L’INTEGRAZIONE SCOLASTICA: REALTA’ O FANTASIA (II parte)

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In aiuto del professore può venire l’assistente specializzato, che non ha però una formazione specifica, bastando un diploma superiore per svolgere questo lavoro. La maggior parte di questi assistenti sono studenti in psicologia o psicologi che pur di sbarcare il lunario accettano una mansione sottopagata e decisamente inferiore alle proprie qualifiche. Capita così che se il ragazzo assistito presenta delle difficoltà particolari in qualche materia, l’aiuto che possono dargli è minimo ma se si tratta invece di uno dei casi gravi già citati è probabile che ne sappiano molto di più dell’insegnante di sostegno, pur venendo pagati una miseria e non avendo alcuna garanzia contrattuale (visto che sono pagati esclusivamente per le ore di lavoro svolte) rispetto a quest’ultimo, del quale si trovano spesso a colmare le mancanze (assenze per malattia, gravidanza, aspettative varie, etc.).

Queste due figure, l’insegnante e l’assistente, per motivi diversi, non riescono comunque a coprire l’intero orario dell’alunno disabile: il primo perché ha a disposizione un monte ore di 18 da distribuire su più studenti e il secondo perché la scuola, con i fondi della Provincia, non può permettersi di pagarlo per 24, 30 o addirittura 36 ore a settimana, tanto che se ne ha 10 a disposizione è già un successo.

E cosa succede quando un ritardato mentale grave rimane da solo in classe? Se non ha problemi comportamentali “vegeta”, seduto solo al suo banco, rimane immobile e silenzioso o nel migliore dei casi scarabocchia su un foglio, se invece si tratta di un soggetto iperattivo sono guai: inizierà a dare fastidio ai compagni, a fare versi e rumori di ogni genere, sbatterà le sedie e i banchi e nei casi peggiori aggredirà verbalmente o fisicamente compagni e insegnanti. Del resto come si può pretendere che una persona che non sta capendo nulla di quello che gli succede intorno rimanga seduta e attenta per mezzora, un’ora o addirittura di più? Ciò è impossibile e reazioni dirompenti sono inevitabili e più che giustificate. La logica conseguenza è che il professore non riesce a svolgere regolarmente la lezione e che i compagni di classe sono infastiditi dai comportamenti bizzarri del compagno.

Alla luce di quanto detto, ha senso parlare di integrazione? Badate bene, non voglio essere frainteso, mi riferisco esclusivamente ai casi di ritardo mentale medio, grave o profondo. Ha senso spendere, in un periodo di così grave crisi, tutti questi fondi pubblici per mantenere in piedi questo traballante e costoso castello di carta? E in nome di cosa? Di un buonismo ipocrita che ci fa sentire tutti in pace con la coscienza perché anche gli handicappati gravi in fondo sono ragazzi come tutti gli altri?

Non sono ragazzi come gli altri e negarlo arreca un grave danno a tutti, a cominciare dalle famiglie che vengono illuse da questa falsa promessa di integrazione.

E se accettassimo tutti la realtà e iniziassimo ad aiutare questi ragazzi meno fortunati partendo proprio dalla loro innegabile diversità? Se cercassimo di comprendere profondamente le loro risorse e le loro mancanze, utilizzando le prime per compensare le seconde?

Io non credo che il modo migliore sia insistere con questa ipocrita farsa dell’integrazione ma proprio il contrario: creare delle scuole speciali adatte ai ragazzi con ritardo mentale. Con tutti i soldi che vengono buttati per questa pantomima di integrazione non si potrebbero forse creare centri di questo tipo?

Prima di tutto ci lavorerebbe personale qualificato (sarebbe anche un bel modo di dare lavoro agli psicologi la cui stragrande maggioranza non sa dove sbattere la testa) e non improvvisato come gli insegnanti di sostegno (che tornerebbero a fare il lavoro per cui sono qualificati) o gli assistenti specializzati. Si potrebbero poi allestire ambienti e strutture idonei: aule di informatica con ausili specifici (ad esempio tastiere facilitate e monitor “touch screen”), laboratori che simulano situazioni lavorative specifiche per la terapia occupazionale, palestre prive di barriere architettoniche o oggetti che possano in qualche modo risultare pericolosi (in quelle delle scuole ci sono sempre reti, sbarre, chiodi sporgenti o canestri pericolanti). Una scuola così organizzata consentirebbe di migliorare sensibilmente la vita dei ragazzi e delle loro famiglie sotto tutti gli aspetti, a cominciare da quello comportamentale. Infatti per intervenire sui comportamenti problematici dei ragazzi con ritardo il prerequisito fondamentale è che tutti gli operatori lavorino nella stessa direzione, in modo inflessibilmente coerente fra di loro, ciò è possibile solo in centri con personale altamente preparato e organizzato, esattamente l’opposto di quello che è la scuola pubblica. Farò un esempio.

Un modo per ridurre la frequenza dei comportamenti problematici e incrementare quelli desiderabili è instaurare un regime di token economy: il ragazzo viene dotato di un budget di gettoni (token) a inizio settimana e ne riceve altri per ogni comportamento richiesto che mette in atto mentre ne perde alcuni per ogni comportamento indesiderato. Alla fine della settimana potrà spendere i gettoni accumulati per una ricompensa a lui gradita o continuare ad accumularli per ricevere in futuro un premio migliore. La token economy, oltre a ridurre i comportamenti problematici, è un buon modo per far capire in modo semplificato il valore del denaro a questi ragazzi, senza fargli adoperare euro e centesimi che sono troppo difficili da padroneggiare per chi ha problemi a compiere un’addizione come 2+2. In queste scuole sarebbe parte fondamentale delle giornata la terapia occupazionale: invece di spiegare chi era Giulio Cesare o analizzare la noiosissima vicenda dei Promessi Sposi (di cui non importa niente ai ragazzi “normali”, figuriamoci a quelli con ritardo mentale), nozioni assolutamente inutili e non spendibili nella vita quotidiana, si potrebbe insegnare agli alunni disabili come si puliscono le finestre o come si spazza per terra, come si inseriscono dei semplici dati in un computer, come si controlla se in un barattolo di marmellata c’è finito un topo o altre mansioni che potranno sfruttare per un eventuale inserimento lavorativo. Anche lo sport dovrebbe essere parte integrante della giornata scolastica, non solo per potenziare i fisici, solitamente deboli di questi ragazzi ma anche per inculcare loro il valore del lavoro di squadra, l’accettazione della sconfitta (frustrazione) e il piacere della sfida. Nella scuola come la conosciamo noi lo sport è praticamente assente e questo è ancor più grave per questi ragazzi che avrebbero assoluto bisogno di sfogarsi per abbassare il proprio livello di attivazione, prevenendo quindi i comportamenti distruttivi che spesso conseguono a questa situazione di stasi forzata.

I genitori più attenti (e facoltosi) provvedono per proprio conto a fare in modo che i figli svolgano terapia cognitiva, comportamentale, logopedica, occupazionale e attività sportiva presso strutture private con costi elevati sia in termini di tempo che di denaro. Se queste attività possono essere infatti svolte gratuitamente fino ad una certa età (di solito i 14 anni) presso strutture pubbliche o convenzionate (se si riesce a entrarvi), ciò non è più possibile quando i disabili diventano troppo grandi e vengono forzatamente dimessi. Il genitore del disabile a questo punto si trova di fronte al caos dei centri privati, da quelli formati da volontari a quelli che pensano esclusivamente a lucrare sulle disgrazie altrui, da quelli composti da personale altamente preparato a quelli con operatori che si trovano lì quasi per caso. La qualità delle organizzazioni private è difficilmente quantificabile, mentre se si trattasse di poche scuole statali specifiche sarebbe molto più semplice per gli organi deputati (ad esempio AUSL) controllarne il buon funzionamento. La vita delle famiglie verrebbe estremamente semplificata, visto che i genitori non dovrebbero più correre di qua e di là per portare il figlio a svolgere diverse attività che avverrebbero invece nel medesimo luogo. Nel corso della mia attività ho spesso avuto la sensazione che i genitori dei ragazzi con ritardo mentale fossero ben consapevoli dell’inutilità delle attività svolte a scuola e che utilizzassero quest’ultima esclusivamente come “parcheggio” per il figlio durante l’orario lavorativo, del resto allo stato attuale, non hanno alternative.

I dettagli tecnici su come si potrebbero creare le scuole che immagino non li conosco, del resto non sono un politico e non desidero neanche diventarlo: sono sicuro però che i fondi pubblici (le somme ingenti che vengono sprecate in questa enorme e inutile macchina assistenziale scolastica) e privati (i soldi che i genitori spendono per finanziare associazioni e terapie private, donazioni e sponsorizzazioni a vario titolo) sarebbero più che sufficienti per realizzarle.

In conclusione, ritengo che sia arrivato il momento di strappare questo ipocrita velo di buonismo dell’integrazione scolastica a tutti i costi e rendersi invece conto che continuando così non aiutiamo i soggetti con ritardo mentale grave ma anzi rischiamo che nella vita vera, quella che viene dopo la scuola, siano più isolati che mai. Perché non impegnarsi per una vera integrazione nella vita futura, invece di insistere con quella effimera che avviene nella scuola?

Aldo Gabardo


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