Le grandi manovre per le elezioni presidenziali in Iran, previste per il 14 giugno, dopo due mandati quadriennali di Mahmoud Ahmadinejad, sono iniziate alla fine del 2012, in dicembre, quando il Parlamento ha approvato un nuovo regolamento per le candidature che introduce di fatto forme di controllo più rigide da parte dell’apparato di potere e che, di conseguenza, rischia di limitare enormemente la libertà di scelta. “Le linee guida introdotte – rileva ad esempio Giada Neski in un servizio pubblicato da Il Manifesto – rendono praticamente impossibile concorrere alle elezioni senza l’appoggio della dirigenza politico-religiosa”. Per essere candidati infatti occorre avere il sostegno di almeno 100 dei 290 membri del Parlamento e di 25 degli 86 componenti dell’Assemblea degli esperti, formata da giuristi e accademici. Ma non è finita: superato questo scoglio, si potrebbe incappare nel veto del Consiglio dei guardiani, costituito da sei religiosi nominati dall’ayatollah Khamenei, la guida suprema, massima autorità dello Stato, e da sei giuristi scelti dal potere giudiziario con l’avallo del Parlamento. E’ facile immaginare, dunque, che per un riformista radicale la strada appare chiusa in partenza.
Tutto sembra congegnato per confermare la supremazia di Khamenei. La prima partita, oltre tutto, si è già chiusa con una sua vittoria. All’inizio di marzo si sono svolte le elezioni parlamentari, sempre distinte e tenute a distanza di qualche mese dalle presidenziali. La disputa era tra due fronti: quello di Khamenei, appunto, e quello che ha come riferimento il presidente uscente Ahmadinejad, anche lui conservatore ma su posizioni laiche. Alla vigilia il risultato era considerato incerto, grazie anche alla popolarità conquistata dal presidente con la sua politica rivolta alle classi più umili. Le urne, invece, hanno decretato un successo piuttosto netto per lo schieramento della guida suprema. E questo responso suona come un campanello d’allarme per Ahmadinejad il quale, da tempo in rotta di collisione con l’apparato religioso tradizionalista, sperava in una buona affermazione proprio per rafforzare il suo potere e affrontare le presidenziali con alle spalle una consistente maggioranza parlamentare. Anche se lui, infatti, non potrà presentarsi avendo esaurito i due mandati previsti dalla Costituzione, conta di riuscire a gestire il governo attraverso un “suo” presidente. Sono tre i “candidati fedeli” sui quali punta attualmente: Esfandiar Rahim Mashai, Hassan Mousavi e Hamid Baqai. In particolare Mashai, considerato l’uomo forte del fronte presidenziale, capo della segreteria, primo consigliere e, per di più, consuocero di Ahmadinejad. In seconda battuta gli altri due: Mousavi, che è a capo dell’organizzazione per la cultura e il turismo, e Baqai, entrato da due anni nella ristretta cerchia dei consiglieri della Presidenza.
Anche Khamenei ha diversi concorrenti sui quali puntare. Molti vedono in pole position l’attuale sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Qalibaf. Sono accreditati di buone possibilità, tuttavia, anche l’ex presidente del Parlamento Ali Larijani; il consuocero di Khamenei Haddad Adel, anch’egli ex presidente del Parlamento; e Ali Akbar Velayati, responsabile della politica estera dell’ufficio della guida suprema. Sono questi quattro che, insieme a Khamenei e forti della nuova maggioranza alla Camera, si stanno muovendo di più per erodere il potere di Ahmadinejad e preparargli un’altra sconfitta nelle elezioni, dopo quella del marzo scorso.
Un terzo polo è costituito dai riformisti che ancora rimpiangono gli otto anni della presidenza dell’ayatollah moderato Mohammad Kathami, tra il 1997 e il 2005. Punta di diamante di questo movimento, che affonda le radici nella società civile, è Onda Verde, il gruppo che ha guidato la lunga protesta esplosa dopo le elezioni del 2009 contro i presunti brogli attribuiti ad Ahmadinejad e repressa nel sangue, con morti, arresti, persecuzioni. E’ stata una stagione di lotta memorabile, che ha avuto ampia eco in tutto il mondo, ma la feroce reazione da parte del potere costituito ha finito per decapitare queste forze di opposizione, con l’arresto dei principali personaggi guida, il religioso moderato Mehdi Karroubi e l’architetto Mir Hossein Mousavi, entrambi agli arresti domiciliari dal 2011. Benché costretti al silenzio o comunque sottoposti a controlli e restrizioni che impediscono loro di fare politica attiva, però, sia Karroubi che Mousavi sono considerati ancora i leader dei riformisti, tanto che Onda Verde ha lanciato una campagna per liberarli, battezzandola provocatoriamente “Il mio voto è in arresto”. A significare, appunto, che con i due principali esponenti riformisti forzatamente fuori gioco, le elezioni presidenziali saranno da considerarsi falsate e prive di valore: addomesticate a favore del sistema di potere tradizionale e conservatore, poco importa se a prevalenza religiosa con gli uomini di Khamenei o “laica” con quelli di Ahmadinejad. “A mancare – accusano – sarà la parte più avanzata, più aperta e più giovane del paese”.
Nella nuova competizione a due che – a meno di sorprese – sembra profilarsi, il fronte di Khamenei è sostenuto dal clero più conservatore e dall’apparato più tradizionalista, inclusi gli alti vertici militari o a capo di settori chiave come l’industria petrolifera e quella nucleare. In Ahmadinejad, oltre che le forze ultranazionaliste laiche, si identificano una larga fetta della finanza, i ranghi medio bassi dell’esercito (colonnelli, ufficiali inferiori e gran parte della truppa), i pasdaran, la milizia volontaria armata, delle ultime generazioni e, in misura crescente, la popolazione delle aree rurali e le classi disagiate, in particolare quelle che affollano le grandi periferie urbane. Sono, in sostanza, le stesse fasce sociali che, andando a votare in massa come mai era accaduto in precedenza, lo hanno portato alla vittoria nel 2009 e nei confronti delle quali ha rivolto grande attenzione nelle scelte della politica governativa degli ultimi anni. “Si sente così sicuro dell’appoggio della gente più umile in tutte le province – dice Shahab, un giovane architetto – che usa ormai questa forza, senza alcun timore, anche contro la stessa guida suprema”. Un giudizio analogo è stato espresso da Pejman Abdolmohammadi, un giornalista che collabora con la rivista Limes, in una recente analisi sulla situazione iraniana: “Proprio questa base solida ha permesso ad Ahmadinejad di sfidare sempre di più l’ayatollah Khamenei: si pensi al licenziamento nel 2010 del ministro degli esteri Manuchehr Mottaki, uomo vicino a Khamenei, e al tentativo di rimuovere nel 2011, Heidar Moslehi, ministro dell’intelligence, fermato da Khamenei, che pose il veto”. La stessa scelta di candidare Esfandiar Rahim Mashai alla presidenza, come “erede” di Ahmadinejad, appare una sfida aperta alla guida suprema, che non ha mai nascosto la propria avversione nei suoi confronti.
Se questa previsione di lotta elettorale a due è esatta, il fronte di Ahmadinejad, finora contestatissimo dagli Stati Uniti, da quasi tutte le cancellerie europee e soprattutto da Israele, potrebbe diventare quello più “accettabile” per l’Occidente. Anche se gli ultimi “avvertimenti” nei confronti del leader nazionalista sono proprio di queste settimane, sia da parte degli Usa direttamente per bocca di Obama, sia da parte del presidente israeliano Benjamin Netanyahu. E’ sempre Pejman Abdolmohammadi a spiegarlo: “Sul piano della politica estera la vittoria del fronte khameneinista rafforza gli ultraconservatori, spingendoli probabilmente a radicalizzare le tensioni con l’Occidente sulla questione nucleare, anche perché i ‘falchi’ presenti al vertice delle forze armate sono vicini a Khamenei. Non va trascurato inoltre che i khameneinisti sono sostenuti dalla Cina e trovano appoggio anche nella Russia di Putin, che vede nella Repubblica Islamica un alleato strategico. Con la loro vittoria si prospettano quindi un ulteriore avvicinamento dell’Iran alla Cina e una linea politica più rigida da parte di Teheran nei confronti dell’Occidente. Il gruppo presidenziale resterebbe così paradossalmente il potenziale interlocutore dell’Occidente. Ahmadinejad da mesi lancia segnali di disponibilità al dialogo agli Stati Uniti, finora non raccolti dall’amministrazione Obama. Se il suo fronte dovesse prendere il sopravvento su quello khameneinista, sarebbe più probabile una mediazione con l’Occidente sulla questione nucleare”.
Non è detto, tuttavia, che la partita si risolva a due. Una sorpresa che sconvolgerebbe le attuali previsioni potrebbe venire dal voto delle generazioni più giovani, i venti-trentenni, tra i quali sono sempre più diffuse le idee riformiste e la voglia di apertura. In particolare tra le donne, protagoniste di una rivoluzione silenziosa, condotta giorno per giorno, cominciando dai comportamenti quotidiani, che sta mettendo in discussione il modo stesso di essere dell’Iran. Sono loro, questi venti-trentenni, le voci più fresche e decise della società civile che ha voglia di cambiare, a partire dalla separazione tra religione e politica. Tutto sta a vedere, ora, se in vista delle presidenziali riusciranno a coagularsi in un preciso schieramento di sintesi che possa rappresentarne le istanze. Di certo con questi giovani nati dopo la rivoluzione del 1979 sono comunque schierate le forze che fanno capo all’anziano ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, uno degli uomini più ricchi dell’Iran, esponente di punta del fronte moderato, già presidente dal 1989 al 1997, sostenuto anche dai religiosi “pragmatici” e che non fa mistero della sua ostilità sia alla politica rigidamente conservatrice di Khamenei, sia alla chiusura nazionalista di Ahmadinejad.
Pur mancando solo due mesi all’apertura dei seggi, è difficile cogliere indicazioni sull’orientamento del voto. Non c’è, in Iran, alcuna forma di campagna elettorale simile a quelle europee e la stampa indipendente è imbavagliata, con tanto di arresti e diffide. Meno di due mesi fa sono finiti in carcere Milad Fadaie, dell’agenzia Ilna, e Soleyman Mohammadi, caporedattore del quotidiano Bahar. Soltanto su internet c’è un crescente scambio di messaggi e commenti. Affidarsi esclusivamente a questi, però, potrebbe risultare fuorviante: è già accaduto almeno in parte quattro anni fa. Il fatto è che il web è patrimonio quasi esclusivo dei riformisti. Non hanno invece quasi alcuna confidenza con la “rete” le classi più popolari che Ahmadinejad nel 2009 è riuscito a portare alle urne compatte sul suo nome e che, se torneranno a votare in massa, risulteranno ancora determinanti. Anche se non è chiaro a favore di quale schieramento. Visti i risultati delle elezioni parlamentari del marzo scorso si potrebbe pensare a un vantaggio del fronte religioso di Khamenei, ma vari osservatori fanno notare che per la scelta del nuovo presidente, essendo per certi versi un voto più “personale”, il seguito vantato da Ahmadinejad presso gli strati sociali più popolari, potrebbe fare la differenza a favore del “suo” candidato, magari proprio il consuocero Esfandiar Rahim Mashai.
Diversi fattori potrebbero influenzare l’orientamento degli elettori. Sul fronte interno soprattutto l’economia. Le difficoltà e l’incertezza diffusa, con l’inflazione arrivata ufficialmente a circa il 20 per cento ma valutata nella realtà oltre il doppio, malumori e tensione stanno crescendo. Dalla crisi sono colpite soprattutto le classi medio basse e quelle più umili. Non a caso Ahmadinejad, che ama definirsi “uomo del popolo”, ha promosso tutta una serie di iniziative a favore dei più deboli, utilizzando i guadagni provenienti dal petrolio e dal gas per cercare di mantenere bassi i prezzi, introducendo dei sussidi mirati e promettendo di creare posti di lavoro specie per i giovani. Lui stesso adotta un profilo di vita da “uomo qualunque”: casa modesta, auto di serie, abiti da grandi magazzini. E, per uscire dall’isolamento economico provocato dall’embargo occidentale, mostra di credere molto nel programma di grandi progetti statali messo a punto negli ultimi anni. Come il gasdotto verso il Pakistan e l’India decollato all’inizio di marzo e che apre all’Iran la strada verso i mercati emergenti dell’estremo oriente. Sulla lotta alle sanzioni insiste anche Khamenei, sostenendo che le restrizioni volute dagli Stati Uniti possono diventare una occasione di crescita e di autonomia. Una sorta di “sfida nazionale”, che diventa anche un fattore di politica estera.
Su questo fronte al momento la questione più seguita è quella siriana. La rivolta contro Bashar el Assad, sciita alawita da sempre alleato dell’Iran, è considerata frutto delle mire neocolonialiste americane, per affermare la supremazia israeliana nella regione. Mire che avrebbero l’avallo anche dei governi sunniti della Turchia e dell’Arabia, preoccupata per l’espansione segnata dallo sciismo negli ultimi anni (specie dopo la caduta di Saddam Hussein in Iraq), tanto più che il 30 per cento della popolazione saudita è sciita, risulta in forte crescita e vive concentrata in massima parte proprio nelle province più ricche di petrolio. Tra molti iraniani, “gente del popolo” che avverte tutto il peso dell’ostilità reciproca con l’Occidente, crescono il sospetto e il timore che, risolto il problema Siria con la cacciata di Assad, nel mirino possa finire proprio l’Iran. Se non altro per spingerlo a ritirarsi dalla sponda del Mediterraneo dove è arrivato attraverso la “federazione sciita” che va dal Golfo Persico alla Siria e al Libano. Entra così in gioco anche Hezbollah, il partito sciita libanese le cui milizie sono da decenni in lotta con Israele e che ora chiede un rinnovo della costituzione per superarne il confessionalismo religioso che impedisce agli sciiti, diventati ormai la maggioranza della popolazione, di accedere alla presidenza della repubblica e alla guida del governo. E proprio Hezbollah ha più volte dichiarato il forte legame creato dallo sciismo tra il Libano e l’Iran: “Noi rappresentiamo – ha spiegato Ammar al Moussawi, responsabile della politica estera del partito, al giornalista italiano Antonio Picasso – la manifestazione di una rinascita islamica dalle dimensioni patriottiche. Con la caduta dello scià in Iran nel 1979, siamo cresciuti in maniera importante. A ispirarci è il nostro senso di giustizia”.
L’evoluzione della crisi siriana può rivelarsi insomma un fattore essenziale per tutta la comunità sciita che vive tra il Golfo Persico e la Mezzaluna Fertile. Non a caso Teheran ha seguito con grande attenzione l’incontro convocato a Roma, a fine febbraio, dagli “Amici della Siria”, l’organismo che con il Qatar, l’Arabia, la Turchia e gli Stati Uniti, dall’aprile 2012 ha deciso di stanziare milioni di dollari a favore degli insorti anti Assad. “Sarà un caso – protesta Nadir, uno studente di Teheran – ma poco dopo quell’incontro Francia e Regno Unito hanno cominciato a proporre di revocare l’embargo sulle armi destinate ai ribelli siriani, anche se è noto che tra loro i gruppi fondamentalisti, inclusi jihadisti e qaedisti, hanno ormai il sopravvento sui sunniti moderati e ancora di più sulle formazioni laiche. Ed è strano che mentre si parla tanto di primavere arabe, l’Occidente si sia dimenticato del Bahrein, dove i ribelli che chiedono riforme e democrazia sono sciiti. Non una parola sui giovani imprigionati, perseguitati, uccisi. Forse perché il governo che reprime nel sangue la protesta e quelli che lo aiutano, a cominciare dall’Arabia, sono alleati degli americani”.
Appare evidente, dunque, che eventuali “novità” in Siria possono incidere fortemente sul voto iraniano del prossimo giugno. Più ancora, nell’immediato, di quanto possa contare l’espansione verso i grandi mercati dell’Estremo Oriente. Lo stesso vale per il programma atomico, sostenuto dalla maggioranza degli iraniani anche a costo di sfidare l’opposizione internazionale guidata da Israele e dagli Stati Uniti e citando, in antitesi, il nulla osta dato alla politica nucleare di Israele, Pakistan e India. Non manca, tuttavia, chi spera di poter uscire prima o poi da questo clima di scontro, riprendendo il colloquio con l’Occidente. Magari attraverso la mediazione della Francia, che da sempre gioca un ruolo importante in Iran. “L’ayatollah Khomeini – ricorda Behzad, un agente turistico – è stato esule a Parigi e nel 1979, quando è scoppiata la rivoluzione, ha fatto ritorno a Teheran con un volo Air France. E la Francia conta molto nella nostra economia. Nell’industria petrolifera, ad esempio, ma anche in altri settori. Basti dire che l’80 per cento delle auto circolanti sono francesi, in gran parte Peugeot, costruite su licenza in Iran, ma anche Citroen e Renault. Nei supermercati e nei centri commerciali, poi, i prodotti francesi sono sempre in primo piano, incluse le più quotate griffe della moda”. Spingono in questa direzione, in particolare, i giovani riformisti, che sognano un sistema rappresentativo democratico più vicino al modello europeo. Il loro progetto è guardato con sospetto dalle frange tradizionaliste e conservatrici, ma potrebbe fare breccia se riuscirà a colloquiare con le classi più umili, che sentono tutto il peso della crisi e chiedono maggiore considerazione. Certo è, in ogni caso, che quello del 14 giugno potrebbe essere un appuntamento decisivo per l’Iran e l’intero Medio Oriente. Non a caso Khamenei insiste sulla necessità che la gente vada a votare in massa. Rivolgendosi in particolare ai religiosi più tradizionalisti.
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