Gli ultimi minuti a bordo del barcone affondato a Lampedusa, prima dell’alba del 3 ottobre, sono stati una affannosa ricerca di aiuto: urla disperate di circa 500 uomini e donne, segnalazioni con le torce elettriche per squarciare il buio della notte, un faro rosso acceso in mezzo al mare per segnalare che quel battello che arrancava verso la spiaggia dei Conigli, a mezzo miglio dalla costa, era in estrema difficoltà. Un insieme di drammatici Sos lanciati a due natanti che hanno incrociato quella vecchia “carretta” stracarica di umanità, ma che non si sono fermati. E proprio questo “proseguire la rotta”, anzi, potrebbe essere stato la causa indiretta del naufragio. Secondo molte testimonianze, infatti, l’incendio che ha scatenato il panico a bordo, provocando il capovolgimento e il conseguente affondamento della “nave dei profughi”, sarebbe stato causato da un telo cosparso di benzina e dato alle fiamme proprio in un estremo tentativo di attirare l’attenzione di quei due natanti che si stavano allontanando.
A quel punto, quando la barca si è rovesciata, non c’è stato più scampo: solo poco più di cento hanno avuto la ventura di salvarsi. Sono parte di quelli che erano in coperta, ammassati sulla tolda del barcone, stretti lungo le murate: i più forti o più fortunati, che sono riusciti ad riemergere dal vortice e a nuotare per cercare di raggiungere la riva, fino a che i primi soccorritori non li hanno raccolti stremati in mare. Per le centinaia che erano sotto coperta la morte è arrivata nel momento stesso in cui il barcone si è capovolto, imprigionandoli sott’acqua, senza alcuna via di fuga: tantissimi sono stati trovati ancora lì dai sommozzatori ai quali è stato affidato il doloroso compito di recuperare le salme. Soprattutto donne e bambini, i più deboli.
A ricostruire in questo modo la fase finale della tragedia del 3 ottobre è un’inchiesta condotta da don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, appena rientrato da Lampedusa, dove ha incontrato un centinaio di sopravvissuti. A tutti ha chiesto di raccontare le circostanze del naufragio, cercando di ricordare quanti più particolari possibile. Ha raccolto così una montagna di indizi, dichiarazioni, testimonianze, giungendo alla conclusione che il disastro non è stato solo una terribile fatalità. Alla base potrebbe esserci un assurdo, macroscopico caso di omissione di soccorso e forse anche peggio. Comunque, pesanti responsabilità. Non è escluso, dunque, che il dossier che sta mettendo insieme possa diventare la base per un esposto formale alla Procura di Agrigento, per dare la caccia a quei due battelli rimasti finora sconosciuti ma che non possono non aver visto, o almeno percepito, le disperate richieste di aiuto lanciate da quei 500 profughi. Lo “denuncia” la manovra stessa che avrebbe fatto almeno uno dei due equipaggi.
“I sopravvissuti con i quali ho parlato – spiega don Zerai, assicurando che sono tutti pronti a confermare le loro dichiarazioni in qualsiasi sede, sia politica che legale – mi hanno raccontato di essere stati avvicinati da due natanti quando erano già nelle acque di Lampedusa, a circa 800 metri dalla riva, tra le 3 e le 3,30 del mattino. Secondo la descrizione che ne hanno fatto, erano grandi, più o meno della stazza di una motovedetta o di un grosso, moderno peschereccio. Uno dei due avrebbe anche girato attorno al barcone che, stracarico, avanzava a fatica. Tutti quelli che erano all’esterno hanno cominciato a gridare e a fare segnali con le torce elettriche. Dicono anche di un faro o un lampeggiatore rosso, azionato per indicare che erano in piena emergenza e avevano bisogno di soccorso. Però i due natanti, tuttora senza nome, non solo non hanno prestato aiuto, ma pare che non abbiano neppure comunicato alle autorità competenti la presenza di quella barca di disperati”.
C’è poi un altro interrogativo, lo stesso posto da più parti sin dall’inizio: come sia stato possibile per quella carretta zeppa di profughi arrivare sino a mezzo miglio da Lampedusa senza essere avvistata. “E’ un mistero inspiegabile – insiste don Zerai – Se quel barcone ha potuto navigare dalla Libia alle acque lampedusane senza essere intercettato, c’è da pensare che tutti i sistemi italiani di difesa e controllo dei confini erano fuori uso. Ovvero: se si fosse trattato non di rifugiati inermi ma di terroristi o guerriglieri armati, avrebbero potuto fare quello che volevano. Non ritengo possibile, insomma, che le forze e le autorità deputate alla difesa delle frontiere, di una frontiera delicata come quella del Mediterraneo, non si siano accorte di nulla. E’ quanto meno strano. Per non dire del comportamento di quelle due imbarcazioni che, a detta dei superstiti, si sarebbero avvicinate al barcone, lo avrebbero controllato a distanza e poi se ne sarebbero andate senza fare nulla: nessun aiuto, malgrado le urla e le segnalazioni. Se si fossero fermate, questa tragedia sarebbe stata evitata e ora non staremmo qui a piangere centinaia di vite umane”.
L’aspetto più oscuro è proprio questo: chi erano e da dove erano salpati quei due battelli che, secondo tutte le testimonianze, non si sono fermati ad aiutare i profughi pur avendo manovrato come per identificarli e che sembrerebbero, per certi versi, la causa indiretta del naufragio. Di sicuro non solo non sono intervenuti, ma non avrebbero nemmeno comunicato l’emergenza a qualcuno dei vari canali di soccorso: Guardia Costiera, Finanza, Carabinieri, Polizia, ecc. Le forze di sicurezza italiane, a tutti i livelli, hanno sempre sostenuto, infatti, di aver saputo della “nave dei profughi” soltanto a naufragio avvenuto, quando già c’erano centinaia di vittime, dalle segnalazioni dei primi soccorritori, diportisti e pescatori che navigavano per caso in quelle acque, di fronte alla spiaggia dei Conigli. Non c’è motivo di dubitarne. Del resto, pochi giorni dopo la tragedia, un’altra “carretta” di rifugiati è arrivata indisturbata a Lampedusa, senza essere segnalata, ed ha attraccato direttamente in porto, addirittura al molo riservato ai mezzi navali della Guardia di Finanza. Ma perché questo “silenzio”, da parte di quelle due imbarcazioni misteriose, dopo la strana manovra di girare intorno al barcone in difficoltà, prima di allontanarsi? Le numerose dichiarazioni raccolte da don Zerai appaiono così univoche e circostanziate in proposito da non poter essere ignorate. Per questo l’agenzia Habeshia e numerosi familiari delle vittime chiedono ora di aprire un’inchiesta giudiziaria: “Ci sono troppi lati oscuri e interrogativi in sospeso. Serve un’istruttoria approfondita. Se non altro per fare chiarezza e fugare tutti i dubbi”.
“Alla luce delle tante, concordi testimonianze di quanti hanno avuto la fortuna di salvarsi – protesta don Zerai – non comprendiamo come mai la magistratura non stia indagando per appurare se effettivamente ci sia stata una enorme, colpevole omissione di soccorso. Ma l’inchiesta della Procura non basta. Dal ministero della difesa ora è lecito attendersi chiarimenti su come sia stato possibile tutto ciò: occorre ricostruire nei particolari l’accaduto e soprattutto bisogna dare un nome a quelle due navi sconosciute di cui parlano i sopravvissuti e che, secondo più di qualcuno dei testimoni, sembravano navigare in coppia. Quanto al ministero della giustizia, dovrebbe chiarire perché, a quanto se ne sa, non sia stata avviata un’istruttoria per omissione di soccorso. Non basta incriminare lo scafista tunisino. Forse le responsabilità sono molto più vaste. Forse c’è chi ha visto ma non si è fermato, non ha lanciato l’allarme, né ha informato chi di dovere. C’è un’esigenza forte di trasparenza e di giustizia:. Per le vittime e le loro famiglie e per gli stessi superstiti, che vivono ancora e continueranno a vivere ogni giorno l’incubo di questa tragedia per il resto della loro esistenza”.
La strage del gommone abbandonato da tutti alla deriva tra l’ultimo scorcio di marzo e l’inizio di aprile del 2011 – sessantatre profughi, inclusi due bambini, morti di sete e di stenti sui 72 che erano a bordo – è rimasta finora senza colpevoli. L’Italia ha subito una condanna da parte del Consiglio d’Europa, come principale responsabile di questa tragedia assurda, perché non si è fatta carico di organizzare i soccorsi come era suo dovere, essendo il primo paese ad aver ricevuto l’Sos. Di fatto, però, nessuno ha pagato: il processo aperto dalla Procura Militare dopo Strasburgo non si è ancora concluso e comunque non chiama in causa le pesanti responsabilità politiche e morali per quei 63 disperati lasciati morire in mezzo al canale di Sicilia. Oltre tutto, la vicenda sarebbe passata sotto silenzio se non l’avesse denunciata il Guardian di Londra, scatenando una campagna mediatica internazionale che ha costretto le istituzioni italiane ed europee ad occuparsene. Sarebbe imperdonabile fare gli stessi errori di indifferenza, inerzia e sottovalutazione per il disastro del 3 ottobre a Lampedusa.
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