricambi, verrà a costare 130 milioni per il tipo a decollo tradizionale e 135 per quello a decollo verticale. Per ogni aereo, una spesa pari a più del doppio del finanziamento totale destinato alla cooperazione. Ovvero, alle politiche rivolte ad aiutare i popoli del Sud del mondo. A cercare di creare le condizioni perché la gente, i giovani soprattutto, non siano costretti ad abbandonare la propria terra, scacciati da fame, persecuzioni, guerra, mancanza di prospettive per il futuro. Diverse associazioni umanitarie chiedono ora di cambiare rotta. Di “svuotare gli arsenali e di riempire i granai”, come diceva il presidente della Repubblica Sandro Pertini, un grande italiano. Perché si tratta di una sperequazione devastante: uno solo di quegli strumenti di morte costa l’equivalente di circa 90 mila giornate di lavoro, quasi 30 anni, in uno dei paesi da cui arrivano profughi, rifugiati e migranti. Dove si è costretti a strappare la vita con appena due dollari al giorno.
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