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E’ di quelle cose che all’inizio confessi solo ad un amico, possibilmente uno caro, magari d’infanzia, per poi scoprire che appartiene anche a lui, e a molti altri. Quel piccolo vizio sgarbato, assolutamente privo di fascino intellettuale, che ti prende quando stai affogando in un misto di stanchezza, noia e pigrizia. Si, qualche volta mi succede di accendere la TV, solitamente di sera dopo un’attardata cena, e di comporre un numero a tre cifre sul telecomando, uno di quelli che portano spesso nel pattume visionario dei miserabili della gerarchia televisiva.
Ho provato, per provocare gli estremi di questa perversione, a soffermarmi anche su i venditori di numeri del lotto. No, li non funziona, troppo forte il divario tra coscienza e realtà. Chi si lascia indurre in attenzione, se non per scopi tardo lombrosiani, da chi invece di giocarseli ti vende dei numeri vincenti, ha ormai perso il conto con la vita.
Invece il venditore di quadri, e quando la giornata è andata proprio sul pesante, anche di tappeti, per me funziona. Il mio preferito è “occhi di pollo”, che spesso s’arrabbia con noi, cioè con i suoi telespettatori, per farci capire quanto siamo ottusi a non lasciarci convincere dalle sue appassionate presentazioni d’improbabili capolavori d’arte, e, come ogni sera, dall’eccezionale sconto “solo per stasera”.
Non mi è mai passato per la mente di comprare qualcosa nelle televendite, non è il prodotto che mi interessa, se non nella sua funzione di oggetto di scambio tra due sofferenze, ma rimango affascinato dal venditore, dalla sua comunicazione non verbale, dalla sua danza di movimenti suadenti, dalle pause motorie e vocali, dagli sguardi persi tra la telecamera e il nulla.
Un po’ per nobilitare questa mia debolezza mi convinco a volte che la mia attenzione è catturata da un istinto neuropsicologico alla percezione della sofferenza. In effetti, da un particolare punto di vista, il dramma della vendita ha il suo tragico personaggio proprio nel venditore, vittima dell’incredulità degli altri, con la nobile e grave missione del convincimento.
Solitamente in queste trasmissioni non c’è contorno scenografico, la scena è scarna, tristemente squallida, il venditore è solo nel suo dolore d’incompreso che si scioglie in attimo di pace solo dopo che la pietà del compratore si realizza con la telefonata di conferma. Telefonare al numero in sovraimpressione in basso a sinistra non serve a “comprare, acquistare, pagare”, ma solo a “vedere”, lasciandoci la pietà illusoria dell’ultima scelta.
Parlando con il mio amico e compagno di perverse visioni da televendita, lui sostiene che la forza affascinante di questi programmi sia il loro farci sentire al sicuro. Eppure la sicurezza dovrebbe essere lontana dall’imbroglio. O forse no. Forse potremmo sostenere che ogni sentimento di sicurezza è un imbroglio. La nostra fragilità, fisica e psichica, necessita di luoghi, mentali e materiali, sicuri, dove far riposare l’ansimante ansia da pericolo che solennemente ci appartiene.
La maggior parte dei luoghi da noi definiti sicuri, la casa, il lavoro, l’amore, il matrimonio, la famiglia, l’amicizia, in realtà di sicuro hanno ben poco. Costruiamo noi le nostre sicurezze convincendoci, attraverso un autoimbroglio, che certe cose siano per noi protettive e prive di pericolo.
Il fascino del venditore, figura che nella nostra cultura è al culmine del suo splendore*, agisce sulle nostre insicurezze e sul sentimento di pietà verso il dolore dell’imbonitore, fornendoci tranquillizzanti imbrogli in cambio di qualche euro, di un voto o della nostra anima.
Il venditore efficace, che sia istintivo o che abbia seguito corsi di PNL, si convince, almeno per il tempo della fascinazione, della bontà della sua vendita. Imbroglia prima se stesso, con fenomeni simili all’autoipnosi, per poi risultare credibile ai suoi bersagli. Non a caso parecchi degli imbroglioni che vagano nella politica, nella pubblicità, che oggi sono la stessa cosa, quando vengono scoperti nelle loro meschine menzogne reagiscono con rabbia e incredulità, negando la natura perfida dell’imbroglio, come se fossero gli altri, i vili cacciatori di magagne, i veri miscredenti truffatori.
Il grande imbroglio, quello che ci unisce tutti costretti a credere nella pubblicità sempre più presente ed invasiva in tutte le forme di comunicazione mediatica, è il contenitore mentale di gran parte della nostra vita. Credo che il danno psichico da sovraesposizione pubblicitaria sia molto più grave di quello che la nostra cultura ci fa credere. Ci siamo abituati a scambiare le nostre sofferenze, fatte di natura fragile e di bisogni psichici primari irrisolti, con dei prodotti, sempre più inutili ed infimi, e necessitiamo di un sempre più forte autoinganno per poter pareggiare il conto del baratto.
Quindi la fascinazione dell’imbroglio, che si tramuti in convincimento o meno, è il risultato del tentativo di risoluzione della nostra sofferenza di contatto con la realtà. Il venditore, con il suo autoinganno più potente del falso che racconta, ci dice di sospendere il giudizio razionale sulle nostre scelte, e di abbandonarci nel fantastico, in un mondo magico dove le paure e le ansie si dissolvono nel mistero di una pietosa bugia.
In fondo se per stasera mi convinco, anche solo per un attimo, che quel quadro miserrimo è un capolavoro, anche la mia vita lo può essere. E, soprattutto, se provo a crederci fortemente, forse non morirò mai.
*Ogni riferimento a politici, capi di governo vecchi e nuovi, personaggi di potere, è caldamente favorito.
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Scrittura deliziosa e verità amare… Complimenti!