Non è isolata la vicenda della nave greco-liberiana che, all’inizio di agosto, ha fatto rotta su Malta, disobbedendo all’ordine, impartito dalla Guardia Costiera siciliana, di riportare in Libia i circa cento profughi soccorsi in mare che aveva a bordo. Un episodio analogo sarebbe accaduto qualche giorno prima con una nave turca. Solo che, in questo caso, il comandante pare abbia applicato alla lettera le disposizioni ricevute da una unità militare italiana, riconsegnando a Tripoli i disperati raccolti in acque internazionali. Lo ha denunciato don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia, all’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, sollecitando un’inchiesta. Alla segnalazione sono allegate alcune testimonianze registrate, le indicazioni dei centri di detenzione dove sono stati rinchiusi tutti i prigionieri appena sbarcati e persino due recapiti telefonici per contattare i giovani che hanno trovato il coraggio di raccontare e sono disposti ora a ribadire di fronte ai commissari delle Nazioni Unite quanto hanno riferito.
Se, come tutto sembra lasciar credere, la ricostruzione fatta nella denuncia troverà riscontro, sarà la conferma che, di fatto, l’Italia sta adottando in segreto una durissima politica di respingimenti indiscriminati in mare nei confronti dei migranti, senza curarsi minimamente di verificare se quei disperati hanno i requisiti per essere accolti come rifugiati e perseguitati per ragioni politiche o religiose. Anzi, c’è da sospettare che, peggio ancora, questa scelta tenda proprio ad impedire ogni tipo di verifica, visto che mediamente oltre il 90 per cento degli uomini e delle donne che rischiano la vita sfidando la traversata del Mediterraneo su vecchie carrette, hanno il diritto di venire aiutati e accettati, in base alle convenzioni internazionali sui profughi e alla nostra stessa Costituzione.
Il primo episodio risale al 6 agosto. E’ venuto alla luce perché le autorità maltesi hanno impedito al capitano della nave greco-liberiana di sbarcare i naufraghi di un gommone alla deriva che aveva soccorso. I giornali italiani si sono coperti di titoli indignati: “Malta respinge i migranti in mare”. Sottolineando che a Lampedusa, invece, c’era un flusso continuo di soccorsi e di sbarchi. Poi è emerso, però, che a quella nave l’Italia aveva imposto di far rotta verso la Libia. E’ arrivata a La Valletta solo perché il capitano si è rifiutato di eseguire la disposizione ricevuta, facendo notare che le norme internazionali dispongono di condurre i naufraghi verso il porto “sicuro” più vicino sicché, trattandosi di profughi fuggiti dalla Libia, nessun porto libico poteva considerarsi davvero sicuro. Mentre le autorità maltesi, esibendo il cablo inviato dalla Guardia Costiera siciliana, hanno potuto eccepire che, essendo l’Italia il primo paese ad aver ricevuto la richiesta di aiuto, spettava a Roma farsi carico del problema: o accogliendo i profughi in uno dei suoi porti, oppure confermando l’ordine già dato di riportarli in Africa.
Si è creata una situazione di stallo di due o tre giorni, con la nave ferma in rada, finché il premier Enrico Letta ha dato il via libera allo sbarco in Sicilia dell’intero gruppo di naufraghi, come richiedenti asilo. Il tutto in un clima di buonismo ed esaltazione dello “spirito umanitario italiano” contrapposto alla fredda, burocratica applicazione letterale delle norme adottata da Malta. Dimenticando che accogliere quella gente era un dovere preciso del nostro governo e, oltre tutto, che dall’inizio del 2013 alla prima metà di agosto, in tema di accoglienza dei profughi, Malta ha fatto in proporzione molto più dell’Italia. In poco più di sette mesi, sono sbarcati sull’isola oltre 1.200 migranti. In Italia 12 mila circa. Apparentemente, da parte italiana, uno sforzo dieci volte maggiore. In realtà è esattamente il contrario. Malta è una piccola isola con appena 512 mila abitanti. Se si tiene conto del rapporto tra la popolazione e per certi versi, di conseguenza, la “capacità di assorbimento, è come se l’Italia, infinitamente più grande e con 60 milioni di abitanti, avesse accolto nello stesso periodo 140 mila rifugiati. Non sembra esserci niente di cui vantarsi, insomma, per il nulla osta dato da Letta alla nave greco-liberiana. Per di più ora sta emergendo il caso della nave turca denunciato da don Zerai alle Nazioni Unite. Sarebbe accaduto verso la fine di luglio.
Questi i fatti, secondo la testimonianza di alcuni dei migranti. Partiti dalle spiagge libiche su un barcone, erano più di cento. Il solito, doloroso carico di umanità in fuga, stipata su una carretta che teneva a stento il mare: uomini, parecchie donne, qualche bambino. Il motore ha piantato la barca in piena traversata. Mentre andavano alla deriva, la prima a intercettarli e a soccorrerli è stata una unità italiana. “Era una nave militare, una grande nave, sicuramente italiana – ha raccontato Samuel, uno dei testimoni, a don Zerai – Ha calato in mare una scialuppa sulla quale sono saliti tre uomini, che ci hanno raggiunto. Quando sono stati vicini, ci hanno lanciato delle cime, rimorchiandoci fino alla nave, alla quale è stata assicurata la nostra imbarcazione, ormai ingovernabile. Ci sono stati dati acqua e cibo, ma non ci hanno consentito di salire a bordo. Siamo rimasti lì per un po’, fermi in mezzo al Mediterraneo, finché è arrivata un’altra nave. Una nave commerciale turca. Non so se sia giunta per caso o se, come è forse più probabile, sia stata chiamata dal comandante italiano. Sta di fatto che ci hanno consegnato all’equipaggio di quella nave. Noi siamo saliti in coperta senza timore. Pensavamo che fosse la salvezza. Tutti ci assicuravano che saremmo stati accompagnati in Italia, così nessuno ha fatto resistenza. Anzi, eravamo felici, convinti di avercela fatta. Poi le due navi si sono separate, prendendo rotte diverse. Ci siamo resi conto di essere stati ingannati solo quando si è profilata la costa africana. A quel punto non c’era scampo. Ci hanno consegnato alla polizia libica: siamo stati arrestati e accompagnati in un centro di detenzione. Soltanto uno di noi ha tentato di sottrarsi alla cattura. E’ riuscito in qualche modo a restare a bordo, nascondendosi in un anfratto. Poi, quando il cargo è ripartito, lasciando le acque libiche, ha sperato di essere sbarcato da qualche parte in Europa. Appena lo hanno scoperto, invece, è stato bloccato e trattenuto fino a che è arrivato un elicottero per condurlo a Tripoli”.
Samuel ha raccontato tutto questo a don Zerai per telefono, eludendo la sorveglianza dei militari libici. Ha fatto anche il “censimento” preciso del gruppo: 102 persone, in massima parte eritrei come lui. Le donne, in tutto 17, di cui alcune in stato di gravidanza e altre con bambini piccoli, sono state rinchiuse nel campo di Garabuli, a circa 30 minuti di strada da Tripoli. Gli uomini, un’ottantina circa, in un centro di detenzione più distante, ma sempre nella zona di Tripoli. Il resoconto di Samuel è stato sostanzialmente confermato da un paio delle ragazze, con in più vari particolari su Garabuli. Le condizioni di vita in questo campo sono molto dure. Attivo dal 2009 e amministrato dal ministero dell’interno, ospita attualmente 120 donne e 25 bambini. Non ha quasi nulla del centro di detenzione quanto a servizi, strutture, assistenza, trattamento. “Buona parte delle prigioniere – denuncia don Zerai – sono costrette a dormire all’aperto, perché nelle tende e negli alloggiamenti non c’è posto. Il cibo è quello che è, scarso e di cattiva qualità. Poca anche l’acqua. Molte donne e molti bambini stanno male, ma non c’è chi si prenda cura di loro: possono contare quasi solo sull’aiuto delle compagne. Soprusi e maltrattamenti non mancano mai”.
Tutta la vicenda, dalla consegna alla nave turca alla detenzione nei campi di Tripoli, è stata segnalata da Habeshia ai vertici dell’Unhcr, la Commissione Onu per i rifugiati. L’esposto è preciso e dettagliato. Vengono indicati anche i numeri di telefono di Samuel e delle detenute di Garabuli che si sono dette pronte a ripetere la loro testimonianza in qualsiasi sede, sia politica e istituzionale, sia giudiziaria. E’ a disposizione dei commissari delle Nazioni Unite, inoltre, la registrazione della drammatica intervista in lingua tigrina fatta da don Zerai a Samuel, che nel frattempo, malato e gravemente indebolito, ha lasciato il campo di prigionia raggiungendo Tripoli, ma ha bisogno di assistenza e cure mediche.
“Chiedo con forza ai rappresentanti dell’Onu presenti a Tripoli di ascoltare le testimonianze di Samuel e delle donne – insiste don Zerai – Bisogna chiarire questa vicenda assurda. Capire se si tratti di un respingimento di fatto in mare. Se tutto si è svolto come mi hanno raccontato, l’Italia si è assunta una pesantissima responsabilità e penso ne debba rispondere. C’è da credere che si stia adottando in segreto una vera e propria ‘politica del rifiuto’. Ignorando che le persone respinte sono condannate a vivere in una condizione di gravissimo disagio che ne offende la dignità umana. Se non peggio. Hanno subito e subiscono maltrattamenti fisici e morali dal momento stesso in cui sono state riportate in Libia. E sono soggette a continui ricatti. Mi dicono, ad esempio, che ci sarebbe un vero e proprio ‘mercato dei rilasci’: chi ha potuto uscire dal campo di detenzione avrebbe pagato fino a mille dollari per essere lasciato andare. Anche su questo aspetto occorre indagare”.
Habeshia non lo dice, ma all’inchiesta dei commissari Onu che ha sollecitato andrebbe affiancata quanto meno una indagine parlamentare italiana. Se non altro perché, nonostante l’Italia abbia già subito due condanne per la politica dei respingimenti, una da parte della Commissione europea per i diritti umani e l’altra dell’Europarlamento, il governo Letta il 4 luglio ha gettato le basi per un nuovo accordo bilaterale, che conferma alla Libia il compito di “gendarme del Mediterraneo” contro i migranti in termini, a quanto pare, ancora più restrittivi, prevedendo di rinforzare la vigilanza oltre che sulle coste e nel Canale di Sicilia, pure sul confine meridionale, in pieno Sahara. Così ai respingimenti in mare rischiano di aggiungersi i respingimenti nel deserto. Lo testimonia la recente strage di Kufra. E c’è da chiedersi, ancora, se tutto questo non configuri anche dei reati perseguibili dalla magistratura, oltre che una palese violazione dei diritti umani.
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