JERVIS E IL CONVEGNO SU BASAGLIA (2 – L’antipsichiatria)

Franco BasagliaL’ultimo capitolo de  “Il buon rieducatore” s’intitola il “Mito dell’antipschiatria”. Qui sono già evidenti le “differenze” con la cosiddetta antipsichiatria da cui Jervis intende prendere le distanze, non solo dal punto di vista tecnico-scientifico, ma più profondamente dal punto di vista politico. Vediamo cosa scrive in proposito:

Nel campo della psichiatria, ai contestatori del ’68 è stata fatta bere, in un bicchiere verniciato di facili slogan, la ricetta borghese di una psichiatria magicamente liberata da problemi di autorità, digeribilissima perché priva di problemi tecnici, risolutrice di oppressioni, emarginazioni e violenze. Con fatica, ci si va oggi finalmente accorgendo che lo spirito permissivo, tipicamente borghese, non è la stessa cosa che la lotta antiautoritaria; che nella nostra società non si dà educazione senza sgradevoli problemi di metodi e di autorità (con i quali occorre fare i conti); che il problema del manicomio non sta tutto “dentro” quelle mura ma in primo luogo “fuori” di esse; e che se è vero che la malattia mentale non esiste in quanto malattia, cioè nel senso medico, questo non significa che non esistano persone con gravi problemi psicologici, e bisognose d’aiuto; né che non esistano molti individui, che lo stato borghese non può certo rinunciare in quanto tale a rinchiudere, controllare, reprimere, condizionare, prevenire, assistere in modo specializzato, con metodi man mano più efficaci.

Le cose si fanno man mano più chiare: e, passata l’epoca della mistificazione permissiva, il potere torna a mostrare il suo vero volto… …Uno degli equivoci più comuni, ma oggi ormai in piena crisi, riguarda ancora il mito di una psichiatria “antiistituzionale”: cioè che si pretende capace di negare il proprio carattere repressivo nel momento in cui corregge, o abolisce, gli aspetti più oppressivi del manicomio. Questo errore, particolarmente diffuso in Italia, arriva a scambiare il riformismo istituzionale (cioè l’elaborazione, o per meglio dire l’importazione, di più moderne forme organizzative dell’assistenza psichiatrica pubblica) per un progetto politico dotato in qualche modo di virtù eversive… …Ma per lo più, ciò che si indica come antipsichiatria non vuole avere nulla a che fare col riformismo psichiatrico. L’antipsichiatria vuole essere caso mai la negazione di questo riformismo: non la negazione del manicomio, ma la negazione della psichiatria. Questo orientamento implica non solo la critica al vecchio concetto di malattia mentale, ma anche la critica all’idea della follia come qualcosa da curare; implica la confutazione della definizione di disturbo mentale, e la tendenziale rivalutazione della devianza “psichiatrica” e della follia.

In questo senso l’antipsichiatria vive piuttosto come tendenza, orientamento culturale, fermento critico, che come realtà pratica. Questa tendenza critica nasce in buona parte dall’interno stesso della psichiatria, e da alcune correnti della sociologia, mentre per altri versi è espressione (come si è accennato all’inizio di questo scritto) di contraddizioni e bisogni politici. Si tratta però di una tendenza dotata di caratteristiche vaghe e contraddittorie. Il concetto di antipsichiatria è andato rivelando, col passare degli anni, una sua imbarazzante carica velleitaria: da un lato si è man mano chiarito che all’atto pratico l’antipsichiatria era ancora psichiatria, mentre da un altro lato essa sfumava nel cielo degli equivoci scientifici.  (Jervis “Il buon rieducatore”1977, pp. 133-137). (Sull’antipsichiatria su veda anche Corbellini-Jervis “La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, 2008, pp. 60-81).

Vediamo cosa scriveva nel “Manuale critico di psichiatria” del 1975:

Le conseguenze, nel manicomio, sono molto più gravi: ma le cause stanno fuori dalle sue mura. Così, è soprattutto fuori da quelle mura che si formano le strutture si potere e gli schemi di comportamento che (talora degradati e poco riconoscibili) regolano i rapporti anche all’interno dell’istituto di ricovero. Il manicomio rende talora evidenti alcuni aspetti dell’oppressione e dell’ipocrisia che costituiscono l’infrastruttura del vivere sociale nel capitalismo: ma non ne spiega né l’oppressione né l’ipocrisia. Il manicomio non spiega né i perché di se stesso, né tanto meno quelli della società esterna: al contrario, è la struttura sociale che causa e spiega il manicomio. Così, è in rapporto alla lotta di classe, e nell’ambito dei temi che studenti, operai, tecnici elaborano e fanno propri nelle proprie rivendicazioni sociali e nella vita quotidiana, che si organizzano le lotte contro le cause del disagio psichico e contro la sua gestione repressiva. Il collegamento della classe operaia con le forze che si battono all’interno dell’istituzione costituisce allora una premessa possibile per la trasformazione reale di quest’ultima. (Jervis “Manuale critico di psichiatria”, 1975, pag. 118).

E ancora su psichiatria, antipsichiatria e lotta rivoluzionaria:

Non saranno né gli operatori né gli amministratori a “liberare la psichiatria”: e un a psichiatria “alternativa” e “contro il sistema” in fin dei conti non è mai esistita. La psichiatria resta nella nostra società, e resterà fin tanto che una società è divisa in classi, essenzialmente uno degli strumenti di repressione e di integrazione di cui dispone lo stato, e quindi la classe al potere, per gestire i propri privilegi. Lo stato non vi può rinunciare: non può rinunciare a disporre delle carceri, e così non rinuncia a gestire i manicomi e le strutture equivalenti, o i servizi psichiatrici in genere. Per ora le cose non possono essere diverse: la psichiatria non potrà essere restituita a una funzione solo terapeutica, cioè non potrà essere “liberata”, se non in una società senza classi. Ma forse a quel momento anche le contraddizioni sociali che dominano l’insorgenza dei disturbi mentali saranno attenuate o scomparse” (Jervis “Manuale critico di psichiatria”, 1975, pp. 138-139).

Dopo l’esperienza di Gorizia, imboccando questa strada, Jervis s’avvierà dal 1969 a dirigere dall’ ”esterno” del manicomio i Centri d’igiene mentale distribuiti nel territorio di Reggio Emilia. Vediamo a distanza di qualche anno (rispetto a quando scrive) la posizione di Basaglia (riespressa al convegno) in riferimento alla malattia, alla follia e al manicomio; posizione i cui semi erano già contenuti nell’esperienza goriziana, definitivamente fioriti a Trieste (dove Basaglia andò a dirigere l’ospedale psichiatrico di zona), i cui frutti animarono lo spirito della “Legge 180”, emendata in quegli anni.

La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato.” (F. Basaglia “Conferenze brasiliane” (1979), Raffaello Cortina, Milano, 2000, pag. 34)

Riassumendo, dobbiamo innanzitutto contestualizzare questo excursus in quegli anni animati da forti fermenti politici della contestazione di sinistra, dal mito della rivoluzione e dalla lotta di classe. Infatti, a ben vedere, le due posizioni hanno almeno un punto di vista politico comune: il disturbo psicologico-psichiatrico viene (almeno in parte) interpretato come espressione storica delle contraddizioni del sociale; ma da questo punto di vista le posizioni divergono. Quella basagliana antipsichiatrica potrebbe riassumersi così: “Se la malattia, gli stessi psichiatri e soprattutto l’istituzione manicomiale rappresentano le contraddizioni di una società oppressiva e violenta, chiudere i manicomi, sciogliere i matti e mandare a casa gli psichiatri, rappresenta l’atto consapevole e volontario che interrompe la cinghia di trasmissione di tali contraddizioni”. Discorso che apparentemente non fa una grinza. Mentre il discorso di Jervis di quegli anni potrebbe risuonare più o meno così: “Se la malattia, la psichiatria e l’esistenza dello stesso manicomio trovano origine nelle contraddizioni del sociale, è proprio nella trasformazione politica del sociale che c’è la chiave di volta, mentre invocare ad una psichiatria “libertaria” o “antiistituzionale” oltre che risuonare mistificatorio, si rivela un semplice “esorcismo politico” che lascia le cose intatte, sia nel senso della responsabilità psichiatrica della “gestione” del disturbo (che s’impone comunque!), sia nel senso della sua “produzione” che continuerà a proliferare fin tanto che non si andrà alla radice del male”.

Potrà sembrar strano ma stando agli scritti di quel tempo, Jervis scavalca politicamente a sinistra la posizione basagliana, pur essendo improntata, questa, ad un riformismo radicale della psichiatria italiana; ciò che gli varrà spesso, fin dai tempi di Gorizia, la critica per un eccessivo intellettualismo di sinistra, ancorato su posizioni estremiste. Adesso, rileggendo questi scritti, mi viene da sorridere quando sento ancora parlare di Jervis come “traditore” del mandato e del ruolo sociale della psichiatria, “rinnegatore” della valenza sociale del disturbo mentale. E’ vero che successivamente Jervis abbandonerà le posizioni massimaliste e prenderà le distanze sia dalla teoria marxista intesa come prassi rivoluzionaria e dottrina della liberazione sia dall’interpretazione univoca del disturbo mentale in chiave esclusivamente sociale, ma ciò che è importante sottolineare qui è che la frattura con “Psichiatria Democratica” si era già consumata nel decennio degli anni ‘70 e molto poco sull’interpretazione “scientifico-psichiatrica” della malattia mentale e della sua cura (questioni ancora “in fieri”), ma proprio sull’interpretazione “politica” della sua origine e della sua gestione; interpretazione che vedeva in Jervis uno psichiatra fervidamente impegnato sul fronte politico-sociale e per niente la figura di un freddo psichiatra scientista e antisociale come vorrebbero quelle critiche che sbagliano clamorosamente i tempi della loro enunciazione! Per chi avesse ancora dei dubbi su quanto fosse politicizzato lo psichiatra Jervis di quei tempi può andarsi a (ri)leggere il capitolo “La normalità e la sua critica” in Jervis “Manuale critico di psichiatria”, 1975, pp. 194-225.

Su questo punto è lecito muovere una nota critica allo stesso Jervis, dal momento che per quanto legittimamente possa aver revisionato alcune sue idee (tutti hanno il diritto di farlo nel corso della propria vita), sembra essersi mostrato dimentico negli ultimi venti anni, su quanto scriveva negli anni ’70: ma per affermare la “differenza” del presente col passato non c’è bisogno di rimescolare troppo il passato nel tentativo di renderlo più coerente col nuovo presente. A conti fatti e facilmente col senno di poi, ritengo che dobbiamo essere tutti grati a Basaglia per il suo coraggio e lo spirito innovatore dimostrato in quegli anni difficili: il muro divisorio preso a simbolo rassicurante della città dei sani rispetto a quella dei folli doveva essere abbattuto, e l’interno manicomiale ridotto a lazzaretto dei derelitti, ghetto degli esclusi e pattumiera dei rottami sociali, definitivamente chiuso! (Anch’io, nel 1975, allora studente di psicologia ai primi anni, visitai l’orrendo manicomio di Trapani, dove feci anche un breve tirocinio). La Legge 180 ha significato il fiore all’occhiello della psichiatria italiana e siamo, con vanto, l’unico paese al mondo che ha chiuso con un intervento legislativo l’istituzione manicomiale. Lo stesso Jervis, a distanza di tanti anni, riconoscerà l’importanza della Legge 180, nonostante tutte le sue pecche e i suoi vuoti applicativi (Corbellini-Jervis ”La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, 2000, pag. 169). In merito a ciò, bisogna rilevare che la Legge 180 è risultata “molle” e “imprecisa” negli aspetti applicativi della gestione del disturbo psichiatrico distribuito sul territorio (e questo anche Basaglia lo sapeva benissimo!), ma soprattutto ha lasciato inevasa la domanda sull’origine e sulla natura del disturbo stesso: chi pensava che la malattia (ma anche la stessa follia in senso basagliano) fosse solo figlia del manicomio e che bastava demagogicamente chiuderlo per farla sparire, si è dovuto amaramente ricredere.

Oggi non si può dire che la “follia”, la “malattia” e il “disturbo mentale” non continuino a prodursi, nonostante lo splendore della 180. Riguardo a queste ultime considerazioni, ho sentito riecheggiare nel convegno categorie esplicative un po’ vecchiotte che finivano, ancora una volta, per appiattire il disturbo psichiatrico sui rapporti sociali finendo in una lettura troppo semplicisticamente sociologica dei problemi. Che il disturbo psicologico-psichiatrico nasca dalle trame dei rapporti sociali (a partire da quelle familiari) è cosa indubbiamente vera; ma che sia “solo” la duplicazione reificata di queste, appare superficiale, riduttivo e perfino banale. In merito a questa miopia eziologica pongo tre elementari considerazioni che idealmente rivolgo agli esponenti del convegno:

1) Se l’origine è solo sociale, come mai nella stessa città, nello stesso quartiere, in un’ipotetica famiglia disastrata, due fratelli coetanei (che quindi vivono contemporaneamente il parossismo di certe situazioni) prendono strade completamente diverse: uno quello della delinquenza organizzata, l’altro quella dell’entrata in seminario per diventare prete? Ammettere l’esistenza di un sia pur rudimentale “psichismo” tra il biologico e il sociale appare così strano? Non è forse quell’elaborazione “soggettiva” e “personale” degli stessi stimoli che fa la differenza tra gli uomini sani o disturbati che siano e non la riproduzione imbalsamata del “reale” tout-court?

2) Gli psichiatri dell’area democratica trovano una radice storica nell’ideologia d’ispirazione marxista (anche se ormai il mito della rivoluzione è finito per tutti!) e coerentemente con ciò del disturbo psichiatrico ne danno una lettura massimalista in termini di “materialismo sociale” dei rapporti. Questo tipo di materialismo non li spaventa! Mentre invece li spaventa un materialismo d’altro tipo: non solo quello più rozzo tradizionalmente organicista, ma anche quello più raffinato biologico-genetico e neuropsicologico dei disturbi… perchè?! Come se il materialismo sociale lasciasse inalterata la “coscienza” (cosa che invece non è), mentre invece quello biologistico la facesse sparire del tutto (e anche questo non è vero). Siamo animali dotati di un’intelligenza superiore (così si dice) e perciò condannati a vivere nell’ ”Io coscienziale” (buono, cattivo, vero o falso che sia) e non nelle cellule dei nostri organi interni; non ci sarà scienza al mondo che potrà sostituirsi alla coscienza per il semplice motivo che la scienza è un “processo” d’accertamento della verità, la coscienza è il “luogo” ed anche il “tempo” ontologico dell’esistenza che riguarda tutta la specie umana senza nessuna distinzione di età, sesso, razza, religione o cultura. Ma se la costruzione della struttura coscienziale è sovradeterminata da un’infinità di fattori biologici, genetici, organici, emotivi, affettivi, storico-sociali, situazionali, perché mai dovrebbe vedere proprio nella scienza, che studia questi fattori, la sua antagonista? Semmai la scienza potrebbe farsi ancella per la costruzione di un sapere coscienziale più accorto e oculato, capace di vaccinare quel “luogo” da inganni e facili illusioni.

3) Se tali psichiatri vedono con molto sospetto l’approccio biologista e organicista in materia, allora perché fanno un uso sistematico e tanto disinvolto degli psicofarmaci? E’ stato fatto rilevare proprio da un relatore, la profonda differenza di trattamento tra uno psicoanalista classico che tradizionalmente non usa i farmaci, da quello di uno psichiatrico democratico che invece ne fa largo uso.

Queste linee di tendenza sono riaffiorate quando la discussione è scivolata sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico, polemica importata dalla Francia e proseguita in Italia tra lo stesso Corbellini e lo psicoanalista lacaniano Di Ciaccia (io stesso ho ascoltato, tempo fa, una trasmissione radiofonica sull’argomento tra i due protagonisti): se la sindrome autistica sia possibile curarla con un approccio tipicamente psicoanalitico oppure facendo ricorso a tecniche neuro-cognitive. Anche qui la riluttanza verso ogni tecnica neuro-cognitiva e bio-psicologica si è fatta sentire; ma è ormai risaputo che la sindrome autistica ha radici bio-genetiche (non è un caso che la stragrande maggioranza dei bambini autistici sia di sesso maschile), che incidenza clinica di cura potrà mai avere il “sapere psicoanalitico” sull’autismo? ( a meno che uno faccia delle cose chiamandole con un altro nome). E’ come domandarsi se i D.S.A. (disturbi specifici d’apprendimento) possano trovar giovamento con qualche buona chiacchierata da un buon psicologo o se a un tubercolotico possa giovare una bella passeggiata in un bosco a respirare aria pura… certamente sì!

Ma altrettanto certamente questo non lo cura dalla sua tubercolosi! Come ho fatto rilevare al convegno, ritengo che la psicoanalisi, ponendosi tra psicologia e filosofia, rimanga un’ermeneutica della liberazione della “soggettività” che qualche volta riesce bene, altre volte meno, ma non debba trovare la sua antagonista dirimpettaia nelle neuroscienze, né ingelosirsi dei suoi progressi, anzi rallegrarsene, eventualmente. Ogni tanto i due percorsi paralleli possono anche incrociarsi e all’occorrenza infiocchettare un nodo comune, ma poi ripartire per la propria strada, evitando sterili quanto inutili contrapposizioni.

Finisce qui il mio resoconto  sul convegno, ringrazio tutti gli organizzatori per la loro totale dedizione agli aspetti logistici, i relatori per la passione con cui  hanno esposto i loro  contributi comunque pregevoli e mi congedo con  affetto da tutti i lettori, immaginando che in mezzo a loro ci sia anche il “nostro” stimato GIOVANNINO (mio e di Francesco)… …che abbia letto anche lui gli articoli e che con  sobrio calore mi dica “Ti ringrazio!”, ma fermandosi lì, senza lasciar trapelare emozioni più profonde.

BIBLIOGRAFIA:

F. Basaglia “Conferenze brasiliane” (1979), Raffaello Cortina, Milano, 2000

G. Corbellini-G. Jervis ”La razionalità negata. Psichiatria e antipsichiatria in Italia”, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

G. Jervis ”Il buon rieducatore”, Feltrinelli, Milano, 1977

G. Jervis “Manuale critico di psichiatria”, Feltrinelli, Milano, 1975


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