LA GRANDE DESTRA, LA TETTA E IL REGGISENO DEL PADRE

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Nel ricercare le cause della grave crisi politica ed economica che stiamo vivendo, in particolar modo dal dopo elezioni, molti analizzano argomenti che riguardano i meccanismi, e le persone, coinvolti nelle diverse strategie d’azione politica e istituzionale.

Da queste analisi tali cause sembrano generate da responsabilità di singoli, o magari da una legge elettorale pessima, che però nasce ancor più indietro, quando con il mito del maggioritario, aggravato dalle soglie di sbarramento e dai premi di maggioranza, e in nome della governabilità, si è cancellata la democrazia, dando agio all’idea che il miglior maggioritario e la migliore governabilità li si ottiene con la dittatura.

Come sempre si confondono i sintomi con le cause, in una crisi profonda che è soprattutto di carattere sociale, dove il baratro etico e culturale delle masse conformiste non permette di guardare all’interno di una sofferenza che ha tutte le caratteristiche di una malattia psicosociale. Non sarà certo con una variazione dei capipopolo, o con una elaborazione meno porcellesca della legge elettorale, o ancor peggio con la sottrazione dei rappresentanti parlamentari, concedendo ancor più potere ai singoli invece di diluirlo, che si risolverà la crisi.

Eppure tutte queste soluzioni, comprese quelle che riguardano il superamento della crisi economica, sono condivise in un marasma che accoglie la quasi totalità della cultura politica oggi rappresentata a livello istituzionale e mediatico: la grande destra. Le società si ammalano come gli individui, e come in questi il dolore non correttamente elaborato si trasforma in incapacità d’interagire funzionalmente con la realtà. E’ una realtà trafugata quella che viene messa in scena tutti i giorni dai media, dagli esponenti della grande destra che cerca di rappresentare il mondo, di conformarlo ai suoi interessi, travestendosi da presidente della Repubblica, da giornalista libero e illuminato, da vacuo metaforista, da giullare depresso.

Ed è proprio la depressione paradossa, quella negazione della svalutazione del sé data da scarso accudimento, sensi di colpa, magari per un incidente automobilistico che ha causato la morte di alcuni amici, e dalla mancata adesione ai bisogni reali, che crea una mitologia della potenza personale a discapito degli altri divenuti metafora proiettiva del sé reale disprezzato.

Da questo nasce l’etica della destra, ora condivisa nel grande ecumenismo culturale della grande destra, che insegue i soliti ideali, il dominio del mondo da parte dei ricchi, giustificato con il mito ormai universale della meritocrazia, non valido però se nello stesso merito e con parità di guadagni si mettono un lavapiatti e un imprenditore, e il disprezzo con strategia finale di eliminazione dei miserabili sfruttati.

La la grande destra corroborata dalla vigliaccheria dei mistificatori della finta sinistra ha ormai il controllo delle coscienze di gran parte della gente. Ha convinto anglosassonicamente che il valore del sé è quello dei beni accumulati, che la ricchezza non è più peccato, che chi sfrutta il lavoro dell’altro non è un più criminale ma un benefattore, che il mondo è come la grande tetta della mitologia psicologica infantile, lo puoi succhiare all’infinito tanto non finisce mai.

Le società ammalate, come gli individui, regrediscono, portandosi a fasi di sviluppo evolutivo precedenti per cercare di combattere l’angoscia del presente non più gestibile. La fantasia regressiva della grande tetta rappresenta anche la sconfitta del simbolo del padre, incapace ora di guardare con lucidità e coraggio la realtà definendone i confini tra il bene e il male. Un padre sconfitto nella sua funzione di responsabile della crescita etica dei figli lasciandoli in balia del desiderio onnipotente d’origine materna. E la nostra società scarseggia di padri, di padri reali, che ora indossano reggiseni metaforici per provare anch’essi ad allattare in continuazione i figli dimenticandone le necessità d’indipendenza e autonomia, e di padri sociali, ora sempre più ossessionati dai loro istinti egocentrici, patetici, aggressivi e manipolatori.

I simboli culturali della grande destra agiscono ormai come segni indelebili e potentemente efficaci nelle coscienze della stragrande maggioranza delle persone perché soddisfano le esigenze di difesa psichica contro la colpa per le proprie condotte disfunzionali. La sofferenza sociale ha accumulato ormai tanto dolore da non poterne più gestire il peso, e ognuno diventa capro espiatorio dell’altro, facilmente addomesticabile dai proclami propagandistici proposti dalla grande destra per la soluzione dei mali del mondo. Basta credere che i responsabili sono gli altri, che le risorse ambientali ed economiche sono infinite e chi sfrutta e accumula non toglie risorse all’altro, che la crisi economica in fondo è una specie di cataclisma naturale senza alcuna responsabilità umana, che i ricchi e i potenti sono buoni e benefattori, che Internet salverà il mondo.

Se di malattia psicosociale si tratta, risultato di un conflitto etico tra la cultura originaria e l’egemonia anglosassone, allora la logica terapeutica prevederebbe una psicoterapia sociale che metta in contatto le persone ammaliate dai falsi miti della grande destra e della grande tetta con la propria realtà e con la propria sofferenza. Non potendo immaginare, e neanche augurandolo, un simposio di illuminati terapeuti che si prendano carico delle sorti della nostra malattia sociale, la soluzione in questi casi è la consapevolezza del danno e il contatto con la realtà. Uscire nelle strade, chiudere la virtualizzazione delle relazioni e delle emozioni offerta dagli elaboratori sintetici di socialità e di democrazia, sputtanare i mistificatori della grande destra, contattare la sofferenza concreta degli altri come specchio della propria, e, finalmente, provare a fare qualcosa di utile, cioè di umano.


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