E’ stato un voto storico: la Palestina entra nell’Onu. Come stato osservatore e non membro a pieno titolo. Ma, appunto, come “Stato”, riconosciuto in tutto il mondo, e non più come semplice, indefinito “organismo”. Ed è molto significativo che a favore si sia schierata una maggioranza vastissima: i “no”, oltre a quelli scontati di Israele e degli Stati Uniti, sono stati soltanto sette. A conferma che, senza la minaccia di veto di Washington nel Consiglio di sicurezza, la Palestina avrebbe pieno accesso all’Onu anche nella veste di stato membro a tutti gli effetti, al pari degli altri, come ha chiesto nel 2011 e nonostante gli enormi problemi che rischiano di minarne alla base la possibilità di funzionare e addirittura di sopravvivere: effettiva sovranità politica ed economica, continuità territoriale, confini certi e sotto il pieno controllo, disponibilità e gestione delle risorse e via dicendo.
L’attuale governo israeliano, controllato da una destra ogni giorno più estrema, è da sempre contrario a questo riconoscimento internazionale della Palestina. Ha temuto per anni che questa risoluzione, espressa a prescindere dal suo parere, venisse prima o poi approvata dall’Onu. La temeva ed ora ne è preoccupato molto più di quanto lo spaventino eventualmente le salve di razzi lanciati da Gaza verso Gerusalemme e Tel Aviv e, in definitiva, la lotta armata delle frange palestinesi più estremiste e radicali. Lo confermano le proteste della diplomazia di Gerusalemme e, ancora di più, la scomposta reazione del premier Benjamin Netanyahu, il quale non ha trovato nulla di meglio dadirese non che “sul terreno” in realtà non cambia nulla e che, anzi, intende autorizzare la costruzione di tremila nuovi alloggi per i coloni nei territori occupati. Comedire: gli insediamenti in Cisgiordania come arma di invasione e ricatto. E invece il riconoscimento della Palestina sancito con il voto all’Onu cambia molte cose. Per i palestinesi e in particolare per il presidente Abu Mazen è molto più di una vittoria simbolica. E’ un successo politico e strategico molto importante, forse fondamentale. Per almeno due motivi.
Il primo è che, con la scelta fatta l’altro giorno all’assemblea delle Nazioni Unite, quasi tutti i paesi del mondo condannano o comunque prendono le distanze dalla politica aggressiva di Israele nei confronti della Palestina e chiedono una decisa inversione di tendenza. Perché i palestinesi abbiano finalmente una patria, un proprio stato dove vivere in pace. Proprio come è accaduto con gli ebrei nel 1947. L’altro motivo è l’isolamento a livello internazionale non solo di Israele ma degli Stati Uniti, che ne hanno sposato costantemente la politica. Lo dicono quei miseri 7 voti che si sono aggiunti al “no” di Washington e di Gerusalemme. Sette voti appena ed espressi, oltre tutto, da paesi che, a parte il Canada e come la Micronesia ad esempio, non hanno certo molto peso nello scacchiere politico e diplomatico.
Proprio questi due fattori possono segnare ora l’inizio di un grande cambiamento. Non a caso, nel discorso pronunciato subito dopo il voto, nello stesso giorno in cui nel 1947 le Nazioni Unite approvarono la spartizione della Palestina, dividendola tra lo Stato d’Israele e il mai nato Stato palestinese, Abu Mazen, riaffermando con forza la sua volontà di negoziare la pace, ha ribadito che la nuova Palestina non rinuncia ai confini del 1967, quelli anteriori alla guerra dei sei giorni, ed ha chiesto al mondo di non negare al suo popolo il sogno di libertà e indipendenza, dopo decenni di occupazione israeliana. Un discorso che gli ha conquistato il sostegno anche di vari esponenti di Hamas, l’ala islamica che governa Gaza e che è da sempre su posizioni più radicali rispetto all’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, ma che a sua volta nei giorni scorsi, firmando la tregua per porre fine ai bombardamenti su Gaza e al lancio dei missili contro Gerusalemme, ha in qualche modo “riconosciuto” lo stato di Israele e, di contro, ne ha ricevuto il “riconoscimento” come organizzazione con cui confrontarsi. E’ il fatto stesso che ci sia stata una trattativa che sancisce questo riconoscimento reciproco.
Anche questo è un passo verso la pace. Ed ora, con l’ingresso nell’Onu sia pure come stato osservatore, la Palestina ha davanti altre porte aperte, che possono sancire ulteriori riconoscimenti. La porta dell’Organizzazione mondiale della sanità, ad esempio. O quella del Programma alimentare. E quanto possono pesare organismi di questo genere lo dimostra un precedente importante. Un anno fa, quando la Palestina è stata ammessa come stato membro dell’Unesco, la reazione degli Stati Uniti è stata quella di sospendere i finanziamenti all’agenzia: una reazione quasi stizzita, in linea con le proteste di Israele, che conferma come proprio la via politica e pacifista sia la più temuta dai “falchi”, decisi a non cambiare nulla. Molto più temuta del “linguaggio” dei razzi o degli attentati, appunto. Non solo. Ora la Palestina può rivolgersi formalmente alla Corte penale internazionale per denunciare gli eventuali abusi dello stato israeliano e promuovere a suo carico processi certamente scomodi. Per gli insediamenti dei coloni che continuano ancora massicci nei Territori, prima di tutto. Ma anche, ad esempio, per le violazioni frequenti dei confini e la distruzione di beni palestinesi: case, colture, fattorie; il muro che non rispetta le frontiere del 1967; le invasioni militari; la sottrazione delle risorse del territorio, a cominciare dall’acqua, o comunque l’impossibilità di usarle se non sotto il controllo e secondo le direttive inappellabili di Israele. Forse è proprio questo, anzi, uno dei punti che più fa paura ad Israele e agli Stati Uniti.
E’ chiaro che, nonostante il successo ottenuto, rischi non ne mancano. Se l’appello lanciato da Abu Mazen dopo il voto non sarà accolto e sostenuto e la decisione delle Nazioni Unite resterà solo un episodio formale, il pericolo è che prevalgano le ali estremiste nei due campi o che la Palestina diventi ufficialmente uno stato “finto”. Un bantustan con una propria bandiera e un inno nazionale ma niente di più, privo di reale autonomia e indipendenza e controllato comunque da Israele. Mentre resterà lontana, forse sconfitta per sempre, la pace che il plebiscito dell’Onu oggi fa intravedere.
Per questo è fondamentale il ruolo della politica. In particolare dell’Europa ma, in mancanza di una scelta europea comune su questa linea, anche solo dell’Italia. Roma, arruolata in extremis nel fronte del “si” all’assemblea delle Nazioni Unite, si preoccupata di far sapere che il premier Monti ha raccomandato ad Abu Mazen di non fare ricorso alla Corte Penale. Non subito, comunque. E’ una scelta che ha il sapore del solito pasticcio all’italiana. Mentre c’è bisogno di grande chiarezza. Chiarezza ed equità. Allora, se tra qualche mese riuscirà ad andare al governo, questa è davvero una grande occasione perla sinistra. L’occasione per cercare di mettere insieme, in un discorso di rispetto dei diritti reciproci, tutti coloro che vogliono una pace giusta, dopo 64 anni di guerre che hanno portato in un enorme vicolo cieco, senza una vera soluzione e colmo soltanto di odio, morte, lutti, accuse reciproche. Mettere insieme, in particolare, i palestinesi, laici e islamici, che credono in una soluzione politica e non militare della questione, e i tanti israeliani dei movimenti pacifisti e della sinistra che da anni contestano le scelte del governo di Gerusalemme: antisionisti come lo storico Ilan Pappe e giornalisti come Uri Avnery, di famiglia sionista, ex membro delle milizie dell’Irgun, che ha abbandonato condannandone l’orientamento terrorista, e combattente nel 1948 della prima guerra arabo-israeliana, di cui ha denunciato subito le atrocità subite dai palestinesi, in un libro memorabile che ha segnato l’inizio del suo impegno pacifista durato tutta la vita.
E’ dando forza, a livello internazionale, a personaggi di questo genere, israeliani e palestinesi, che si potrà vincere contro chi crede solo nell’opzione militare e nella politica del “tutto e subito”, a qualsiasi costo. In Israele e in Palestina, come in Italia e in Europa. Uri Zvi Dor, un israeliano che da giovane ha combattuto con la brigata palestinese in Italia contro fascismo e nazismo ed ha partecipato poi al conflitto arabo-israeliano del 1948, ha dichiarato una volta che Israele ha sempre vinto le guerre, ma non ha mai saputo “vincere la pace”. Ecco, la battaglia di oggi è aiutare Israele e la Palestina a vincere la pace.
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