UN CHADOR RIVOLUZIONARIO: LA VITA DELLE DONNE IRANIANE

Un chador rivoluzionarioTeheran, Khordad Avenue dov’è l’ingresso principale del bazar, vicino alla moschea dell’imam Khomeini, un giorno qualsiasi, nel cuore dell’enorme centro urbano. Le donne con il chador tradizionale sono tantissime: macchiano di nero la folla che si muove indaffarata e i capannelli di clienti davanti ai negozi di tessuti a buon mercato e ai banchi di pistacchi e frutta secca. Ma sono molte anche quelle vestite più all’europea: soprabito o giacca leggera fino a metà coscia, tinte non gridate ma mai scure e veli, questi sì, di colori vivaci, non di rado con fantasie vistose e, soprattutto, portati con noncuranza, a mezza testa, lasciando ben in vista larghe ciocche di capelli, magari imbionditi o ramati. Non fanno due fronti queste donne: convivono nel via vai che anima già dal primo mattino tutta l’area intorno ai corridoi del bazar. Chador e soprabiti stretti alla vita animano spesso lo stesso piccolo gruppo di cinque, sei, sette: amiche o conoscenti che si frequentano. La “divisione”, semmai, è per età. Non è la regola, ma in genere le più giovani si accompagnano alle coetanee. E allora i chador neri sono rari. E’ come se le ragazze volessero affermare la propria identità e sottolineare il proprio “esserci” nella società iraniana cominciando proprio dal modo di vestire e, dunque, di presentarsi.

Quando si parla delle giovani che sognano un futuro diverso per l’Iran, più laico e aperto, il cuore e la mente vanno a Neda Agha Soltan, la studentessa di filosofia uccisa a diciassette anni, il 20 giugno del 2009, da un cecchino dei Basiji, la milizia armata volontaria, mentre partecipava alle proteste esplose all’indomani delle ultime elezioni presidenziali, vinte da Mahmoud Ahmadinejad. Le tragiche immagini del suo assassinio hanno fatto il giro del mondo. Grazie a un video amatoriale messo su internet, nessuno ha più dimenticato il suo corpo di adolescente steso a terra agonizzante, il volto insanguinato, le labbra che si muovevano piano, come a cercare di dire qualcosa.

A quattro anni di distanza Neda è ancora il simbolo dell’opposizione. Dei ragazzi e, soprattutto, delle ragazze che continuano a twittare: “Non sei morta invano”. Altre donne ne hanno raccolto il testimone: giovani come lei ma anche meno giovani. Come Azin, una studentessa universitaria ventiseienne arrestata dalle guardie della rivoluzione mentre era in piazza con Onda Verde, il movimento riformista che contesta l’attuale sistema di potere. E’ rinchiusa nella prigione di Evin, nei sobborghi di Teheran. La sua odissea è stata raccontata da Massimo Paradiso, un giornalista esperto di Iran e Medio Oriente, in un libro appena uscito, “Diventare sorelle a Teheran”. Dove le “sorelle” sono le detenute di Evin. Mahdieh Golroo, ad esempio, liberata dopo due anni e mezzo di carcere. I media iraniani non ne parlano quasi mai, ma le voci su internet raccontano giorno per giorno la loro battaglia e, aggirando la censura di stato, si rivolgono al mondo intero.

Pur non arrivando a testimonianze forti e dirette come queste, sono migliaia, milioni le donne che lottano per cambiare. Senza clamori, ma con determinazione, cominciando dalle scelte quotidiane, per chiedere, anzi, introdurre di fatto un diverso modello di vita: le relazioni con gli uomini, i comportamenti in pubblico, la foggia degli abiti, il ruolo nella società. Non in contrasto ma anzi accanto alle tante rimaste invece fedeli al chador e al velo come forma di identità individuale e collettiva. E, però, decise a sostenere che non c’è nulla di irrispettoso o addirittura di offensivo nel loro modo di porsi: esprime solo un’altra visione.

Capiscono questa loro scelta “diversa” anche molte che continuano a vestire invece con convinzione il chador. Tanto più che spesso le loro figlie e magari qualche amica il chador non lo hanno mai indossato o lo hanno dismesso. Anzi, se non fosse obbligatorio, farebbero lo stesso col velo. E’ un movimento sotterraneo che acquista forza giorno per giorno. Non in modo omogeneo. Stenta ed è guardato con sospetto in realtà come Mashhad, Qom o Yazd, le grandi città “religiose” strette attorno ai loro santuari o nelle famiglie più tradizionaliste. Ma a Teheran e in altre metropoli, come Esfahan o Shiraz, è difficile trovare donne che non confidino di essere aperte alla libertà di scelta. Anche se poche lo dicono “ufficialmente”. Quasi in un clima di rivoluzione “praticata” ma non “dichiarata”.

E’ iniziata, questa rivoluzione, con la vittoria del moderato Mohammad Khatami nelle elezioni presidenziali del 1997, rimasto poi al potere fino al maggio del 2005. Sulla scia delle riforme introdotte dal nuovo leader, le norme sull’abbigliamento e sui comportamenti sociali hanno cominciato a non essere più applicate o ad essere applicate in forma sfumata. Molte donne, specie a Teheran e iniziando dai ceti sociali più elevati, hanno preso a truccarsi, a tingersi i capelli, a scegliere abiti più aderenti e di colori vivaci, a “giocare” con il velo. E questa ventata di libertà riformista si è rivelata così forte che non è cessata anche dopo il successo inatteso di Ahmadinejad alle presidenziali del 2005 e a quelle successive del 2009. Tanto forte da diventare di fatto una riforma inarrestabile.

Ragazza con il veloIl modo di “sentire” il velo può essere il paradigma di questa riforma. Certo, portarlo resta obbligatorio. Ma con molta tolleranza e con una infinità di varianti. La più diffusa è quella di scegliere una particolare acconciatura che solleva e spinge il velo sulla nuca, lasciando scoperta tutta la parte anteriore della testa, in modo non solo da non nascondere ma anzi da incorniciare e mettere in rilievo sul davanti i capelli, sempre più spesso imbionditi quando non tinti di rosso o mechati. Un sistema usato dalle signore particolarmente eleganti è il velo che fa tutt’uno con l’abito, una specie di lunga sciarpa che parte da un ampio bavero della giacca. In ogni caso, nulla a che fare con la canonica copertura totale del capo e del collo, in modo da lasciare visibile solo l’ovale del viso.

Ecco, il viso. La “rivoluzione” continua proprio con il viso. Il trucco è sempre più diffuso, non di rado anche tra le donne fedeli al chador. A volte leggero e accurato, più spesso vistoso, in qualche caso pesante o goffo. Ormai è la norma tra le venti-trentenni ma anche tra le adolescenti. E, insieme al trucco, la chirurgia plastica per ridisegnare i tratti del volto. Talvolta radicalmente. Si è cominciato con il naso. Sono tantissime le donne, giovani, meno giovani o appena ragazzine, che hanno scelto di farlo, convincendo mariti e padri. Tanto che gli ambulatori dove si pratica questo tipo di chirurgia sono diffusissimi in tutte le grandi città. Il costo di un intervento varia, tutto compreso, dai mille ai quattromila dollari. In assoluto non sembra tanto, ma per molti iraniani quattromila dollari equivalgono quasi a un anno di lavoro. Forse proprio per questo il naso “rimodellato” è diventato uno status simbol, da ostentare non solo a operazione conclusa, quando sul viso non c’è più traccia dell’intervento del medico, ma anche prima, appena si è usciti dalla sala operatoria. Così è facilissimo incontrare ragazze con il setto nasale incerottato che si muovono in tutta tranquillità per le strade, nei ristoranti, a scuola, negli uffici. Ovunque, insomma. E dopo la conquista di un naso nuovo, una pratica ormai diffusa da anni, ora tocca alle labbra e al taglio delle sopracciglia, mentre si moltiplicano le signore bene che puntano sul lifting totale.

In certi ambienti almeno la metà delle donne si è rivolta al chirurgo plastico. Ad aggirarsi, ad esempio, nei viali del giardino botanico dell’università di Shiraz, già prestigiosa residenza dello scià Reza Pahlavi ed ora meta abituale degli studenti nelle ore libere tra una lezione e l’altra, oltre il 60 per cento delle ragazze che si incontrano ha il naso rimodellato, magari all’insù alla francese o diritto e perfetto come quello delle statue della Grecia classica. In particolare quelle che indossano abiti eleganti e fascianti, stretti alla vita, ma anche tante con vestiti più tradizionali o addirittura in chador. Ancora più alta la percentuale tra le clienti dei ristoranti costosi del quartiere Palazzo, sempre a Shiraz, o tra le signore presenti alla festa di Capodanno nel lussuosissimo hotel Caravan di Esfahan. Si è rifatta il naso anche Fatima, 25 anni, già mamma di due bambini, laureata in lingue con specializzazione in italiano, moglie di un ingegnere. Veste in modo elegante, sceglie sempre veli di vari colori, in genere chiari come gli abiti, ma li porta nel modo più tradizionale, annodandoli sotto il mento e coprendo completamente i capelli. “E’ il mio velo, fa parte della mia cultura. Non me lo toglierei mai in pubblico”, dice con convinzione. Poi aggiunge: “Però ho voluto modificare il disegno del mio naso, per ingentilire il viso. Quasi tutte le mie amiche lo hanno fatto. E le altre vorrebbero farlo anche loro”.

La telefonataIngentilire, trasformare il viso, dice Fatima. “Il punto è proprio qui – rileva Shahab, una laurea in architettura e storia dell’arte, un lavoro nel turismo – Le norme comportamentali tradizionali impongono alle donne di mostrare solo l’ovale del volto. Tutto il resto del corpo va celato: le più integraliste portano anche i guanti. Per quanto la regola si sia allentata con gli otto anni di presidenza di Khatami, certi principi restano: una ragazza o una donna non può vestirsi davvero all’europea, girando ad esempio in pantaloni e maglietta. Anzi, non può indossare nemmeno un abito troppo aderente. Modificare il viso, la sola parte che si può mostrare in pubblico, cercando di renderlo il più attraente e magari il più sexy e provocante possibile, diventa per molte quasi una sfida alla tradizione che vorrebbe ogni donna castigata e sottomessa. Quasi un modo per dire: ‘Voglio affermare la mia personalità, non ci sto più ai vecchi canoni’. Alle donne, cioè, tutte uguali sotto un chador nero”.

Rientrano in questo contesto vari comportamenti quotidiani, scelte individuali, atteggiamenti trasgressivi. Nei quartieri più ricchi, i negozi di moda con griffe europee espongono vestiti scollati o che lasciano le spalle e le braccia nude, pantaloni aderenti, camicie molto aperte sul petto. Davanti alle vetrine sono tante le ragazze che si fermano. Indossare quegli abiti in pubblico sarebbe uno scandalo: una sfida che provocherebbe l’intervento immediato della polizia. Ma sotto il chador, talvolta, ci sono proprio abiti di questo tipo. In occasione di una festa, ad esempio. Come un matrimonio. “La parte pubblica di un matrimonio è sempre molto formale. Canonica – racconta Behzad, impiegato di un’agenzia turistica e guida free lance – Una volta conclusa però la cerimonia ufficiale, quella ‘di facciata’, inizia la festa vera, nella casa di uno dei familiari degli sposi o in un locale preso in affitto. A quel punto diventa un fatto privato, riservato ai parenti e agli amici. E allora molte donne fanno sparire chador e veli e vestono come vogliono. Anzi, spesso gli abiti più audaci sono indossati da quelle che avevano il chador più chiuso e rigoroso. Anche i rapporti diventano meno formali e più liberi”.

Pic nic nel desertoProprio per sentirsi più liberi si è diffusa tra i giovani la moda delle “vacanze nel deserto”, campeggi di pochi giorni in qualche zona isolata. Niente di trascendentale o di particolarmente trasgressivo. Ma ragazze e ragazzi dividono l’intera giornata: i veli in genere vengono messi da parte, si parla insieme, si discute, si ascolta musica, si balla. Qualche volta si uniscono al gruppo anche giovani occidentali: turisti o magari studenti dei corsi di lingue per stranieri. E questo “stare insieme” si è trasferito a poco a poco anche nelle città. Fino a qualche anno fa era impossibile incontrare per strada gruppi misti di ragazzi e ragazze. Le regole comportamentali imponevano che donne e uomini restassero separati in pubblico: la polizia vigilava rigorosamente, interveniva, minacciava. Ora non più. “Il divieto resta in vigore – dice Behzad – ma i poliziotti fanno finta di niente. Forse perché anche loro sentono il vento del cambiamento o forse per un tacito ordine superiore. E i ragazzi gliene danno atto. Su internet si trovano spesso messaggi di giovani che sottolineano l’atteggiamento tollerante degli agenti e li ringraziano per non ostacolare questa rivoluzione del costume”.

La scuola e il lavoro sono la cartina di tornasole più concreta del mutamento in atto. Le scuole, dalle elementari alle superiori, sono divise per genere. Non esistono classi miste. Alunne e studentesse, anzi, devono indossare una divisa, rosa o azzurra per le bambine, scura per le ragazze. Tutte rigorosamente con il velo. Molte donne, ormai, contestano questa regola antica. Dicono, in sostanza, che tenere separati i maschi dalle femmine abbassa la qualità dell’insegnamento e, in ogni caso, tende a preparare a una società spaccata in due, dominata dagli uomini, meno aperta al confronto e nella quale si vuole continuare a riservare alle donne un ruolo subalterno, anche se spesso mostrano un livello di preparazione e capacità superiori. “In effetti i parametri di rendimento scolastico danno vincenti le ragazze”, ammette Alì, uno studente delle secondarie di Yazd, che si appresta a iscriversi alla facoltà di lingue. Il dato appare evidente proprio nelle università, dove il confronto è più diretto perché non c’è la separazione di genere: ragazzi e ragazze frequentano gli stessi corsi nelle stesse classi.

ShoppingDel milione circa di iscritti negli atenei pubblici, interamente spesati dallo Stato, oltre la metà sono donne. Affollano i corsi di filosofia, lingue, pedagogia, ma tante scelgono sempre più spesso facoltà tradizionalmente considerate maschili: economia, giurisprudenza, ingegneria, medicina. L’obiettivo è conquistare un ruolo di rilievo nella società e nel mondo del lavoro. “Ci stanno riuscendo in pieno nonostante le difficoltà e la tendenza a favorire gli uomini nei posti di maggiore responsabilità – sostiene Kamin, impiegato in un’agenzia commerciale – Nel mio ufficio le donne sono in maggioranza. Ciò dipende anche dal fatto che vengono pagate di meno, ma questo fattore, diciamo economico, sta diventando secondario. Conta invece che le ragazze sono in genere più preparate, più determinate e lavorano meglio degli uomini. Ed appare chiaro che questa affermazione sul lavoro finirà prima o poi per comportare una affermazione anche nell’organizzazione sociale, nella politica… Nella vita paese, insomma. E’ una spinta formidabile al cambiamento”.

Kamin non lo dice ma, a proposito di cambiamento, non appare certo un caso che ci siano tante ragazze in prima linea nelle fila dell’opposizione riformista. Anche Sheila non parla di opposizione politica: preferisce buttarla sulle trasformazioni sociali e del costume. Lei, dipendente di un grande albergo, appena può il velo se lo toglie, non ha mai portato il chador se non durante le visite ai santuari o alle moschee, veste il più possibile all’occidentale, mostra un trucco sofisticato e unghie laccate con cura. “Questa lenta rivoluzione pacifica che sta cambiando il modo di essere dell’Iran – sostiene – coinvolge le donne di tutte le classi sociali. Per quelle delle fasce più elevate è più facile: vengono da famiglie benestanti, acculturate, più aperte. Viaggiano, conoscono, si confrontano. Per le altre i modelli arrivano dalle televisioni estere, dalle letture, da internet. Anche dagli stranieri che giungono in Iran. Non è un caso, ad esempio, che le turiste europee vengano spesso fermate, magari con la richiesta di fare una foto insieme, per cercare di iniziare un discorso, ascoltarle, osservarne i comportamenti e il modo di fare, gli abiti e il trucco, prenderle a modello. Sono tempestate di domande. Ci sono tanti modi, insomma, per uscire dal guscio del tradizionalismo. Non basta un chador a coprire quello che accade nel mondo. Il che non significa che vogliamo accettare o copiare tutto ciò che viene dall’Occidente. Non crediamo che l’Europa o l’America siano il paradiso, però vogliamo conoscere e capire. Per arrivare a un Iran diverso, meno ‘militante’. Sentiamo sempre parlare della minaccia di ‘nemici esterni’. Ecco, parliamo meno di nemici e più di amici: ne verrà fuori un paese migliore”. (foto di E. Drudi)


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