CIPRO. LA VIA ECONOMICA ALLA RIUNIFICAZIONE

cipro 194Sui due lati della “linea verde” di confine, intorno al checkpoint di Nicosia, è tutto uno sventolare di bandiere nazionali. Non solo, come accade ovunque, sui pennoni accanto ai posti di controllo della polizia di frontiera tra Cipro Sud e Cipro Nord. Ne sono piene le strade e i palazzi di tutta la fascia frontaliera. Nella zona meridionale la bandiera greco-cipriota, con la sagoma dell’isola in campo bianco sopra due rami d’olivo intrecciati, si accompagna sempre a quella bianca e blu della Grecia. Tranne che sugli uffici pubblici, invece, non c’è quasi traccia della bandiera azzurra dell’Europa con il cerchio di stelle d’oro. Qualcosa di simile accade dall’altra parte, a Nicosia Nord, dove il vessillo rosso acceso con la mezzaluna e la stella bianche della Turchia fa il paio con quello quasi uguale, ma a colori invertiti, della Repubblica turco-cipriota, bianco con la mezzaluna e la stella rosse delimitate da due strisce orizzontali, sempre rosse. Un “andare in coppia” che rivela la tutela esercitata da Atene ed Ankara, su fronti opposti, nei confronti delle due repubbliche di Cipro.

Basta alzare gli occhi e, seguendo quello sventolio, si capisce subito dove passa il confine. E’ come se quei drappi volessero marcare una sovranità. O, meglio, una differenza e un antagonismo che durano da decenni e del quale non si vede la fine dopo il fallimento dei colloqui ginevrini e del referendum indetto nel 2004 nell’ambito del progetto di pace sostenuto dalle Nazioni Unite. Anche Kofi Annan, allora segretario generale dell’Onu, il più convinto sostenitore del confronto e della riunificazione, ha dovuto arrendersi di fronte a questioni come il rientro dei profughi greci fuggiti da Cipro in seguito all’invasione turca del 1974, la richiesta di allontanare i coloni emigrati nella Repubblica del Nord dall’Anatolia, la completa smilitarizzazione dell’isola, a partire dal ritiro immediato delle truppe di Ankara ancora presenti. Ad alimentare certe scelte di rigida chiusura tra le due parti forse è stata finora anche la certezza di avere alle spalle una “nazione amica” su cui poter contare comunque, la Grecia su un fronte e la Turchia sull’altro. Oltre che, ovviamente, gli antichi sentimenti di diffidenza e di sospetto reciproci.

A questa ostilità diffusa si è sovrapposta ora la crisi economica. Ne è stato investito soprattutto il sud, mettendo a rischio la tenuta stessa dello Stato, provocando la chiusura di centinaia di piccole e medie aziende, facendo schizzare la disoccupazione ad oltre il 15 per cento, creando migliaia di nuovi poveri. Al nord, dove il livello medio di vita resta tuttavia più basso, i contraccolpi della recessione si sono fatti sentire di meno, grazie soprattutto al sostegno della Turchia. Ankara, che ha sopportato meglio di altri paesi gli effetti della recessione globale, tratta in pratica la Repubblica di Cipro Nord come una propria provincia, tenendola agganciata al suo sistema produttivo, rimasto in attivo nonostante qualche contrazione. Certamente non può fare lo stesso Atene che, travolta invece dalla crisi, non sembra avere molto da “spendere” su Cipro in questo periodo, anche se destano preoccupazione gli enormi progressi registrati da Alba Dorata, il partito neonazista e xenofobo che, ancora più nazionalista dei colonnelli degli anni 70 ispiratori del colpo di stato anti turco e contro l’arcivescovo Makarios, non fa mistero di considerare Cipro parte integrante della “patria greca”.

Una grossa carta da giocare, in questo contesto di difficoltà economiche, è lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale individuati in più punti del mare di Cipro, a sud come a nord. Un tesoro enorme, valutato in almeno 200-250 miliardi di metri cubi di gas (ma altre stime dicono addirittura oltre 1.500 miliardi), che ha suscitato immediati interessi a livello internazionale: Turchia, Stati Uniti, Israele, Russia. Il timore è che i progetti di sfruttamento finiscano per acuire ancora di più i contrasti tra le due repubbliche. Ankara, infatti, giudica illegali e si oppone alle esplorazioni commissionate da Nicosia con il sostegno israeliano, tanto da aver anche inviato alcune navi da guerra nei tratti di mare dove erano in corso operazioni di ricerca. La Repubblica greco-cipriota, per parte sua, rivendica la propria sovranità e si appella all’Europa. Non manca, tuttavia, chi ritiene che questa potenziale ricchezza possa diventare una opportunità non solo di rilancio contro la recessione, ma per imboccare finalmente la via della pace e, magari, della riunificazione. Ne ha scritto ultimamente David Courbet, inviato di Le Monde Diplomatique e considerato uno dei giornalisti più esperti di questa regione, rilevando tra l’altro che, a parte i tanti altri interessi economici comuni tra i due stati ciprioti, la strada più facile ed economica per trasportare il gas estratto a Cipro sarebbe una pipeline attraverso la Turchia, collegata eventualmente al grande gasdotto trans adriatico (Tap: Trans Adriatic Pipeline), già progettato e in fase di realizzazione tra l’Asia e l’Europa.

“Sono quasi quarant’anni – scrive Courbet – che il paese è dilaniato. La situazione potrebbe cambiare se il nord si ponesse non soltanto come interlocutore credibile, ma anche come partner inevitabile”, facendo da ponte con Ankara per aprire il territorio turco alle condotte necessarie per far arrivare il gas cipriota al mercato europeo. Come dire: forse è il momento di lanciare nuove trattative per smussare le incomprensioni e i contrasti del passato, in nome di un grande sforzo economico comune e magari rinverdendo il piano delle Nazioni Unite che ha portato al fallito referendum del 2004.

Un ruolo importante in questo senso potrebbe giocarlo l’Unione Europea. Il cammino di Bruxelles però appare tutto in salita, anche a causa della politica svolta in relazione alla crisi che ha travolto Cipro Sud. “I greco-ciprioti – spiega Courbet, riportando il parere di alcuni politologi ed economisti isolani – non nascondono la loro delusione nei confronti di un’Europa che accusano di averli usati come cavie per le sue ricette liberiste contro la recessione”. Desta ancora rabbia e risentimento, ad esempio, il diktat imposto a Nicosia di procedere a un prelievo forzoso, variabile tra il 6,7 e il 9,9 per cento, su tutti i depositi bancari, in cambio di un prestito di 10 miliardi di euro.

Ci sono altre vie che non passano da Bruxelles? Cipro è invasa di russi. Tantissimi turisti ma anche imprenditori e uomini d’affari che mostrano un’ampia disponibilità di denaro da investire. Hanno iniziato con il turismo, poi gli interessi si sono ampliati rapidamente: agricoltura, trasporti, piccola manifattura, edilizia. Soprattutto nel sud, perché nel nord la “tutela” della Turchia rende meno facili queste intromissioni. “Stanno comprando di tutto – dice Costantinos, un barista di Paphos – Alberghi, ristoranti, beni immobili, aziende in difficoltà, fattorie, interi villaggi turistici. Sembrano non aver problemi di soldi. E, a quanto si dice, non sempre la provenienza di tutto questo denaro sarebbe molto chiara. Certamente hanno drogato il mercato. In tutti i settori. La crisi è dovuta anche a questo. E il prelievo forzoso del 9,9 per cento nei conti bancari superiori ai 100 mila euro, l’unico che poi è stato applicato dopo la rivolta dei piccoli risparmiatori, credo che sia legato anche alla volontà, da parte dello Stato, di colpire in qualche modo questi strani capitali”.

Quella russa, se davvero sta puntando forte sull’isola, sembra ancora essere, insomma, una “finanza di frontiera”, frutto di iniziative magari importanti ma isolate, senza un preciso disegno politico alle spalle. Allora forse, nonostante tutto, può essere veramente il momento dell’Europa e della Turchia a Cipro per riuscire a superare decenni di divisione tra nord e sud. Ma a due condizioni: da parte di Bruxelles l’abbandono delle scelte ultraliberiste imposte negli ultimi anni, che hanno alimentato una delusione e una diffidenza crescenti e, da parte dei ciprioti, greci e turchi, la rivalutazione del piano di riunificazione delle Nazioni Unite varato da Kofi Annan. A giudicare dal muro che ancora spacca a metà l’isola, non sarà facile sopire rancori e torti del passato per guardare al futuro. Ma non sembrano esserci altre soluzioni. E, tra i tanti cambiamenti che stanno rivoluzionando il modo stesso di essere di numerosi paesi dell’intero pianeta, anche qui, come suggerisce Courbet, la molla decisiva potrebbe essere proprio la crisi.

Non manca il substrato culturale su cui far nascere, partendo da questa realtà, una “nuova Cipro”. “Per dare una spinta alla riconciliazione – dice Andreas, un anziano socialista di Paphos, che ha votato per la riunificazione nel referendum del 2004 – basterebbe ricordare qual era l’idea alla base della bandiera unitaria istituita nel 1960. I rami d’olivo sotto il profilo dell’isola e il bianco del fondo rappresentano la pace. Per tutti: la pace con gli inglesi, ai quali avevamo appena strappato l’indipendenza e pace tra le nostre due comunità, quella greca e quella turca, per costruire insieme una Cipro diversa, seppellendo i conflitti del passato. Per questo sono stati esclusi i colori blu e rosso, che potevano richiamare uno la bandiera greca e l’altro quella turca. E mi piace sottolineare che questa idea l’ha proposta un artista turco-cipriota, Ismet Guney, mentre il primo ad approvarla è stato il presidente Makarios, vescovo greco-cipriota, anima della resistenza anti coloniale”. Ma ci sono oggi leader greco e turco ciprioti capaci dello stesso coraggio che ha guidato Guney e Makarios?

(la foto è di Paola Durigon)

(2 – fine)


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