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Era il 2/08/2009, mi trovavo sul traghetto Ancona-Patrasso pregustando le agognate vacanze in Grecia, quando ricevo un gelido SMS che fredda i miei entusiasmi, era il mio amico-collega Francesco Gangere che mi annunciava la morte di Johnny, al secolo Giovanni Jervis. L’avevo visto tre o quattro giorni prima, non di più, pregandolo di “aspettare” il mio ritorno, invece non mi ha ascoltato e non per colpa sua, semplicemente perché non poteva farlo!… quel maledetto tumore cerebrale non gli ha dato il tempo e se l’è divorato nell’arco di un anno. Recentemente, esattamente il 30/11/12 e il 1/12/12, si è svolto a Roma un convegno organizzato dall’ARPCI dal titolo “Attualità del pensiero di Basaglia”, che ha visto la partecipazione di eminenti esponenti di “Psichiatria democratica”.
La fama e l’opera di Jervis è risuonata solo in modo tangenziale, ma quel tanto che è bastato per capire che nell’ambiente di psichiatria democratica non è affatto ricoperta di gloria; ma devo comunque ringraziare i relatori perche sono state proprio le loro risposte piccate alle mie domande che mi hanno dato finalmente l’input necessario per mettere mano ad una idea che macerava in me ormai da tempo, vale a dire riportare l’esperienza quasi ventennale di supervisione clinica “a tre”, io il sopracitato Francesco Gangere con l’eminente prof. Giovanni Jervis, o per meglio dire, con Johnny.
Del convegno ne riparlerò negli articoli successivi, quello che invece in questa introduzione vorrei mettere a fuoco è l’immagine umana che lo caratterizzava (che forse pochi conoscono), o ancor di più, stimare un ipotetico punto di contatto tra l’uomo e l’intellettuale. I paradossi del suo profilo ci restituiscono la figura di quell’intellettuale dalla purezza cristallina che tutti conosciamo: l’antipsichiatra che ha riconosciuto l’esistenza della malattia mentale; il marxista critico-conservatore; lo psicoanalista avverso ai dogmi delle chiese psicoanalitiche; l’accademico eccelso sprezzante dei baroni.
Da questo punto di vista, Jervis ha sempre rappresentato nel panorama della cultura italiana, un “ libero battitore”, mai apertamente schierato o schierato solo per un po’, per quel tanto che bastava per prendere successivamente le distanze. Forse è per questo che è sempre rimasto ostico e indigesto a molti ambienti e non solo per la sua proverbiale spigolosità fisico-caratteriale. Ma com’era l’uomo Jervis, o meglio com’era nel suo intimo senza lasciarlo trapelare apertamente, ma solo intravedere (per chi si dotava di buone lenti) tra le maglie strette del suo rigore?! Certo chi lo conosceva per la prima volta, intellettuale o meno che fosse, non poteva fare a meno di esclamare : “Quest’uomo viene dal polo nord!”, ed è vero che a volte creava imbarazzo e lasciava un po’ interdetti. Eppure “dentro” non era così!
All’indomani della morte di Johnny, io con Francesco Gangere abbiamo avuto dei contatti ravvicinati con i famigliari più stretti, particolarmente con Flavia Pesetti, alla quale ho chiesto conferma su una mia espressione (se volete un po’ schematica) che riassumeva e riuniva in se l’uomo e l’intellettuale: “Un buono dalla scorza ruvida”. Lei che ha condiviso tanti anni con lui, mi ha caldamente e ampiamente confermato questo mio giudizio che assume il valore di una pura intuizione, dal momento che Jervis non si rapportava certo come bonario compagnone. Tale espressione merita certamente un approfondimento.
Se la scorza si riferisce alla “mente” che non poteva che essere ruvida, la bontà si riferisce all’“animo” umano e quello di Johnny era nobile, gentile, generoso ma soprattutto semplice. Già! proprio così , meravigliosamente SEMPLICE! Alle linee ricercate della fine mente dell’intellettuale corrispondeva una linea dell’animo semplice, spoglia, essenziale… forse addirittura rustica e rurale. Già nella tradizione filosofica e particolarmente in quella psicoanalitica il concetto di animo, o ancor più decisamente di “anima” (espressione questa che a lui non sarebbe certo piaciuta!), è ben diversa da quella di “mente”: l’animo (anima) depurato da ogni riferimento spiritualistico-religioso, rappresenta il D.N.A. del codice emotivo interno, come una persona “si sente” e soprattutto come “sente” il proprio simile sul piano relazionale.
Da questo punto di vista l’esperienza emotiva interna, i pensieri intrisi d’affettività, l’anima pensante di cartesiana memoria, rappresentando il punto di comunicazione tra mente e corpo, pongono il sigillo d’autenticità sul proprio “modo d’essere”, l’ultima vera verità. E’ facilmente intuibile che si può avere una mente eccelsa ma l’indole dell’animo crudele e perverso.
Esistono intellettuali (e non solo accademici) che grazie (o a causa) della loro fama rinomata coltivano un’anima arrivista, avida, boriosa, superba, altezzosa e saccente e non perdono occasione per rimarcare le distanze sociali e far pesare il loro nome con la bilancia del “potere”. Questo prototipo d’intellettuale è esattamente quello che Jervis NON ERA! E non solo con la sua mente sopraffina ma proprio con l’autentica semplicità del suo animo. Scevro da letture sociali di fin troppo facile supremazia, il suo codice emotivo lo portava a considerarsi innanzitutto una “creatura della natura” e quindi non troppo dissimile dall’ultimo degli uomini, mostrandosi sensibile e profondamente rispettoso di fronte alla sofferenza di tutti.
Il sentimento di “uguaglianza ontologica” col proprio simile, sanciva il senso d’appartenenza alla specie umana e lo ancorava fatalmente più alla naturalità dei sensi, al “bios” del corpo che non alla mente che considerava fabbrica d’illusioni e di autoinganni; non a caso nei suoi scritti riecheggia la simpatia per la tradizione dell’empirismo inglese, particolarmente per l’empirismo radicale di Hume.
Ma se noi per primi non ci facciamo fuorviare dallo stesso intellettuale Jervis, alcune linee essenziali del suo “pensiero”, come la ricerca dell’universalità contro il relativismo, la riscoperta del filone biologistico e delle neuroscienze e soprattutto l’enigma della coscienza grande raffineria d’illusioni, erano già contenute e scolpite nel suo animo buono e semplice : fatti di materia organica, siamo uomini in mezzo agli uomini, soprattutto animali portatori di bisogni fisici e psichici, la cui intelligenza superiore non può sopprimere ma al massimo sofisticare per convenienza. Riletta diversamente la sua rigidità culturale, il suo rigore metodologico, rispondevano proprio al bisogno profondo di salvaguardare il valore della semplicità che conferiva la “dignità biologica” alla specie umana.
Ma se lui era (del resto come tutti) un uomo fatto di “carne e sangue” perché sembrava un “uomo di ghiaccio”? Anche se potrà sembrare tracotante e addirittura irriverente, per l’esperienza avuta con lui, presuntuosamente sostengo (non me ne vogliano tutte le persone che gli hanno voluto bene, io per primo) che la semplicità d’animo di Johnny fosse anche correlata con un alto grado di suscettibilità e addirittura di fragilità emotiva: un bambino che capisce molto presto di essere facilmente esposto alle ferite emotive e altrettanto presto impara ad usare i prodigi della mente!
Alla fine dei conti, usando proprio le sue stesse categorie, la mente prodigiosa con la quale ha costruito il suo personaggio è la SUA GRANDE ILLUSIONE! E’ per questo che quando ripenso a Johnny, l’immagine che mi si desta nella mente non è quella di un relatore che stupisce il pubblico ad un congresso, ma quella di un uomo qualunque in un‘osteria della Romagna che degusta un buon bicchiere di vino rosso (che a lui piaceva tanto!) mangiando pane, prosciutto e formaggio. Nel prossimo articolo entreremo nel clima delle supervisioni.
Ho avuto la grande fortuna di fruire delle lezioni del Prof. Jervis, presso la facoltà di Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma. E devo dire che per me è stato uno dei pochi veri maestri. Insegnava Psicologia Dinamica e in una facoltà ampiamente di stampo cognitivista. E’ stato grazie al suo insegnamento che ho scelto quella che sarebbe poi divenuta la mia strada: la psicoterapia di orientamento psicodinamico. Ricordo quando appena laureata andai a trovarlo per chiedergli se avessi potuto fare il tirocinio post lauream con lui. Mi rispose che non sapeva nemmeno in cosa consistesse un tirocinio, poiché lui non aveva mai fatto questa esperienza di lasciarsi affiancare da un tirocinante. Lo guardai e gli dissi soltanto: “che peccato!” ripetendolo due volte e andai via. Era il mio professore preferito e di un tale spessore culturale. E’ vero, poteva incutere soggezione, ma avevo letto tutti i suoi libri e seguito l’intero corso del suo insegnamento (di cui ho la registrazione delle lezioni su cassettine) dunque avevo potuto apprezzare la sua acuta intelligenza e l’onestà intellettuale, e poi anche se ho avuto poco tempo per interagire con lui, avevo capito che il suo essere “burbero” fosse solo apparente.
Un grazie di cuore a Giovanni Jervis: maestro eccezionale.