L’ORRORE DEI PROFUGHI SCHIAVI IN UN DOSSIER

schiaviTemesgen è un ragazzino eritreo di 15 anni. Per oltre tredici mesi è stato tenuto in schiavitù nel deserto dalla banda di predoni beduini che lo ha catturato mentre, fuggito da Asmara, varcato il confine e raggiunto il Sinai, stava cercando di trovare rifugio in Israele. Nella foto che lo ritrae con le braccia levate al cielo e lo sguardo fisso sull’obiettivo, i suoi grandi occhi sono pieni di disperata voglia di vivere, ma il corpo appare magro oltre ogni limite: costole e sterno si delineano netti contro la pelle, scavando solchi profondi sul petto. Un buco al posto del ventre. “E’ stato ridotto così dai suoi aguzzini, che l’hanno tenuto senza mangiare per quasi due mesi. Per “punirlo” e per spingere i parenti a pagare il riscatto richiesto per lasciarlo andare. Quasi due mesi con un tozzo di pane vecchio e un sorso d’acqua al giorno. Questa immagine è stata scattata in una stanza d’albergo del Cairo, poche ore dopo la liberazione. Forse solo in quel momento lui ha realizzato che il suo calvario stava finendo. Ha alzato le braccia in alto e mi ha esclamato: ‘Guarda, Dio c’è… Ce la farò e aiuterò gli altri’, riferendosi ai compagni che aveva lasciato nelle mani dei trafficanti di uomini”. Lo racconta Alaganesh Fissehaye, la presidente della fondazione Ghandi che l’ha salvato e che ne ha ricostruito la storia nel corso del convegno convocato a Roma, alla Camera, per illustrare il dossier sul mercato internazionale di esseri umani scaturito dalle ricerche di due docenti dell’università di Tilburg, i professori Miriam van Reisen e Conny Rijken, in collaborazione con la giornalista eritrea Meron Estefanos, esule in Svezia.

Tantissimi altri giovani non hanno avuto la fortuna e la forza di Temesgen. Secondo quanto hanno riferito le stesse Miriam van Reisen e Meron Estefanos, citando la loro inchiesta, si calcola che 25-30 mila profughi siano finiti nel girone infernale del Sinai tra il 2009 e il 2013. Di migliaia di loro si è persa ogni traccia. Di altri sono stati ritrovati i cadaveri abbandonati nel deserto, corpi mutilati dalle torture: qualcuno, martoriato da profonde incisioni, era anche privo di parte degli organi. Soprattutto i reni. Altri disperati ce l’hanno fatta ad essere rilasciati, ma quasi tutti restano segnati per sempre da questo inferno, nel fisico e nello spirito: più di qualcuno non è riuscito a vincere o anche solo a sopportare il ricordo, l’incubo, dei mesi, spesso degli anni, passati in catene. Ed ha deciso di farla finita.

“L’indice dei suicidi è elevatissimo tra questi ragazzi: molti non riescono più a riconciliarsi con la vita”, conferma don Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, anima del convegno di Roma. Non è facile, del resto, tornare a credere nella vita dopo quel lungo, interminabile tunnel di orrore. Daniel Eyosab Yonathan, un ragazzo sui vent’anni, ha subito sevizie così pesanti da aver perso l’uso di entrambe le mani. “Le violenze sessuali sono sistematiche, sadiche, accompagnate da torture indicibili e coinvolgono tutti gli ostaggi, uomini, donne, bambini. Spesso provocano la morte”, racconta Meron Estefanos, riferendo le testimonianze raccolte tra i superstiti. Molte ragazze restano incinte, ma continuano ad essere angariate, picchiate, stuprate. “Una giovane donna ha partorito in catene – racconta Miriam van Reisen – L’hanno torturata anche mentre dava alla luce il suo bambino, senza acqua né alcun tipo di strumento per tagliare il cordone ombelicale”. Berham, un diciottenne smilzo, è diventato il simbolo stesso del dossier. Il suo calvario è durato tre anni. Ne aveva solo 15 quando ha lasciato l’Eritrea per non essere condannato a trascorrere tutta la vita sotto le armi, al servizio del dittatore Isaias Afewerki. Dopo dodici mesi circa si è ritrovato schiavo in una delle “case di tortura” del Sinai. Gli hanno gettato plastica fusa sulla pelle nuda, lo hanno seviziato con scariche elettriche e ferri roventi, percosso sistematicamente. Un trattamento al quale spesso veniva sottoposto mentre era costretto a telefonare ai familiari, perché ascoltassero le sue grida di dolore e si convincessero a pagare il riscatto di 38 mila dollari. Era in un gruppo di dodici: ne sono sopravvissuti soltanto sei. E una volta liberato, la sua odissea non è finita. Ha raggiunto in qualche modo il Cairo, dove è stato arrestato e spedito a sue spese ad Addis Abeba perché, per non essere costretto a rientrare in Eritrea, si è finto etiope. Dall’Etiopia ha poi raggiunto la Libia, dove è finito in mano ai miliziani in uno dei famigerati campi di detenzione spacciati per centri di accoglienza, sino a che ha trovato il modo di imbarcarsi clandestinamente. E’ uno dei pochi superstiti del disastro del tre ottobre a Lampedusa. “Con me nel lager dei predoni beduini – ha riferito – c’erano anche una giovane con un bambino di sei mesi. Sono stati entrambi duramente seviziati più volte. Quando il piccolo aveva due anni, la madre è morta sotto tortura e lui è stato preso da un altro ostaggio che, liberato, lo ha portato con sé a Tel Aviv. Ora credo sia in un orfanatrofio in Israele”.

Non c’è pietà: i trafficanti sono disposti a tutto pur di piegare la volontà dei loro schiavi. Anche di chi, come Yonathan Habte, prima di riuscire a scappare, ha cercato in ogni modo di resistere perché, come ha raccontato a Meron Estefanos, avrebbe preferito morire piuttosto che ridurre la sua famiglia in povertà per pagare la “taglia”. Le cifre richieste, infatti, sono ormai enormi. Dai 6-7 mila dollari a testa del 2009 si è saliti rapidamente ai 40-50 mila di oggi: una fortuna per una realtà come il Corno d’Africa, dove la maggioranza della popolazione ha un reddito di appena due dollari al giorno. E le pretese continuano a crescere. Così il giro d’affari è enorme: “Si calcola che in cinque anni il racket abbia incassato qualcosa come 600 milioni di dollari”, ha denunciato Miriam van Reisen. Una cifra da capogiro, che alimenta poi anche il contrabbando di armi per le bande che si contendono la supremazia nella regione, che finanzia il terrorismo, ma che viene anche riciclata in attività “pulite”, come è accaduto con i proventi della pirateria somala. L’organizzazione criminale che tira le fila di questa tragedia, infatti, ha assunto dimensioni internazionali: non a caso i riscatti vengono ormai pagati quasi tutti in Europa, attraverso agenzie di money transfer. E’ una vera e propria mafia, che non tollera resistenze e ribellioni.

E il dramma, come dimostra la storia di Berham, continua anche dopo l’eventuale liberazione. La strada verso Israele si è chiusa da quando è stata innalzata una barriera impenetrabile lungo tutto il confine del Sinai, per impedire infiltrazioni di qualsiasi tipo. L’Egitto riserva ai profughi arresti, carcere, processi e rimpatri forzati: chi ha i mezzi per pagarsi il biglietto aereo viene rispedito nel suo paese; chi non li ha, resta in prigione, in pratica a tempo indeterminato, fino a che non si trova qualcuno disposto a coprire le spese del viaggio. Ma per molti, in particolare per gli eritrei, ritornare a casa significa finire in carcere o anche peggio, come disertori. Allora, chi può, punta sulla Libia: direttamente dall’Egitto oppure ripartendo dall’Etiopia e attraversando il Sudan e il Sahara. E non è ancora finita, perché in Libia la sorte di questi disperati non è migliore. Al contrario: li aspettano fucilate al confine e, una volta varcata la frontiera, lager dove accade di tutto: violenze, maltrattamenti quotidiani, torture, lavori forzati, stupri, ricatti. Con la complicità indiretta dell’Italia che, in base a tre successivi accordi bilaterali, ha affidato a Tripoli il ruolo di “gendarme” contro l’immigrazione clandestina attraverso il Mediterraneo, nonostante i governi libici non abbiano mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti di rifugiati e migranti e benché non ci sia traccia, nel paese. del rispetto neanche dei più elementari diritti umani. Chiunque entri in Libia in modo irregolare, in sostanza, è considerato alla stregua di un criminale: non un profugo. E a quel punto inizia un altro girone infernale, dal quale si può uscire soltanto pagando un nuovo riscatto: sono sempre più frequenti le segnalazioni di miliziani e poliziotti corrotti (anche ai livelli più alti), che si prestano a questo mercato crudele, pretendendo forti somme dai prigionieri e, non di rado, indirizzandoli poi al giro dei trafficanti che si occupano del trasbordo verso l’Italia e l’Europa su vecchie carrette. Navi a perdere come quella affondata a Lampedusa. Sempre a caro prezzo.

Per porre fine a tutto questo i relatori dell’incontro di Roma – Miriam van Reisen, Meron Estefanos, Alaganesh Fissehaye e don Mussie Zerai – hanno chiesto con forza un’azione convinta al governo italiano e all’Unione Europea. “La soluzione vera – ha ammonito don Zerai a nome di tutti – si avrà soltanto rimuovendo le cause che, nei paesi d’origine, spingono migliaia e migliaia di giovani a scappare, per sottrarsi a persecuzioni politiche o religiose, guerre, fame, carestie. Ma intanto ci sono numerosi interventi che possono essere attuati nell’immediato o a breve e medio termine. Il primo, ad esempio, può essere l’istituzione di ‘corridoi umanitari’ per l’emigrazione dei profughi, in modo da evitare che l’unica via possibile siano i viaggi alla ventura nel deserto e le traversate clandestine del Mediterraneo. Si tratta, in sostanza, di istituire nei paesi di transito o di prima accoglienza un sistema che consenta ai fuggiaschi di presentare la richiesta di asilo, con l’ausilio del Commissariato Onu, della Ue, delle ambasciate e dei consolati dei vari stati, europei e africani. Inoltre, una rete di veri centri di accoglienza dove soggiornare con dignità e sistemi che consentano ai profughi di inserirsi nelle stesse nazioni, in Africa, dove si sono rifugiati, attraverso programmi di lavoro, di studio, ecc. La grande maggioranza di loro, infatti, non punta all’Europa. Preferisce restare non lontano dal proprio paese, con la speranza di poter rientrare prima possibile. Ma è chiaro che se, una volta arrivati nei campi, non ci sono prospettive ma solo anni di attesa senza speranza, molti preferiscono tentare il tutto per tutto. Con condizioni vivibili sul posto e un filtro adeguato, invece, il flusso verso l’Europa si ridurrebbe ai casi dei perseguitati più a rischio, ai ricongiungimenti familiari, a chi ha bisogno di una protezione particolare, ecc. Alle situazioni, insomma, che in Africa non possono trovare soluzione”.

In questo contesto sono state prospettate iniziative di sostegno, da parte dell’Europa, ai paesi di prima accoglienza dove i profughi sono più numerosi (come l’Etiopia, il Sudan, il Kenya, l’Uganda, ma anche il Libano e la Giordania, in relazione alla tragedia siriana), attraverso progetti di assistenza e istruzione, di piccolo prestito, di cooperazione e promozione lavoro. Un esempio positivo, in questo senso, viene dall’Etiopia, che si è fatta carico di un migliaio di borse di studio per i giovani eritrei presenti nei campi. Italia ed Europa potrebbero favorire ed ampliare questo programma e promuoverne di analoghi in altri paesi.

Vanno di pari passo una nuova politica di accoglienza in Italia, più aperta e in grado di integrare nel tessuto sociale richiedenti asilo, profughi e migranti; la revoca degli accordi bilaterali come quello Italia-Libia, che finiscono per aggravare, anziché risolvere, la tratta di esseri umani; indagini internazionali congiunte contro le mafie che gestiscono il traffico. “Si potrebbe partire – ha detto Meron Estefanos – dalla“via dei soldi” pagati per il riscatto: seguire, con la collaborazione dell’Interpol, i canali attraverso cui il denaro si muove, può rivelarsi la chiave per individuare i vertici dell’organizzazione. Senza fermarsi agli scafisti e alla manovalanza”.

Un primo risultato il convegno di Roma lo ha avuto. Emilio Ciarlo, consigliere politico del viceministro degli esteri, che ha coordinato il dibattito, si è impegnato a proporre alla Camera e al Senato di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul traffico internazionale di esseri umani. Potrebbe essere un passo importante. Al di là dei risultati a cui può arrivare un’indagine di questo genere, infatti, portare il problema direttamente in Parlamento significa porlo al centro dell’attenzione del Paese e della stessa Unione Europea. Con tutte le implicazioni che ne seguono: inclusa l’adozione, in tutto o in parte, proprio delle strategie emerse nel recente convegno di Roma.


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