Ci sono cose nella vita che se non le vuoi vedere non le vedi. Neanche se si tratta di un elefante. Neanche se è lì, nel tuo salotto, tra il divano ed il tavolino. Fin quando non sarai pronto a vederlo non ti accorgerai di questo enorme pachiderma che influenza il corso dei tuoi pensieri, dei tuoi comportamenti, delle tue relazioni.
Tommi, un diciassettenne bolognese, per un certo periodo lo ignora il suo elefante, stordito da una vita di eccessi, tossica e sbandata come i suoi amici, un gruppetto di bulli sempre alla ricerca di emozioni forti. I suoi genitori, troppo presi a litigare, a somatizzare il fallimento del loro credo sessantottino, imprigionati loro malgrado in una realtà che da giovani idealisti avevano odiato, sembra non possano fare nulla per lui. E poi c’è Francesca, che Tommi conosce mentre sta letteralmente vomitando tutta la sua insofferenza nei confronti della vita, che non lo lascia solo. Proprio dopo questo incontro cambieranno molte cose…
Ne abbiamo parlato con l’autore Andrea Fiorenza, psicoterapeuta e scrittore, in occasione della presentazione del libro “L’elefante nel salotto” (ed. Fernandel) al Caffè Letterario di Roma.
La frase iniziale, molto d’effetto, “La felicità non si costruisce in coppia, l’infelicità forse sì”, ma anche gli eventi che si susseguono nel libro sanciscono un declino dell’istituzione della famiglia, o forse una nuova consapevolezza della stessa?
No, non sanciscono la fine della famiglia. Secondo me può funzionare o non funzionare, ma la famiglia rimane sempre tale. La frase iniziale vuole significare la difficoltà di raggiungere un livello di benessere, di felicità insieme agli altri. Dal mio punto di vista è molto più semplice stare bene da soli, perché i fraintendimenti sono enormi già quando si è in due, figurarsi in tre, in quattro.. Se poi si vive sotto lo stesso tetto cominciano a subentrare tutta una serie di detti, non detti, rancori. E allora la possibilità di stare bene si allontana, la costruisci più da solo.
Ho avuto l’impressione che le due generazioni “genitori” e “figli” non fossero poi molto diverse, entrambe piene di debolezze, fobie, disadattamenti, dipendenze. Insomma il genitore è rappresentato un po’ fuori dal solito clichè rassicurante della persona risolta ed equilibrata, in grado di guidare il proprio figlio durante la crescita. La sua è una critica a come viene gestito il ruolo genitoriale nelle ultime generazioni?
E’ la fotografia di molte famiglie, simili alla famiglia del romanzo, che assumono dei toni comici. Agli occhi del protagonista quella è una famiglia drammaticamente comica, però. Qualunque scambio diventa un momento di comicità involontaria. E lì si perde tutto, si finisce col non capire più chi è l’adulto e chi è il ragazzo. E’ voluto, narrativamente, il far vedere come una società basata sugli eccessi porti poi a queste dinamiche; nei ragazzini eccessi di vita emotiva, negli adulti altri eccessi ma entrambi allineati su questo punto. Quello che si è venuto a perdere è una semplicità nello stare insieme.
Un aspetto che mi aveva incuriosita: il concetto di “radici” che accompagna tutto il romanzo, che il protagonista non riesce a fare proprio fino alla fine. Solitamente avrebbe una connotazione positiva, facendo riferimento all’idea di radici familiari, da dove si proviene, i propri valori; nel libro, invece, sono accostate al concetto di immobilità, del rimanere fermi quindi in contrapposizione a quello di cambiamento e di crescita…
Le radici per me non rimandano allo stare fermi in senso geografico, è invece lo stare fermi evitando gli eccessi di cui parlavamo prima, solo così si riescono a mettere le radici. Se non si è in grado di gestire la propria impulsività, la propria inquietudine, sia come membro che come famiglia, non è possibile mettere nessuna radice. Quel nucleo familiare [la famiglia del protagonista, ndr] non si radica in niente, è un nucleo che fa il suo percorso e si disperde… è un nucleo emigrante, non dal punto di vista geografico ma da un punto di vista emotivo e relazionale. Questa, credo, sia una delle incapacità della persona e della famiglia di oggi, quella cioè di rimanere fermi su due o tre punti: chi rimane “nella propria terra” rimane fermo perchè “coltiva la terra”, mantiene una relazione con i propri cari. Chi va via e perde questo, poi è incapace di ricostruirlo altrove, gli rimane sempre la voglia di tornare.
Mi ha colpito la scelta dare la voce dell’Io narrante al protagonista 17enne, con un linguaggio molto realistico ed il sarcasmo tipico degli adolescenti. Come mai questa scelta stilistica?
Ho fatto delle prove. Avevo provato la terza persona, avevo provato a narrarlo dal punto di vista di un adulto, del padre, ma erano tutte soluzioni che non mi convincevano, non avevo trovato la voce, né il ritmo. Poi ho cominciato a far parlare Tommi e ho visto che si muoveva bene, mi ha convinto, riuscivo ad immaginarlo, vedevo che stava prendendo vita, non era più un burattino ma era reale, di carne.
Quanti Tommi ha conosciuto nel corso della sua esperienza clinica?
Non molti perché io lavoro di più con le famiglie.
Quindi da dove nasce l’idea di parlare di autodistruzione e gioventù? A cui comunque fa seguito una sorta di redenzione, di cambiamento, una voglia di ricominciare…
E’ una scelta dettata dal voler portare il tema della difficoltà di ricominciare, quindi di qualcosa che si spezza, in un terreno nuovo. Nel libro ad un certo punto qualcosa si rompe, c’è una frase in cui Tommi riflette su questa cosa quando la ragazza, Francesca, lo lascia [“Ero rimasto fermo, con lo sguardo su alcune gocce d’acqua che scendevano da una colonna del portico. Scivolavano veloci e si congiungevano, per poi rompersi alla base della colonna. Le cose si rompono, mi era venuto da pensare.” ndr]. E quindi il voler raccontare qualcosa che si rompe in un contesto, quale quello dei giovani, che di solito non viene narrato in questo modo. I giovani vengono rappresentati come ragazzini che fanno stupidaggini, che si legano con i lucchetti, e difficilmente si scrive di giovani che non ce la fanno più, che devono ricominciare, anche se è molto difficile. Era importante per me attribuire al giovane un tema che è del giovane, perché spesso questo viene conferito al trentenne, al quarantenne, al cinquantenne, come se gli adolescenti avessero altri problemi, più futili e banali. Pur conoscendoli poco, provo a parlarne.
Secondo lei, la presenza dell’elefante nel salotto è una tappa inevitabile nella crescita personale dell’individuo?
Sì assolutamente, penso sia una bella sfida quella di guardarsi allo specchio e chiedersi qual è quel segreto che si cerca di nascondere a sé stessi, qual è quel problema che non si affronta, quella cosa ingombrante che si ha davanti agli occhi e si cerca di non vedere. Io nel lavoro clinico vedo persone che mi portano problemi lontanissimi dai loro reali: fa talmente paura affrontarli, che si sposta l’attenzione su altro e si finge che non esistano.
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