Si apre con l’intervista ad Alfredo Tadardi una serie di confronti sul tema del conflitto israelo-palestinese. Alfredo Tradardi è da anni in prima linea a livello internazionale a sostegno della causa palestinese. Ingegnere, dipendente dell’Olivetti dal 1960 al 1991, ex assessore alla cultura al Comune di Ivrea, è il coordinatore di International Solidarity Movement Italia e tra gli organizzatori della Freedon Flottiglia che tenta periodicamente di forzare il blocco navale israeliano intorno a Gaza per portare aiuti alla popolazione e soprattutto denunciare di fronte al mondo l’isolamento a cui è costretta. Autore, insieme a Diana Carminati, di “Boicottare Israele. Una pratica non violenta”, un libro pubblicato nel 2009 per le edizioni Derive Approdi, è da sempre sostenitore di posizioni controcorrente rispetto al “sentire” più diffuso sulla questione della Palestina e le soluzioni per il conflitto arabo-israeliano e, più in generale, per un nuovo assetto del Medio Oriente. Può essere interessante, dunque, ascoltarne le opinioni all’indomani dei bombardamenti israeliani su Gaza e dei razzi lanciati su Israele da Gaza, che per la prima volta hanno colpito anche Tel Aviv e Gerusalemme.
Oltre 150 morti (più di un terzo donne e bambini), centinaia di feriti anche gravi (la metà donne e bambini), distruzioni, nuove incursioni aeree, bombardamenti anche dal mare. Ora è stata concordata la “tregua” ma la situazione resta molto pesante e incerta. Cosa sapete in più da Gaza? Come reagisce la popolazione? Ha fiducia che la tregua possa reggere o teme che possa saltare, aprendo magari la strada a una invasione da terra? Che cosa chiede alla comunità internazionale?
L’aggressione contro Gaza di questi giorni è solo uno dei tanti episodi di violenza e di brutalità che hanno accompagnato il prevalere del movimento sionista in Palestina. E allora bisogna partire da una domanda: che cosa è lo Stato di Israele?
Lo Stato di Israele è uno Stato coloniale di insediamento, basta leggere la dichiarazione di Balfour del 1917, che ha come obiettivo la pulizia etnica della Palestina. A quanto è accaduto nel ’47-’49 è seguita, dopo l’occupazione del ’67, la pulizia etnica strisciante in corso in Cisgiordania e, a partire dal ritiro dei coloni da Gaza nel 2005, una politica genocidaria contro la popolazione della striscia. Ilan Pappe con il suo “La pulizia etnica della Palestina” (Fazi editore 2008, a cura di Luisa Corbetta e Alfredo Tradardi), un testo fondamentale, ha definito un nuovo paradigma di interpretazione della storia israeliana che rovescia alcuni dei miti fondanti della storia ufficiale.
La popolazione di Gaza chiede una sola cosa: di non vivere più in una prigione a cielo aperto, in particolare dal gennaio 2006 quando Hamas ha vinto le elezioni nei Territori Occupati. Di non vivere in una piccola striscia di terra dove vengono sistematicamente sperimentate le nuove armi israeliane basate sulle nanotecnologie. La popolazione di Gaza sa che i governi occidentali e gran parte di quelli arabi sono complici delle politiche dello Stato di Israele. La popolazione di Gaza ci sta dando una lezione morale, culturale e politica nella sua resistenza allo stragismo israeliano. La popolazione, non solo di Gaza, ha votato nel 2006 per Hamas, ma gli esportatori occidentali di democrazia, che avevano voluto le elezioni e imposto anche la legge elettorale, hanno detto che non valeva. La popolazione di Gaza chiede alla società civile internazionale di rompere il muro di cinismo, di ipocrisia e di menzogna che circonda la questione palestinese in generale e la situazione n Cisgiordania, nella Striscia e nei campi profughi in particolare.
Cosa si può fare qui in Italia e in Europa in questo momento. Cosa chiedere alla comunità internazionale: finora Usa ed Unione Europea sono apparsi molto “prudenti”, più concreto è apparso invece il ruolo dell’Egitto. E, per quanto riguarda l’Italia, avete contatti o segnali di impegni concreti, al di là delle solite dichiarazioni generiche, ora che la politica è in fermento per le ormai imminenti elezioni che porteranno al nuovo governo?
Si può fare solo una azione di testimonianza e di informazione. La classe politica italiana, gli intellettuali e i media sono ipersionisti (vedi Il nuovo filosemitismo europeo e il “campo della pace in Israele” di Yitzhak Laor, Le Nuove Muse 2008). La questione palestinese è ridotta a un problema umanitario mentre è essenzialmente un problema politico. Ne è una prova la presenza in Palestina di centinaia di ONG, di destra, di centro e di sinistra, che curano innanzi tutto i loro interessi, contribuendo alla politica di ridurre i palestinesi a un popolo di mendicanti, mentre a Ramallah trionfa il neoliberismo di Salam Fayyad che ha preso nel 2006 solo il 2% dei voti. Ma gli Usa e l’Europa lo hanno imposto come primo ministro sovvertendo il risultato elettorale.
Nei movimenti di solidarietà con la causa palestinese c’è chi parla di “rabbia”. Di rabbia come molla ad uscire dall’indifferenza e dall’inerzia per farsi carico dell’ingiustizia che si sta consumando a Gaza e in Palestina. Condivide questo atteggiamento o non teme ci sia il rischio che questa “rabbia” possa trasformarsi in ira cieca, impedendo un’azione politica concreta, efficace e condivisibile?
Ritengo che il sentimento prevalente dovrebbe essere l’indignazione per la complicità dell’Italia e dell’Europa con le politiche israeliane. Di fatto Israele fa parte a tutti gli effetti della Comunità Europea. Ne fanno testo gli accordi, sempre più numerosi, militari, economici e culturali.
Non credete che i razzi (come gli attentati in Israele) siano una scelta sbagliata e controproducente: un alibi offerto all’azione militare di Israele. Danno all’opinione pubblica internazionale la sensazione che si pensi solo a una soluzione militare. La politica muro contro muro dopo 64 anni non ha portato a nulla. Non è meglio, allora, chiedere ad Hamas e all’Anp, come Movimento di solidarietà, la cessazione definitiva dei lanci e di eventuali attentati. Un atto di pace unilaterale proprio nel momento più difficile, sfidando Israele a dare un segnale analogo: ad esempio liberando altri prigionieri dopo che, nell’ambito della tregua, si è impegnata a cessare la politica degli omicidi mirati.
E, secondo punto, non è forse più efficace e da sostenere la scelta di chiedere all’Onu il riconoscimento e l’ammissione immediata dello stato di Palestina anche nelle condizioni attuali? Israele ha mostrato di temere molto questa eventualità. La “politica dei razzi” non rischia di compromettere e di ritardare questa richiesta, riportando la questione solo sul piano militare, che è quello più facile e che fa più comodo ad Israele?
Questa è una domanda per me incomprensibile. E’ un rovesciamento completo della realtà. Chi sono gli oppressori? Chi sono gli oppressi? Un popolo oppresso, al quale è stata rubata la terra, al quale sono state rubate le case e le proprietà, ha il diritto alla resistenza anche armata, secondo la legge internazionale. Poi si può discutere sulla opportunità della resistenza armata data la situazione o essere per la resistenza non-violenta per principio. Bisogna ricordare che la prima Intifada è stata un grande movimento popolare non-violento. Bisogna ricordare che la campagna BDS (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni) è una forma di resistenza morale, efficace e non violenta. Il movimento di resistenza italiano contro il fascismo e contro il nazismo, senza il ricorso alla lotta armata, non avrebbe ottenuto alcun risultato. La militarizzazione della società israeliana (vedi Baruch Kimmerling) è una minaccia costante per la pace nel Mediterraneo e nel mondo.
Chiedere il riconoscimento della Palestina (di quale Palestina? Di quali confini?) è l’ultimo disperato tentativo dell’Anp di Abu Mazen e di Salam Fayyad, di mantenere il loro potere, assai relativo, al prezzo della rinuncia al diritto al ritorno dei profughi (vedi anche recente intervista di Abu Mazen che vuole tornare solo come turista a Safad dove è nato). Un testo importante per capire la farsa dei negoziati israelo-palestinesi è “Non ci sarà uno stato palestinese. Diario di un negoziatore in Palestina”, di Ziyad Clot, Zambon 2011, a cura di Diana Carminati e Alfredo Tradardi.
E’ accaduto e continua ad accadere, in Italia e in Europa, che le proteste a sostegno della causa palestinese e di contestazione della politica israeliana in Medio Oriente siano scivolate nell’antisemitismo Esiste questo rischio e come impedire che si diffonda, avvelenando la battaglia per il rispetto dei diritti e il ritorno della pace in Palestina?
Hajo Meyer, un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, ha detto in un seminario ad Amsterdam il 9 luglio 2010, nel quinto anniversario del lancio della campagna BDS: “Una volta gli antisemiti erano coloro che odiavano gli ebrei, ora antisemiti sono coloro che sono odiati dai sionisti”. Ha scritto Edgar Morin che il termine antisemitismo è una forma di esorcismo (Il mondo moderno e la questione ebraica, di Edgar Morin, Raffaello Cortina editore, 2007).
Essere antisionisti, essere cioè contro le politiche genocidarie dello Stato di Israele, non significa essere antisemiti. L’accusa di antisemitismo contro le persone che criticano le politiche israeliane è ormai un’arma spuntata che dimostra l’assenza di argomenti. La fabbrica del falso israeliano funziona 24 ore su 24, 7 giorni su 7 (vedi La fabbrica del falso di Vladimiro Giacchè, Derive Approdi 2008).
Finora di Gaza e della Palestina si è parlato solo ogni volta che si è riacceso il fuoco della guerra. Forse anche proprio per questo non si è trovata una soluzione. Non credete che la soluzione si troverà solo se la questione diventerà un problema quotidiano, sempre presente nella coscienza della comunità internazionale? In uno dei vostri ultimi comunicati c’è scritto che sono stati in tantissimi a protestare e a scendere in piazza in questi giorni. E’ sicuramente vero. Ma a protestare resta comunque una netta minoranza. Così come solo una minoranza attua o anche solo conosce la campagna “boicottare Israele” che avete lanciato da tempo. Forse allora, perché la Palestina diventi un “problema quotidiano” di tutti, bisogna cambiare strategia, abbandonando l’opzione militare e adottando, ad esempio, una forma di lotta simile a quella condotta da Nelson Mandela nel Sud Africa, basata anche su una “campagna per la verità” e che soprattutto coinvolga e mobiliti palestinesi ed israeliani insieme. Cosa è stato fatto e come fare, ad esempio, per collegarsi e agire insieme alle tante voci, più numerose di quanto non si creda, che dall’interno di Israele contestano la politica del governo? Basti citare personaggi come Ilan Pappe, Zvi Schuldiner, Baruk Kimmerling, Michel Warchawski, Uri Avnery.
Tra questi personaggi c’è qualche differenza non di poco conto, ad esempio Ilan Pappe è antisionista, mentre Uri Avnery è sionista. Tra i due c’è stato un dibattito molto vivace. Ripeto, non bisogna fare confusione tra oppressi e oppressori, tra assassini e assassinati, tra ladri di futuro e derubati. Gli israeliani possono essere coinvolti in azioni congiunte di lotta con i palestinesi solo sulla base di una coesistenza contro il sionismo non di una ambigua e falsa coesistenza.
Come ha detto Ilan Pappe a Forum Sociale di Friburgo nel 2005, “non esiste un movimento per la pace in Israele”, come non esiste in Italia e in Europa, nel senso di un movimento capace di incidere minimamente sulla politica dei rispettivi governi. ISM Italia ha tradotto libri importanti e organizzato seminari e incontri con Ilan Pappe, Tanya Reinhart, Aharon Shabtai e con esponenti palestinesi come Jamil Hilal, Omar Barghouti e Mazim Qumsiyeh. Tutti contrari alla retorica della coesistenza che fa parte dell’imbroglio degli accordi di Oslo.
Ma una mobilitazione “palestinesi e israeliani” non potrebbe aprire la strada alla soluzione? Finora si è sempre parlato di due popoli, due stati. E si è arrivati al vicolo cieco di Gaza. La soluzione potrebbe essere “Una terra due popoli”? Un solo stato per due popoli di diversa nazionalità? Martin Buber aveva individuato questa via già prima del 1948.
Se consideriamo Israele uno Stato coloniale, una pace giusta e duratura passa attraverso una decolonizzazione etica, uno stato unico, laico e democratico della Palestina storica, dove, prima del sionismo, hanno convissuto senza problemi etnie di diversa religione, cultura e storia (vedi anche www.ism-itali.org/2012/11per-salvare-la-palestina-decolonizzare-la-palestina-storica).
Gli incontri palestinesi-israeliani non sono serviti a nulla, solo all’organizzazione del collaborazionismo palestinese (vedi L’eccezionalità di Israele: normalizzare l’anormale, comunicato del PACBI, Palestinian Call for the Academic & Cultural Boycott of Israel del 6 novembre 2011, www.ism-italia.org/wp-content/uploads/Normalizzare-lanormale-PACBI.pdf).
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Nella frase “Lo Stato di Israele è uno Stato coloniale di insediamento, basta leggere la dichiarazione di Balfour del 1917, che ha come obiettivo la pulizia etnica della Palestina” mi sembra ovvio che l’ obiettivo della pulizia etnica sia riferito al soggetto (Lo Stato di Israele) e non alla Dich. Balfour come impicitamente sostiene la N.d.R.
La sua osservazione è corretta, abbiamo apportato le modifiche del caso. Grazie.