Si è tenuto a Roma il 30/11/2012 e il 1/12/2012 un convegno organizzato dall’ARPCI (Scuola di Specializzazione e Formazione in Psicoterapia Cognitivo-Interpersonale), dal titolo “Attualità del pensiero di Basaglia”, che ha visto la partecipazione di eminenti psichiatri per la maggior parte affluenti nell’area storica di “Psichiatria democratica”, continuatori del pensiero basagliano. Ottimo convegno, ben organizzato anche nel numero contenuto che ha consentito di respirare un’atmosfera gradevole e familiare. In una delle tante relazioni è stato citato il nome di Jervis accennando in modo solo tangenziale ad alcuni dissidi e divergenze con lo stesso Basaglia che, con la pubblicazione de “ Il buon rieducatore” di Jervis, hanno segnato il definitivo distacco. Alla fine degli interventi prendo la parola, presentandomi innanzitutto come uno psicoterapeuta che aveva avuto dei rapporti di supervisione quasi ventennali con Jervis e che nelle discussioni avute sull’argomento dopo la pubblicazione del suo penultimo libro “La razionalità negata” scritto in collaborazione con Corbelllini, oltre alla polemica psichiatria-antipsichiatria, emergeva anche una figura di Basaglia in realtà poco democratica, piuttosto accentratrice e autoritaria, incapace negli ultimi anni di gestire una “notorietà” che forse lui stesso non s’aspettava; pur riconoscendo allo stesso Basaglia lo spirito di una mente illuminata che aveva dato vita ad una grande e importante riforma della psichiatria del tempo.
Che certe polemiche tra Jervis e l’area basagliana di “Psichiatria democratica” esistessero da tempo era cosa nota e che non si fossero mai sopite del tutto ha trovato ampia conferma proprio dopo la pubblicazione de “La razionalità negata” che le ha acerbamente disseppellite, rimettendo evidentemente il “dito sulla piaga” di un nervo scoperto. Non mi aspettavo certo sviolinate d’amore verso Jervis, ma quello che dalle loro risposte mi ha colpito è stato l’eccessivo livore, rabbia e rancore contro di lui; non è uscita fuori la fatidica parola ma il senso intuibile era quello di essere considerato un “traditore” della causa, l’unico vero “sabotatore“ dell’esperienza idilliaca di Gorizia. Come già accennato, gli attacchi sono stati portati particolarmente al libro di Jervis “Il buon rieducatore”(1977) che a detta dei relatori (sui cui nomi preferisco tacere) ha segnato anche una frattura personale con Basaglia, e manco a dirlo al già citato Jervis-Corbellini “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia” (2008). Gli attacchi che hanno sfiorato anche il cattivo gusto del pettegolezzo e perfino della denigrazione inventata contro Basaglia, mi hanno fortemente insospettito come se ci fosse nei confronti di Johnny il sentimento ambivalente di chi, mentre rimprovera implacabilmente, vive la cocente delusione dell’abbandono. Le parole di uno dei relatori risuonavano, infatti, come un monito nostalgico di rimprovero per non essere lì in mezzo a loro (magari lo potesse, aggiungo io!), riconoscendogli quell’immensa cultura che li avrebbe certamente aiutati.
Il convegno è poi scivolato verso altri temi. Tornando a casa, ruminavo tra me e me su quanto accaduto e per quanto potessi essere stato io a somministrare la pastura non riuscivo a digerire il pasto indigesto. Mi sono preso la briga di andare a riprendere “Il buon rieducatore” dove nel primo capitolo intitolato proprio “Il buon rieducatore” c’è, oltre che una piacevole autobiografia fino a quel momento, anche un ottimo resoconto dell’esperienza di Gorizia. Il primo capitolo che vale come lunga introduzione data dicembre 1976, quando lui è già a Reggio Emilia a dirigere i Centri d’igiene mentale, mentre il libro viene edito nel 1977. Questo è quanto scrive Jervis su Basaglia:
“Quanto alla mia carriera, avevo chiesto e ottenuto da Basaglia il suo formale e personale impegno che, nel caso l’equipe goriziana si fosse sciolta o trasferita io sarei stato il primo tra i suoi collaboratori a cui egli avrebbe trovato dignitosa sistemazione altrove (…) Rispetto a come si presentavano gli altri direttori di istituti universitari e manicomiali italiani, si misurava subito una netta differenza di qualità. Egli proveniva da una ricca famiglia veneziana, e traeva dalla sua origine aristocratica e alto borghese doti di gusto, cultura, spregiudicatezza, attitudine al comando, disprezzo per gli eufemismi e per le piccolezze quotidiane. Leggeva, e a quanto mi disse i suoi autori preferiti erano Pirandello e Sartre; amava molto occuparsi di mobili antichi, era un antifascista e progressista; inoltre, era un uomo simpatico, e viveva in una splendida casa con due figli e una moglie bella e intelligente, Franca Ongaro, che gli faceva da segretaria e lo aiutava a scrivere gli articoli. Infine era ambizioso e sembrava aver fatto di Gorizia lo scopo della sua vita…Con una rabbia e un coraggio di cui credo nessun altro sarebbe stato capace in Italia in quegli anni, in una situazione locale culturalmente e politicamente sfavorevole, aveva deciso di farne un’esperienza pilota. Aveva mantenuto rapporti molto stretti col suo vecchio professore che andava a trovarlo a Padova tutte le settimane, ma si considerava, ed era un outsider; e se da un lato il modello a cui Gorizia si riferiva era quello delle comunità terapeutiche britanniche (che Basaglia aveva visitato), da un altro lato era chiaro che si era trattato sin dall’inizio di un’esperienza dotata di caratteristiche originali. Di fatto Gorizia finì per essere qualcosa di più di una copia di modelli stranieri: divenne un tentativo di detecnicizzare e depsichiatrizzare il rinnovamento manicomiale; fu un luogo di elaborazione di importanti proposte politiche e culturali; e infine assunse una importanza centrale per il rinnovamento della psichiatria istituzionale italiana dopo il 1967”. (Jervis “Il buon rieducatore”,1977, pp.19-20). Una descrizione molto simile si ritrova anche in Jervis-Corbellini “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, 2008, pp.82-83.
E ancora sulla personalità di Basaglia e i rapporti tra i membri del gruppo goriziano:
“Basaglia richiedeva ai suoi collaboratori una adesione incondizionata, e non tollerava facili dissensi teorici e di linea, che tendeva a vivere drammaticamente come attacchi personali. Prima del mio arrivo, il gruppo dei medici allora intorno a Basaglia aveva conosciuto liti, scismi, espulsioni ed emarginazioni; mi resi conto rapidamente che anche nel gruppo attuale vi erano competitività e malumori che appesantivano molto il lavoro. E il lavoro era di per se molto, e pesante, sia come ore che come impegno: io tra l’altro ero tenuto a fare, in quanti medico di sezione, frequentissimi turni di guardia, di 24 o (nei fine settimana) di 48 ore, da cui erano invece esentati sia il direttore che i primari (…) “L’istituzione negata” fu, almeno secondo l’impressione che mi fece allora, una mescolanza quasi inestricabile di esaltazione comunitaristica e “antiautoritaria” e di attenzione critica ai problemi politici e culturali in gioco. I lavori di elaborazione collettiva di quel libro segnarono l’inizio della spaccatura dell’equipe e di una serie di dissensi che, apparentemente legati a rivalità ed esacerbate ambizioni personali, nascondevano invece profonde differenze di linea, e quindi divergenze di scelte operative, Dopo il maggio ’68, a Gorizia come altrove la spaccatura divenne drammatica e irreversibile.”(Jervis “Il buon rieducatore”, 1977, pp. 20-22).
Ancora su Basaglia e i rapporti col gruppo:
“Da anni Basaglia parlava di lasciare Gorizia (già nel ’66 e’67 pareva che avesse la possibilità di andare a lavorare prima a Ravenna e poi a Bologna). Nel ’68 si sommarono a questo la sua delusione per i dissensi sempre più profondi che dividevano tra loro vari membri dell’equipe, e lui dall’equipe; e la convinzione che l’esperienza goriziana fosse ormai giunta a un punto massimo di sviluppo: in pratica, a un punto morto. Retrospettivamente, sono ora portato a credere che avesse più ragione di quanto non pensassi a quell’epoca: è possibile che l’esperienza goriziana avrebbe avuto la possibilità di progredire ulteriormente, oltre la fase volontaristica dell’ ”ospedale aperto”, solo se all’interno dell’equipe si fosse cessato di ignorare la necessità di un confronto con problemi tecnico-scientifici di tipo più specificamente psichiatrico, come quelli di natura psicoanalitica, o attinenti alle dinamiche di gruppo; oppure se l’istituzione avesse avuto la possibilità di aprirsi all’esterno, di legarsi ai problemi della popolazione locale, di portare “nel territorio” le contraddizioni, i problemi che venivano gestiti invece esclusivamente all’interno delle sue mura. Dall’altro lato, almeno per quanto riguarda quest’ultimo punto, la situazione politica locale e l’ostilità dell’amministrazione provinciale, avrebbero reso difficile, se non quasi impossibile, un sistematico “lavoro all’esterno”: però né allora né, credo, in seguito Basaglia dimostrò interesse per le istanze di base e per la politica “dal basso”, per cui non ritenne che questo costituisse un possibile terreno operativi (…) Un episodio fu indicativo, ed emblematico del clima che si era creato. Quando all’epoca scrissi per i “Quaderni piacentini” un articolo di denuncia sul caso Braibanti-Sanfratello in cui criticavo due cattedratici e ospedalieri di psichiatria fra i più reazionari (Rossini di Modena e Trabucchi di Verona) Basaglia pretese che censurassi il mio scritto o addirittura che, a cause di quelle critiche contro i suoi colleghi, io non lo pubblicassi; alla fine acconsentì solo perché mi impuntai, ma a condizione che al posto del mio nome usassi uno pseudonimo. Così feci con imbarazzo, e firmai con un altro nome. In quella circostanza misurai la mia dipendenza oggettiva, istituzionale (ma in parte anche psicologica) dal direttore dell’ospedale: malgrado il clima informale, amichevole e solidale, e malgrado il sentirci “tutti nella stessa barca” (e in parte proprio per questo) la direzione di Basaglia era sostanzialmente autoritaria. Erano a quell’epoca sempre scontri interni: per motivi di disciplina di gruppo, in cui credevo, e di solidarietà, evitai sempre finché rimasi a Gorizia, e anche per vari anni in seguito, di partecipare o anche di far trapelare all’esterno queste divergenze (che erano sempre, in ultima analisi, profonde divergenze politiche ed anche etiche) e di provocare un confronto pubblico sulle differenze d’impostazione e di linea che esistevano fra il mio operare, quello di Basaglia, e quello degli altri membri dell’equipe. Il fatto di non aver reso pubblici i dissensi, e di non aver confrontato apertamente fin dall’inizio le nostre rispettive posizioni con gli ambienti della sinistra e con tutti coloro che guardavano con simpatia all’esperienza goriziana fu indubbiamente un grave errore politico, che produsse confusioni e danni…Del resto moltissimi del vasto pubblico non volevano sentir parlare di dissensi di linea né di diversità di condotta: il gruppo goriziano fu idealizzato dai suoi simpatizzanti come politicamente omogeneo (cosa che invece non fu mai) o venne identificato con formule “antipsichiatriche” più o meno semplicistiche. Del resto credo che il pubblico avesse tutte le ragioni per non voler sentir parlare di dissensi, dal momento che questi ultimi sembravano riconducibili solo a beghe personali”. (Jervis “ Il buon rieducatore,1977,pp. 23-25). L’episodio che si riferisce al caso Braibanti-Sanfratello è riportato con maggiori dettagli anche in Jervis-Corbellini “La razionalità negata. Pschiatria e antipsichiatria in Italia”, 2008, pag.114.
Questo è quanto scrive Jervis verso la fine dell’esperienza goriziana:
“ Ma vorrei tornare ai fatti di quell’epoca, cioè all’estate del ’68. La tesi di Basaglia non era solo che l’esperienza di Gorizia fosse finita (e già su questo punto il resto dell’equipe non era d’accordo) ma altresì (per usare un’espressione che ripeteva spesso) occorresse “riconsegnare Gorizia agli psichiatri”: cioè andarsene tutti, e trasformare di nuovo l’ospedale aperto in ospedale chiuso, chiamando a gestirlo un direttore tradizionalista e medici conservatori; e cercare di far carriera altrove (…) ma egli si scontrò soprattutto con l’opposizione di Pirella. Con molti buoni argomenti e molta fermezza, Pirella dichiarò che non contestava affatto a Basaglia il diritto di lasciare Gorizia se lo desiderava: ma che riteneva giusto, anche per i ricoverati e gli infermieri , che l’esperienza continuasse. In quanto membro più anziano e di più alto grado dell’equipe se la sentiva di assumere la direzione dell’ospedale, lavorare con altri, andare avanti. Su questo contrasto io persi una buona occasione per dimostrarmi quel gran nemico dell’opportunismo, che spesso lasciavo intendere di essere: trovavo che Pirella aveva ragione ma all’inizio non lo dissi con chiarezza, per non rovinarmi definitivamente i rapporti con Basaglia. (Ciò non mi servì neppure, perché ne aveva più che abbastanza della mia collaborazione, tanto che mi impedì di occupare un posto messo a concorso nel manicomio di Parma, e mi disse chiaro e tondo che per il mio futuro professionale e di lavoro vedessi di arrangiarmi. Quanto a lui , ammaestrato dall’esperienza, per il suo futuro sarebbe stato attento a scegliersi collaboratori “più giovani e più di buon carattere”). La direzione di Gorizia fu dunque presa da Pirella, con cui rimasi a lavorare. Però Basaglia non digerì molto bene l’idea che esistesse una “Gorizia senza Basaglia”. In Italia e anche nel mondo si sparse a quell’epoca la voce, totalmente falsa, secondo cui egli era stato costretto ad andarsene per l’opposizione degli ambienti politici retrivi o per persecuzioni giudiziarie, tanto che l’esperienza goriziana pareva fosse finita nella repressione; e non riuscii mai a capire fino a che punto Basaglia stesso contribuisse a fabbricare e propagare queste dicerie. Quando nell’autunno del ’69, ormai stabilitomi a Reggio Emilia, ottenni udienza dal ministro della Sanità (a quell’epoca, Ripamonti) per avere il riconoscimento ministeriale dell’attività appena iniziata dei Centri di igiene mentale di Reggio, fui interrogato con molta cortesia e simpatia sulla sorte dell’esperienza goriziana: il ministro mi chiese se a Gorizia vi erano grosse difficoltà, e se proprio non poteva fare qualcosa, anche finanziariamente; risposi che non solo l’esperienza non aveva fatto passi indietro, ma stava procedendo, ora soprattutto grazie agli sforzi di Pirella e Casagrande, e che un suo aiuto sarebbe stato molto importante, forse decisivo. Il ministro parve imbarazzato; poi mi disse che era disorientato, perché Basaglia in persona gli aveva risposto poco tempo prima che l’esperienza di Gorizia era “del tutto chiusa e conclusa”, e che non era proprio il caso di aiutarla. In seguito i rapporti tra Basaglia e Pirella migliorarono sensibilmente, e fra gran parte dell’equipe goriziana si cementarono nuovi accordi. Io non rivelai mai l’episodio del ministro.” (Jervis“ Il buon rieducatore”, 1977, pp.25-26).
Eviterei di commentare oltre misura questi passi (sarebbe fin troppo facile!), mi limito a dire che sulla scia dell’atteggiamento umano-scientifico profondamente antidogmatico che proprio Jervis ci ha insegnato, quanto riportato non va certamente preso (anche da coloro che lo hanno amato) come l’oro colato della “verità”, ma sicuramente come l’ ”esperienza” umana e professionale dello stesso Jervis che risulta però profondamente “diversa” da quanto riportato al convegno. Anche nel prossimo articolo continueremo a parlare del convegno, ma centrato di più sul tema psichiatria-antipsichiatria.
BIBLIOGRAFIA
-G.Jervis “Il buon rieducatore”, Feltrinelli, Milano, 1977
-G.Corbellini- G.Jervis” La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia, Bollati Boringhieri, Torino, 2008
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