LA FREDDA PRIMAVERA EGIZIANA

La fredda primavera egizianaDalla primavera di democrazia alle soglie della guerra civile. Con il rischio di un effetto destabilizzante a valanga in tutta la regione, perché da sempre quello che accade in Egitto anticipa e determina le sorti del Medio Oriente mediterraneo. Tutto in poco più di due anni, dai primi mesi del 2011 all’inizio di questa estate 2013. Colpisce l’evoluzione della rivolta che dopo trent’anni ha spazzato via il potere di Hosni Mubarak, dittatore gradito agli Stati Uniti e all’Europa, salvo a scaricarlo senza tanti complimenti quando è stato chiaro che non avrebbe retto all’onda montante della protesta che ha avuto come motore e simbolo la giovane piazza Tahrir ma che ha investito l’intero paese, compattando laici, islamici e cristiani.

Ora c’è stata una seconda piazza Tahrir che ha travolto, grazie all’alleanza con l’apparato militare, anche il governo islamico e il presidente Mohamed Morsi, l’esponente dei Fratelli Musulmani eletto giusto un anno fa e destituito con un colpo di stato dell’esercito. Gli avvenimenti si stanno susseguendo rapidamente. Nel giro di pochi giorni è stato nominato un altro presidente della Repubblica, Adly Mansour, ex capo della Corte Costituzionale; si è insediato un governo provvisorio, guidato da Hazem el Beblawi, finanziere e già ministro nel 2011; è stata varata una nuova costituzione, abolendo quella adottata da Morsi; sono state promesse “elezioni democratiche” sotto il controllo di osservatori internazionali entro sei mesi, con l’impegno di non escludere nessuna forza politica. Anzi, con un invito esplicito ai Fratelli Musulmani a partecipare al voto e a non arroccarsi su posizioni di rifiuto o peggio. Ma la situazione rischia di esplodere: è eloquente la strage di due settimane fa al Cairo, una mattanza con oltre 50 morti. E’ una partita drammatica che si gioca a tre: la gente di piazza Tahrir, i Fratelli Musulmani, i militari. Con numerosi spettatori interessati, pronti a loro volta a intervenire o quanto meno a interferire: gli Stati Uniti, l’Europa ed Israele.

Piazza Tahrir è stata ed è ancora oggi la punta di diamante secolare e modernista di una politica che sogna un Egitto diverso, più democratico e più simile all’Europa. Un’aspirazione antica. Per certi versi affonda le radici nel deciso “europeismo” introdotto dal governatore Mohamed Alì a partire dalla prima metà del 1800 e che puntava a conquistare la massima autonomia dall’impero ottomano: a “portare l’Egitto in Europa”, con una serie di radicali riforme politiche, economiche e legislative e promuovendo grandi opere che hanno cambiato il volto del paese. E’ allora, con Mohamed Alì e i suoi successori, che sono nati il parlamento, le scuole laiche, i partiti; che è stato aperto il canale di Suez; che sono stati scavati migliaia di chilometri di canali per l’irrigazione, costruita una rete stradale moderna, introdotte le prime ferrovie; che si è pensato per le grandi città a piani regolatori sul modello delle metropoli francesi e inglesi; che l’Egitto è diventato uno dei più grandi produttori mondiali di cotone e zucchero. Ma come questo modernismo ottocentesco fu un movimento essenzialmente elitario, lontano da gran parte della gente e che, peraltro, finì per aprire le porte al colonialismo europeo, così ora i militanti di piazza Tahrir non sono tutto l’Egitto, questa nazione chiave di quasi 90 milioni di abitanti, che dalle sponde del Mediterraneo arriva fino al cuore dell’Africa nera, ai confini con il Sudan. Un conto è una certa realtà urbana: secolare, borghese, di sinistra, liberale e con frange anche proletarie, giovane e acculturata. In una parola, la società laica occidentalizzante che hanno raccontato i media in Europa parlando della “sommossa di primavera”. Tutt’altra cosa è l’Egitto profondo, quello delle campagne e delle enormi periferie urbane, fatto di contadini e di sottoproletari, quasi totalmente islamico. Ed è questa la maggioranza del paese, con circa 50 milioni di persone che vivono con due dollari al giorno, sotto il livello di povertà, e con 40 milioni di analfabeti.

E’ così da sempre. E da sempre questi derelitti sono dimenticati da tutti. Da tutti meno che dai Fratelli Musulmani, che in piazza Tahrir sono arrivati in ritardo, trascinati dalle fasce più giovani del movimento e addirittura senza capire sino in fondo quella rivolta. Ma che negli ultimi decenni sono stati i primi, se non gli unici, a opporsi al regime di Mubarak: perseguitati, imprigionati, spesso fatti sparire e assassinati e comunque tenuti fuori dal Parlamento perché erano vietati i partiti di ispirazione religiosa, eppure presenti, radicati nella vita quotidiana. Soprattutto nelle realtà più difficili e disperate, in mezzo alla gente comune. Nel medio e profondo sud agricolo, ad esempio. O nel Sinai. In zone tradizionalmente “rivoluzionarie” e radicali come Suez e Porto Said. Ma anche nelle sterminate periferie urbane. Proprio al Cairo, in particolare. Come negli enormi, caotici quartieri che ormai congiungono la città a Giza. Ad andarci ci si perde nell’anonimato più squallido: distese infinite di brutti palazzi che si affacciano su strade e vicoli sterrati, polverosi, segnati da cumuli di rifiuti e di buste di plastica abbandonate al vento del deserto. Senza collegamenti, senza servizi, senza veri negozi: al massimo, piccoli banchi improvvisati. O angusti, malandati bar, con il televisore sempre sintonizzato su una partita di calcio o sui notiziari di Al Jazeera. Mentre ad ogni finestra, stesi ad asciugare, sventolano come bandiere della miseria poveri panni sdruciti e consunti dall’uso.

Qui, in queste realtà, l’unico punto di riferimento è la moschea. Ce n’è sempre qualcuna. Magari povera, un brutto parallelepipedo in muratura con un improbabile minareto segnato da un neon verde e sovrastato dagli altoparlanti che sostituiscono la voce del muezzin per l’invito alla preghiera. Però, c’è. E, con la moschea, c’è sempre la Fratellanza la quale per gli ultimi di queste periferie della vita si è sostituita allo Stato, organizzando ospedali, scuole, asili, servizi sociali, strutture di assistenza. E, forte di questa “rete”, conquistando una radicata credibilità tra la popolazione, fino a garantirsi forti rappresentanze nei sindacati, nelle associazioni, nelle organizzazioni professionali. Tra i promotori della rivolta di piazza Tahrir e la gente delle realtà più sfortunate, invece, non si è mai aperto un confronto. I ceti liberali e laici, sicuramente più colti e agiati, scesi in strada per chiedere più democrazia e partecipazione, in pratica non ci hanno neanche provato. Ecco perché poi alle elezioni seguite alla “primavera” del 2011 hanno vinto i Fratelli Musulmani, conquistando per il Parlamento circa la metà del 65,26 per cento dei voti andati alle liste islamiche: la Fratellanza ha ottenuto il 36,62 e quasi la maggioranza dei 570 seggi, seguita con il 24,36 dagli integralisti di Al Nur, di ispirazione salafita, e dalla lista moderata di Al Wasat, con il 4,27. E un anno fa, alle “presidenziali”, il risultato si è ripetuto con la vittoria di Morsi al ballottaggio, con poco più del 52 per cento, contro Ahmed Shafiq, l’ultimo premier nominato da Mubarak prima della rivolta. C’è da pensare, evidentemente, che andando a votare la maggior parte di quei milioni di egiziani delle periferie sapeva poco magari di democrazia rappresentativa, partecipazione democratica, libertà individuali, i temi della protesta del Cairo. Sapeva però che per anni di vita grama gli unici che hanno cercato di dar loro voce e ascolto, a ricordarsi di loro, sono stati i Fratelli Musulmani.

E’ questa larga popolarità che ha indotto anche i militari a guardare con rispetto alla Fratellanza. Quei militari che, fin dal tempo della ribellione degli “ufficiali liberi” di Nasser, svolgono un ruolo di primo piano dietro le quinte e non intendono in alcun modo cedere il loro potere: sono stati loro a dare la spinta decisiva alla caduta di Mubarak, sacrificandolo alla rivolta di piazza Tahrir, e sono stati di nuovo loro determinanti per la destituzione del presidente Morsi, giustificando il colpo di stato sempre con la “protesta popolare”. Protesta alla quale ha offerto praterie infinite, peraltro, la politica stessa condotta da Morsi. Il governo guidato dal partito islamico di Libertà e Giustizia, infatti, ha prodotto una catena di errori clamorosi. Due in particolare. Il primo è la rapida, totale occupazione del potere. Morsi ha voluto mettere i suoi uomini in tutti i posti chiave, escludendo completamente le altre forze politiche e adottando una costituzione che ai più è apparsa una enorme forzatura per acquisire il dominio incontrastato del paese e dare una forte sterzata in senso islamico alla società egiziana, annullando o quanto meno annacquando la “laicità” introdotta dal 1952, dopo la vittoria di Nasser. E poi, secondo punto, ha lasciato insolute o addirittura peggiorate questioni vitali come la disoccupazione, la povertà, l’emarginazione che affliggono milioni di egiziani, mentre l’inflazione ha continuato a crescere, le risorse dello Stato si sono paurosamente assottigliate crollando a 14 miliardi di dollari dai 35 dell’inizio del 2011 e si sono moltiplicati i contraccolpi della crisi internazionale. “Anziché pensare a problemi vitali come l’economia e il lavoro – accusa ad esempio l’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Helmy in una intervista a Repubblica – la Fratellanza si è preoccupata di imporre codici di abbigliamento, il velo alle donne, la jalabiya, una lunga tunica, agli uomini; a ridurre l’età minima matrimoniale femminile a 9 anni; a minacciare la chiusura dell’Opera perché anti islamica”.

Questo disastro economico, secondo esponenti del Fronte di Salvezza Nazionale, il cartello dell’opposizione, intervistati da Vincenzo Nigro per Repubblica, deriverebbe dalla “disastrosa incompetenza” dei Fratelli Musulmani i quali, “senza tener conto del crollo del turismo e della reale capacità produttiva del paese, hanno dissanguato le casse statali per offrire elettricità, carburanti, farina, cereali a prezzi sovvenzionati”. Ignorando gli avvertimenti del Fondo monetario che, per negoziare i suoi prestiti (l’ultimo di 5 miliardi di dollari), chiede di rivedere completamente il sistema delle sovvenzioni e lo stesso sistema industriale. Altri, come il filosofo ed economista Samir Amin, decisamente schierato con la protesta di piazza Tahrir e sostenitore alle presidenziali del nasseriano Hamdin Sabahi, arrivato a un soffio dal ballottaggio, affermano invece che il fallimento economico di Morsi è dovuto proprio alle scelte liberiste care al Fondo monetario: “Non è solo un problema di crisi economica internazionale – ha dichiarato a Giuseppe Acconcia, del Manifesto – Gli islamisti danno risposte ultraliberali alla crisi, imponendo una cricca di borghesi capitalisti, rimpiazzando gli amici di Mubarak con commercianti super reazionari. Vogliono vendere a prezzi derisori beni pubblici che valgono miliardi. Non si tratta neppure di privatizzazione: è una frode. Sono odiati da tutti perché perseguono le stesse politiche dei loro predecessori”.

In questo modo Morsi e la Fratellanza hanno deluso le aspettative di larghi strati della popolazione: le classi borghesi occidentalizzate che chiedono una maggiore partecipazione alla vita pubblica; il proletariato urbano secolare, che contesta i colpi allo stato sociale e l’inadeguatezza delle misure per il lavoro; i giovani più aperti e acculturati, che sognano un Egitto più moderno e libero ma anche più giusto e attento alle loro aspettative; perfino l’ala musulmana radicale, che giudica troppo morbide le riforme della società in senso islamista e contesta il rischio di una cessione di sovranità al Fondo monetario e all’Occidente in generale, a scapito degli strati più poveri della popolazione.

La nuova piazza Tahrir contro Morsi nasce da qui, forte della campagna promossa dal gruppo Tamarrod, che ha raccolto milioni di firme per chiederne le dimissioni e offerto l’occasione ai militari di porre fine alla sua presidenza con un vero e proprio colpo di stato. Un golpe strano, salutato da applausi e fuochi artificiali e che, tranne gli islamici fedeli a Morsi, nessuno vuole ammettere. C’è addirittura chi, come l’ambasciatore Helmy, lo ha definito a posteriori “il primo esempio mondiale di impeachment popolare”, sancendo così formalmente la saldatura che si è creata tra i “ribelli” anti Fratellanza e l’esercito. Anche i governi e la stampa occidentali, del resto, hanno mostrato, se non di apprezzare, quanto meno di non disapprovare l’azione decisiva svolta dalle forze armate, presentandole come l’arbitro della situazione e lo strumento necessario per avviare l’Egitto verso un futuro di democrazia. Dimenticando però che quando c’è un “tintinnare di sciabole” o, peggio ancora, un rombo di carri armati, jet ed elicotteri da combattimento, la democrazia arretra sempre. Come dimostrano l’immediata ondata di arresti dei principali leader dei Fratelli Musulmani, malamente giustificata con l’accusa di “incitamento alla violenza” e, soprattutto, la strage di almeno 50 militanti islamici (ma c’è chi dice 76) nella protesta davanti alla caserma della Guardia Repubblicana, dove si riteneva che fosse rinchiuso il presidente deposto.

Ai generali questo ruolo di “salvatori della patria” e “garanti della democrazia” sta benissimo. Lo giocano dal 1952, anche presentando l’esercito come il principale strumento di mobilità sociale del paese: la via attraverso la quale giovani delle classi sociali più umili, accedendo a scuole militari ed accademie, possono arrivare a traguardi altrimenti impensabili. Ma è proprio grazie a questo ruolo che, di fatto, da oltre sessant’anni questa autentica casta non ha mai abbandonato il potere. Un potere enorme. Sia dal punto di vista politico: tutti i presidenti, prima di Morsi, sono venuti dagli alti ranghi dell’esercito. Sia economico: si calcola che i militari controllino dal 15 al 40 per cento dell’economia nazionale, con interessi fortissimi nell’industria degli armamenti, in quella estrattiva, nel turismo, nell’agricoltura. Senza contare la gestione dei grossi finanziamenti americani per tutte le attività di istituto, una media di 1,3 miliardi di dollari l’anno.

Resta da vedere quanto potrà durare questa linea comune tra i militari e il fronte di piazza Tahrir. Perché se davvero i ribelli vogliono portare l’Egitto sulla strada della democrazia, appare inevitabile prima o poi lo scontro con una casta che non sembra intenzionata a tirarsi indietro. E che, oltre tutto, fa comodo anche ad altri, fuori dal Paese, proprio per la funzione di “controllore totale” che l’esercito ha svolto finora. Fa comodo ad Israele, che vede in un Egitto guidato di fatto dai generali, la garanzia dello statu quo in Medio Oriente. Fa comodo agli Stati Uniti i quali, grazie al finanziamento di 1,3 miliardi di dollari l’anno, esercitano una forte influenza sull’esercito del Cairo, sono preoccupati che il prolungarsi della crisi possa portare a forti aumenti del prezzo del petrolio ed hanno in Israele il perno della loro politica nella regione. Non dispiace all’Europa che, accodata di fatto agli Usa e incapace di una propria politica estera autonoma, ha deluso ampiamente le aspettative nate con le “primavere arabe” e, più in generale, in buona parte del Sud del mondo.

Lo scontro tra militari e islamici, intanto, è ormai in atto. Lo dimostra la guerriglia urbana esplosa anche in questi giorni nelle strade del Cairo, con scontri tra le forze di sicurezza e sostenitori di Morsi che in una sola notte hanno fatto registrare 7 morti e 261 feriti. Il nuovo presidente Adli Mansour continua a dire che si andrà al voto entro sei mesi e a chiedere ai Fratelli Musulmani di partecipare. Ma intanto proseguono gli arresti e le sommosse, mentre non si parla nemmeno di rilasciare i leader islamici arrestati con il colpo di stato. Anche la nuova costituzione ha ricevuto una raffica di no: dai Fratelli Musulmani, dalla comunità cristiano copta, persino dal Fronte di Salvezza Nazionale, la principale alleanza liberale e non islamista. E la tensione cresce. E’ il clima ideale per “giustificare” il potere dei militari. Forse, se vogliono liberarsi del mortale abbraccio con i generali e tentare di vincere, è tempo che i “ribelli di piazza Tahrir” comincino a pensare di andare a parlare con le masse delle periferie e dell’Egitto profondo. Per capirne i problemi, le esigenze e le prospettive, i progetti e i sogni: senza di loro non ci potrà essere vittoria per la libertà e la democrazia.


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