Dopo un’esperienza infelice come collaboratori presso un istituto di psicoterapia psicoanalitica (l’ordine degli psicologi si era costituito da poco ed erano appena iniziati i riconoscimenti delle scuole private di psicoterapia), cercavamo un supervisore degno di questo nome. Fummo messi in contatto con Jervis dall’amico collega Stefano Meacci che aveva collaborato con lui presso la cattedra universitaria. Le supervisioni iniziarono nel 1991. Da questo inizio fino al 2009 abbiamo cambiato ben quattro studi seguendo le orme degli spostamenti di Jervis, fino all’ultimo quello sito in via Sannio, dove in un appartamento limitrofo anche abitava. Spesso io e Francesco Gangere ci domandavamo quanto sarebbero durate queste supervisioni e la risposta era sempre le stessa: “Finché campa il nostro vecchio…che Dio lo abbia in gloria”. E così è stato! Il nostro giorno era il martedì, ore 19-21, negli ultimi tempi ore 18-20 vista l’età che avanzava, con cadenza quindicinale, negli ultimi anni mensile.
Come accennato nel precedente articolo la supervisione era organizzata secondo un insolito setting triangolare: se iniziavo io ad esporre i casi clinici, la volta successiva toccava a Francesco, ma sia Johnny (ovviamente) sia l’altro ascoltatore intervenivano sui casi. Johnny c’accoglieva sempre con la solita frase: “ Benvenuti cari amici!”. I primi 5/10 minuti erano solo di convenevoli: si parlava di politica (immancabilmente), ma molto anche di vacanze soprattutto in prossimità dell’estate e delle feste natalizie e pasquali e anche se molti non lo crederanno parlavamo anche di calcio: su questo punto l’Egregio Prof. Jervis prendeva sonore lezioni da me e da Francesco che di fede calcistica romana, ma sulle due sponde contrapposte del Tevere, davamo vita alle nostre dispute; lui assisteva divertito. Comunque l’esimio professore le partite della nazionale se le guardava in TV, eccome! (mi ricordo che mi diede quasi del “mago” per aver pronosticato, in tempi non sospetti, la vittoria dell’Italia ai mondiali del 2006).
Finiti i convenevoli s’iniziava. Il resoconto di queste quasi ventennali supervisioni non intende avere nessun taglio tecnico-clinico e ancor meno significare il riporto dei casi clinici, considerando anche l’usura del tempo che inesorabilmente sbiadisce le memorie. Intende, invece restituire un’immagine viva della presenza di Jervis, il suo modo di condurre e gestire la supervisione. Sapeva interpretare magnificamente il ruolo del supervisore che non può rivestire la funzione di chiara “superiorità” del terapeuta ma nemmeno di assoluta “parità” del collega coetaneo con cui si va a cena, ma semplicemente quella “equilibrata” del collega più anziano con più esperienza e cultura (in quanto a questa ne aveva da vendere!). Risultava impeccabile nell’attuare la giusta “distanza” rimanendo tra “pari”: mai un cedimento o una sbavatura di ruolo fino all’ultima seduta nel maggio del 2009, quando ormai era visibilmente sofferente. Nei primi tempi c’era una domanda che lui faceva spesso che mandava letteralmente in crisi Francesco: “Qual è la tua ipotesi psicodinamica su questo caso?”; ma più andavamo avanti più il ghiaccio iniziale si scioglieva di fronte alla solarità del rapporto. Ci davamo del “tu” e via etere scambiavamo fiumi di stima, affetto e amicizia, che però dovevano passare rigorosamente attraverso gli stretti forellini dei ruoli, senza deroghe! Jervis ci parlava spesso anche dei suoi casi attuando una confrontazione con i nostri e pur respirando un’atmosfera distesa, serena e piacevole con battute e tanto humour, il preciso centramento sul ruolo non gli consentiva (e non ci consentiva) né di approfittarsi del ruolo stesso con classiche bacchettate cattedratiche, né di liquefarlo facendolo scemare in pura amicizia.
Verso la fine della seduta cominciava a fischiare il suo apparecchio acustico (si sa che era un po’ sordo), era il segnale inequivocabile che il professore aveva staccato la spina ed era in chiusura. Altri convenevoli e fine della seduta. All’indomani della sua morte, il regalo più bello che poteva farci Flavia Pesetti, la sua consorte, è stato quello di restituirci i suoi manoscritti di supervisione (appunti che prendeva tranquillamente in nostra presenza). Dire che io e Francesco eravamo curiosi di sbirciare tra le carte del maestro è dire poco! La cosa che più colpisce è che i (quasi) vent’anni di supervisione sono raccolti in 16 paginette a doppia facciata di un block-notes di media grandezza, riempiti con l’incredibile scrittura di Johnny, piccolissima in un ordine euclideo e di una precisione millimetrica; inoltre, l’illusione di poter trovare chissà quali arabeschi psicoanalitici o qualche pietra filosofale della clinica è andata ampiamente delusa. I suoi appunti confermano quanto detto nel precedente articolo a proposito di “semplicità”: si ritrovano solo notazioni scarne, elementari, addirittura banali quali “la paziente ha litigato col marito” o “la paziente da piccola voleva diventare medico” o “il paziente non ha fiducia nella terapia” o ancora “il paziente ha un buon transfert con Francesco” e così via dicendo. Riportiamo qui di seguito alcuni episodi salienti a testimonianza di quanto detto fin qui sulla sua figura di supervisore tanto aperta quanto inflessibile.
1° EPISODIO
Era il 26/04/1994 quando persi mio padre, ammalato da circa un anno. La cosa che rese ancor più drammatico il lutto, fu che mentre perdevo mio padre stavo diventando padre (mio figlio aveva appena 3 mesi). Nascevo come padre col sigillo della sua morte ed ero combattuto tra l’essere un figlio che piange la morte del padre e un padre che gioisce per la vita del figlio. Fatto è che stavo vivendo un momento molto conflittuale e doloroso. Nonostante il mio umore certamente non felice, ma piuttosto triste e depresso, non volli rinunciare alla seduta di supervisione con Jervis, ma lo feci più per orgoglio (i funerali di mio padre si erano svolti qualche giorno prima). Qui, invece che parlare dei pazienti, avrei voluto e potuto parlare per ore della mia situazione e del mio lutto (o forse semplicemente tacere), Jervis non me lo consentì più di tanto! Mi disse: “ Ti do 5/10 minuti per parlare di te e di tuo padre, dopo passiamo ai pazienti”. E così andò, ma parlai in modo molto frugale dei pazienti, passando la parola più velocemente possibile a Francesco. Dopo qualche tempo, il figlio di Francesco ebbe un problema di salute e più o meno successe la stessa cosa.
2° EPISODIO
Siamo intorno al 2000/01, stavo lavorando su due libri (in uno dei quali ero coautore) sul tema dell’orientamento in psicoterapia. In una delle tante sedute di supervisione, chiesi a Jervis se poteva farmi la prefazione del libro in cui ero unico autore, mi rispose di portargli il manoscritto. Portai il manoscritto, comunicandogli che comunque non era l’ultima stesura e mettendomi in posizione d’attesa. Ogni volta che andavamo in supervisione glielo ricordavo ma senza assillo, lui tergiversava ogni volta. Passarono molte sedute ma la situazione non si sbloccava, soprattutto non prendeva mai l’argomento e non c’era nessun commento sul manoscritto che aveva sicuramente letto. Finché stanco , lo misi un po’ alle strette! La volta successiva mi consegnò la sua risposta per iscritto in busta chiusa, dicendomi con quella sua vocina un po’ flebile: “Mi scuserai, ma forse sono stato un po’ troppo duro”. Tornai a casa aprii la busta e lessi la lettera: tutte le sue critiche apocalittiche equivalevano ad una radicale stroncatura; in più, dulcis in fundo, mi aveva rifatto totalmente l’indice secondo tutt’altro impianto. Richiusi la lettera e pensai che se questa cosa mi fosse capitata a 25 anni certamente m’avrebbe tagliato le gambe! Con quel po’ di maturità in più presi per buone alcune sue critiche, quelle che io stesso mi facevo, attuai ampi sventramenti ma l’impianto e tutta l’intelaiatura dell’opera rimase fedelmente la mia.
Non ne parlai più con Jervis, fin quando nel 2002 pubblicai i due volumi e gliene consegnai una copia per volume con tanto di dedica. Al momento della consegna il mio commento rivolto a lui fu esattamente questo:” Non te ne ho più parlato per non darti l’impressione di volerti estorcere a forza una prefazione, ti ringrazio delle critiche ma ho proseguito sulla mia strada”. (Tra l’altro nel 1° volume compaiono i miei ringraziamenti al Chia.mo prof. Jervis per le critiche rivoltemi). Lui mi ringraziò molto. Nella formalità della comunicazione quei ringraziamenti si riferivano oggettivamente ai libri ricevuti (ma certo non aveva bisogno dei miei), nella sostanza quei ringraziamenti si riferivano al mio doppio gesto: sia nel senso di avergli manifestato rispetto, accettando il suo disaccordo e recedendo dalla richiesta della prefazione, sia nel senso di manifestarmi lui apprezzamento e stima per me, per il coraggio di proseguire sulla la mia strada, nonostante la sua stroncatura, (Johnny non sopportava le cose affettate, gli atteggiamenti servili e ruffiani, i manierismi di comodo, l’incoerenza cronica, i facili moralismi, le banderuole senza morale e tante altre cose ancora).
3° EPISODIO
Siamo verso la fine. Solitamente io e Francesco ci davamo appuntamento 5 minuti prima dell’inizio della seduta sotto il portone della casa di Jervis. Era un bel giorno di sole di una primavera inoltrata, quasi estate, aspettavo nei pressi del portone Francesco che di solito arrivava in moto, mancavano 5 minuti alle 18. Aspetto le 18, le 18,05, lo chiamo sul telefonino… irraggiungibile! Aspetto ancora, ma di lui nemmeno l’ombra! Squilla il mio telefonino, rispondo sicuro di trovarlo, invece era Johnny che mi osservava dall’alto dalla finestra del suo studio che mi esclama: “Che fai lì piantato come un broccolo, vieni su” (non ha usato testualmente queste parole ma il senso era quello); gli rispondo che avrei aspettato ancora qualche minuto l’arrivo di Francesco, e se non fosse arrivato sarei comunque salito. E così è stato, sono salito senza Francesco alle 18,15. Iniziamo i soliti convenevoli tra politica, vacanze e altro ancora aspettando il suo arrivo (senza Francesco era difficile parlare di calcio). Arriviamo alle 18,20, quando Johnny mi fa: “Ma non si sarà mica scordato?” ed io: “Lo escludo nel modo più assoluto! Piuttosto vista l’ora comincio a preoccuparmi sul serio” ( inutile dire che il suo telefonino era sistematicamente irraggiungibile).
Ero sicuro che Francesco aveva avuto un incidente con la moto e già me lo immaginavo giacere in qualche pronto soccorso di chissà quale ospedale della capitale. Alle 18,30 siamo entrambi preoccupati e decidiamo di interrompere la seduta per non infrangere la magia del setting triangolare (non è mai stata fatta una supervisione a due). Scendo precipitosamente in strada, telefono a più non posso a Francesco, a casa, al figlio di Francesco (al quale comunico l’accaduto), sicuro di dover correre al più presto verso qualche ospedale. Verso le 19 finalmente ricevo una telefonata, era lui, Francesco, vivo e vegeto che candidamente mi dice “MI SONO DIMENTICATO…” (cosa mai successa in precedenza e che mai più accadrà)… Johnny aveva ragione! Tranquillizziamo telefonicamente Johnny e rimandiamo la discussione dell’accaduto alla volta successiva. In questa seduta, ricomposto il triangolo, dopo le scuse di Francesco, le immancabili prese in giro e tanto riso sopra, decidiamo di non transigere sulle regole: Francesco doveva pagarsi la seduta come si conviene ad ogni buon paziente che candidamente se la dimentica!
Del pensiero di Jervis rimbombano ancora le aule dei congressi insieme a tanta carta scritta ma inesorabilmente ripercorrendo solo le linee del suo intelletto. Lo spirito di questi articoli rappresenta l’intento, sicuramente incompleto, di ricomporre l’interezza della sua figura, restituendogli quell’umanità sottaciuta e spesso travisata e incompresa. A distanza di più di tre anni, quando qualche amico o collega ci dice se ci manca il supervisore, la risposta è che non ci manca il supervisore…ci manca Johnny che rimarrà insostituibile! Johnny che tra di noi abbiamo sempre preferito chiamarlo Giovannino . Nel prossimo articolo parleremo del recente congresso su Basaglia già accennato che lo vedrà coinvolto anche a causa del mio zampino.
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