Non appena un aereo delle compagnie internazionali tocca terra a Teheran, a bordo, come obbedendo a un riflesso condizionato, le donne iraniane vestite più o meno all’occidentale, ma sempre con un soprabito lungo, magari variopinto, si coprono immediatamente la testa, sia pure lasciando spuntare larghe ciocche sulla fronte. E quelle velate fin dall’inizio del volo, quasi sempre avvolte in indumenti scuri o addirittura in un chador nero, appaiono più a loro agio. E’ un gesto, quasi un rituale, che svela in un attimo due anime diverse dell’Iran: due modi di vivere l’Islam. L’Iran più occidentalizzato e riformista, che concepisce la religione come una scelta individuale e privata e che preme per una trasformazione della società guardando al modello europeo e americano. Un Iran più laico, insomma, pur nel rispetto della cultura islamica. E, di contro, l’Iran più tradizionalista e rigidamente “credente”, che vede nell’Islam un valore collettivo e sociale: la guida e il punto di riferimento per valutare e risolvere i problemi del Paese.
Si tratta, per grandi linee, anche di una differenza “geografica” e di classe. L’Iran più riformista trova spazio soprattutto nelle città e nelle università. In particolare, nei “quartieri bene” delle metropoli, simili almeno in parte a quelli delle capitali europee e nei quali è facile trovare ristoranti eleganti e costosi, negozi e centri commerciali con prodotti europei, vetrine con i marchi, le “grandi firme” e le griffe di moda anche a Parigi, Roma, Londra o New York. E’, in genere, l’Iran delle classi economiche e sociali più agiate: medie, medio alte o addirittura ricche. Professionisti, imprenditori, commercianti, funzionari, ma anche impiegati e studenti. Persone, in ogni caso, di buona cultura, magari con una formazione universitaria e spesso con studi condotti all’estero, ansiose di arrivare a una democrazia di tipo europeo. Soffrono i controlli, le restrizioni, la mancanza di libertà e non esitano a denunciarlo: tra di loro ma, sempre più spesso, anche “all’esterno”.
Specialmente i giovani, poi, per raccontare il Paese e per vincere la censura e la carenza di informazioni, sono diventati esperti “navigatori” del web e di internet, aggirando con abilità gli ostacoli e le interdizioni architettate dal governo. In una parola, è la gente alla quale i media occidentali fanno di solito riferimento, raccontando le proteste contro il regime o le manifestazioni per “modernizzare” il Paese. La stessa gente che ha sostenuto in massa il governo riformista del presidente Mohammad Khatami, l’ayatollah e politico moderato il quale, sulla scia del diffuso malcontento contro i fondamentalisti islamici al potere, ha trionfato nelle elezioni del 1997 promettendo un “cambiamento del Paese dall’interno” e che, rieletto poi nel 2001, è rimasto in carica fino alla vittoria, nel 2005, dell’attuale presidente Mahmoud Ahmadinejad, ex sindaco di Teheran, schierato su posizioni conservatrici.
L’altro Iran, quello più vicino alla tradizione religiosa, si concentra negli sterminati, anonimi quartieri di periferia delle metropoli, nelle campagne e nei villaggi, nelle città particolarmente legate all’Islam, come Mashhad, Qom e Yazd, tutte proiettate sui mausolei degli imam o sui santuari dei profeti, diventati nei secoli grandi centri di preghiera e punti di riferimento fondamentali per il credo sciita, affollati di migliaia di pellegrini ogni giorno. E’ un Iran più povero, fatto di milioni di famiglie modeste ma di grande orgoglio e dignità. Quell’Iran “profondo” che non compare quasi mai nelle analisi degli “esperti” e dei media europei o americani, ma che è la maggioranza del Paese ed è risultato determinante in tutte le ultime elezioni, dal 2005 in poi. Sostenendo con forza il governo di Ahmadinejad e smentendo gli auspici e le previsioni formulate in Europa o negli Usa, troppo schiacciate sull’immagine e sulle istanze dell’Iran cittadino, “colto, riformista ed emancipato”, che magari anima le proteste ma resta minoranza.
La differenza sul modo di sentire e di “vivere” l’Islam nella quotidianità, insomma, ricalca per molti versi una divisione di classe economica e sociale. Sia pure con le dovute e non poche eccezioni, “sentono” di più la religione e la tradizione, anche nelle scelte quotidiane più minute, le fasce più povere e disagiate della popolazione. Progressivamente di meno, invece, quelle più “borghesi” e ricche. La forbice tra le classi è fortemente divaricata. Da sempre. La rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini nel 1979 contro lo scià Reza Pahlavi, nasce anche da qui. Ma le diseguaglianze sono rimaste marcate ed ora la crisi che ha investito il paese continua ad approfondirle. Negli ultimi quattro anni, in particolare, l’inflazione, che già viaggiava intorno al 20-25 per cento (anche se lo Stato diceva ufficialmente attestata al 13) è arrivata a sfiorare quota 50. Un disastro per chi vive di stipendio. Con effetti che rischiano di diventare devastanti. Lo Stato continua a vantare grandi risultati economici e di sviluppo. Tutti i telegiornali e la stampa di regime sono pieni di dichiarazioni di questo tono, ma la realtà appare un’altra: si ha la sensazione che i ricchi stiano diventando sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e preoccupati, pervasi da un malcontento che sfiora ormai la “rabbia”. Anche se l’apparato governativo, a partire dalla guida suprema, l’ayatollah Alì Khamenei – succeduto nella carica statale più alta a Khomeini, morto nel 1989 – cerca di indirizzare questa “rabbia” all’esterno, chiamando in causa l’embargo economico, l’ostilità e in generale la politica degli Stati Uniti, descritti come una potenza arrogante e colonialista, asservita agli interessi di Israele e del “sionismo internazionale”.
Sta di fatto che i divari nella società iraniana si colgono facilmente nella vita di tutti i giorni. Emblematica la recente festa per il nuovo anno, che in Iran coincide con l’inizio della primavera astronomica, tra il 20 e il 21 marzo, a un’ora indicata di volta in volta con estrema precisione dall’Istituto di Astronomia dell’Università di Teheran. Quest’anno, il 1392 per il calendario persiano, è iniziato esattamente alle 14,31 e 56 secondi del giorno 20. Allo scadere del segnale lanciato dalla televisione, si è fermato per la festa l’intero paese. Ad Esfahan, 1,7 milioni di abitanti, la città iraniana più turistica, aperta e tollerante, la “gente bene” si è data appuntamento nella hall dell’hotel Caravan, uno dei più lussuosi in assoluto, dove un pranzo costa dai 15 ai 20 euro, più dello stipendio medio giornaliero di un impiegato o di un insegnante. Famiglie della borghesia danarosa, uomini con giacche dal taglio impeccabile, la maggioranza delle donne in abiti occidentalizzanti, trucco elegante e mai eccessivo, spesso naso, labbra e sopracciglia ridisegnate da un sapiente intervento di chirurgia plastica. Il velo – sempre obbligatorio nei luoghi pubblici – portato, quasi ostentato, come un accessorio alla moda: un vezzo gettato sulla nuca e in tinta armoniosa con tutto il resto. E anche le poche signore velate secondo la tradizione indossavano magari il chador nero, ma di tessuto pregiato, ingentilito da ricami e pizzi e impreziosito da gioielli e ori.
La gente del popolo, invece, ha invaso fin dalla tarda mattinata i parchi e i giardini pubblici, prendendone possesso per un lungo picnic collettivo che si è protratto fino al tramonto o addirittura fino a sera inoltrata. Seduti su stuoie o coperte stese sull’erba, grossi nuclei familiari (una, due, anche tre coppie, con i figli, i nonni, i fratelli, gli zii, i cugini…), allargati fino a diventare piccoli clan, hanno trascorso l’intera giornata a chiacchierare, a sonnecchiare, ad ascoltare cantori improvvisati, a scambiarsi gli auguri, attorniati da frotte di ragazzini e bambini. Gli uomini con giacche, giubbe e pantaloni di foggia antiquata, spesso consumati dall’uso. Molti con le mani rese dure e callose dal lavoro. Le donne quasi tutte vestite di scuro o addirittura in chador, ma comunque rigidamente velate fino alla fronte, in modo da mostrare soltanto l’ovale del viso. Almeno quelle dai 30 anni in su. Solo tra le più giovani, abiti e veli colorati leggeri, ma sempre con almeno un camicione lungo fino a metà coscia e, in ogni caso, capi e stoffe cinesi da poco prezzo, acquistate al bazar, lontanissime dalle griffe alla moda ostentate al Caravan. Sul viso, un trucco vistoso, spesso un po’ goffo. Per pranzo e cena riso aromatizzato al vapore e pollo bollito, preparati il giorno prima. Per brindare qualche bibita gassata e, soprattutto, la classica bevanda nazionale a base di yogurt allungato con acqua alla menta, anche questa fatta in casa. E’ un’usanza antica.
Con una variante significativa. In ogni festa di primavera, l’interminabile conversare nei picnic è sempre stato accompagnato da un mangiucchiare continuo di pistacchi salati. Quest’anno però quasi tutti hanno dovuto ripiegare su semi di girasole, nocciole, fichi secchi. Il pistacchio è troppo caro. La sempre più alta percentuale di produzione destinata all’esportazione e l’inflazione galoppante hanno fatto schizzare il prezzo a livelli mai visti, tanto da diventare oggetto di scherzi e battute. “Un regalo prezioso a mia moglie per il Capodanno? Non c’è dubbio: un chilo di pistacchi…”, ha risposto ad esempio un uomo intervistato da un cronista della Tv di stato, tirando fuori una sottile vena di ironia che sottolinea però l’enorme aumento del costo della vita. Quasi a dire che per chi arriva a malapena a guadagnare 400 euro al mese è bandito ogni extra. Anzi, fa fatica a tirare avanti, mentre c’è una fetta di paese che può permettersi griffe europee e ristoranti costosi nei quartieri bene di Teheran, di Shiraz, di Esfahan…
Negli ultimi cinque anni, il governo del presidente Ahmadinejad, che ama definirsi “un uomo del popolo”, ha cercato di colmare queste differenze, varando un vasto programma di interventi destinati alla gente delle periferie, dei villaggi e delle campagne. E’ nato da qui un fitto sistema di infrastrutture (strade asfaltate, rete elettrica, condotte per il gas e per l’acqua potabile) che ha raggiunto o sta raggiungendo anche gran parte delle località più sperdute, persino nel cuore del deserto. L’ultimo provvedimento è un sussidio mensile pari a 8-10 euro per ogni componente delle famiglie, da destinare all’acquisto di beni essenziali: le uova, la carne di pollo o di agnello (quella di manzo è cara e pressoché introvabile), il pane “che – protestava un anziano davanti a un forno – costa ogni giorno di più ed è confezionato in pezzature sempre più piccole”. Nell’elenco figura anche la benzina, schizzata a circa 50 centesimi al litro, di pessima qualità e per la quale non di rado bisogna fare lunghe file ai distributori.
Anche ad Ahvaz, la capitale della “provincia del petrolio”. Un paradosso per un paese che vanta tra le più importanti riserve di idrocarburi e gas del pianeta. “Il fatto è – spiega Shahab, un impiegato di banca – che pur avendo tanto petrolio non abbiamo le raffinerie. E le poche che abbiamo sono così antiquate e inefficienti che la produzione è bassissima e scadente. Così quasi tutto il greggio viene esportato e raffinato altrove e noi siamo costretti ad acquistare la benzina all’estero. A importarla, insomma. A caro prezzo. Carissimo”.
Tutti hanno diritto al nuovo sussidio statale. Ricchi e poveri. Ahmadinejad ha chiesto alle classi più agiate di rinunciarvi. E molti, in effetti, lo hanno fatto. Ma questa rinuncia è in pratica l’unico gesto di solidarietà e di apertura nei confronti delle classi più popolari. Accompagnato non di rado da giudizi negativi quando non addirittura sferzanti. “Teoricamente questa scelta di ‘andare verso il popolo’ è giustissima – sostiene Bashir, un giovane architetto – Dovrebbe servire a colmare divari troppo ampi e a fronteggiare il disagio sociale. Ma in realtà non tiene conto della situazione generale. L’aumento continuo del costo della benzina è micidiale: rischia di far lievitare a catena tutti i prezzi e rovina chi deve usare l’auto per lavoro. Per il contadino che non si muove mai dal suo villaggio il sussidio è un tesoro: la quota di carburante che gli garantisce è superiore alle sue esigenze.
Ma in città basta a malapena per un pieno. E poi? Serve ben altro per muovere l’economia. Questa storia del sussidio è solo populismo. Ahmadinejad se ne serve per procurarsi il favore delle masse che lo hanno rieletto nel 2009 e sulle quali conta anche per fronteggiare il potere di Khamenei, con cui non è più in sintonia da tempo. Ora che è alla fine del secondo mandato e non può più presentarsi, vuole far eleggere alla presidenza un suo uomo. Così continuerà a governare da dietro le quinte. Ma quella gente non si accorge di essere strumentalizzata. Anzi, non si pone nemmeno il problema: non si informa e non riflette. Si accontenta di quei quattro soldi e basta. Rinunciando a una vera democrazia. E allora diventa quasi impossibile aprire un dialogo costruttivo”.
Tra le classi meno abbienti, di contro, prevale spesso il timore che dietro il progetto formale di una “democrazia liberale” si nasconda il rischio di cancellare gli interventi statali a favore dei più deboli. A cominciare proprio da provvedimenti come il nuovo sussidio alle famiglie. Ma anche cardini fondamentali della società iraniana come l’assistenza sanitaria garantita, il sistema previdenziale pubblico, la scuola e l’università gratuite.
Un appuntamento decisivo saranno sicuramente le prossime elezioni presidenziali, previste per il 14 giugno. Khamenei, la guida suprema, dopo aver vinto qualche settimana fa quelle per il Parlamento, già si è mobilitato. Nel discorso di Capodanno, fatto nel santuario di Mashhad stracolmo di fedeli, ha invitato la gente a partecipare in massa al voto. “Per dare una forte prova di democrazia”, ha detto. Il presidente Ahmadinejad, per parte sua, non vuole abbandonare il campo dopo aver esaurito i due mandati previsti dalla Costituzione: continua a presentarsi come “l’uomo del popolo” in grado di guidare l’Iran fuori dalla crisi attuale e si sta dando da fare perché gli succeda un “erede” fidato, attraverso il quale gestire il potere, con una forte impronta nazionalista e anti israeliana. E i riformisti? Al momento sembrano i più deboli e confusi.
Chiedono un vero sistema rappresentativo ma fanno fatica a dialogare con le masse più disagiate. Forse per loro il punto è proprio qui: riuscire a trovare il modo di calarsi nei problemi quotidiani della gente che fa acquisti solo al bazar, fa la fila per il pane e la benzina e a Capodanno non ha altro che un picnic sull’erba per festeggiare. E’, a ben vedere, lo stesso problema che ha l’Occidente: Stati Uniti ed Europa, oltre a fare il tifo per le classi più “emancipate” e laicizzanti, dovrebbero probabilmente analizzare meglio la realtà dell’Iran più “profondo”. Tenendo conto che le sanzioni o addirittura la minaccia di interventi militari possono rivelarsi un boomerang pericoloso. Perché se c’è un collante che accomuna e compatta tutto l’Iran, al di là di fratture e divisioni, è il forte orgoglio nazionale che si coglie in tutte le classi sociali. (1. segue)
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