di Franca De Angelis
con Galliano Mariani
regia di Anna Cianca
scene di Claudio Lopez
video di Leonardo Ottaviani
Piangere nel buio di un teatro senza riuscire a smettere, anche quando ciò che stai vedendo, per tua fortuna, non ti è familiare. Di fronte a una storia di soffocamento di identità difficilmente resti impassibile, specie se lo spettacolo è così coinvolgente, intimo, delicato e duro allo stesso tempo, specie se parte del problema è l’utilizzo inumano che è stato fatto di ciò che ha una grande importanza per te, la tua passione, la tua professione.
Sissy Boy è la storia di S. B., Sergio Bello, un bambino che cresce felice e spensierato nell’Italia degli anni ’70, fino al momento in cui la madre si accorge che il figlio sogna di essere Maga Maghella e non un astronauta o un calciatore, che gioca con le Barbie e non con i soldatini.
Terrore, ansia, preoccupazione, vergogna.
La soluzione a questo problema risponde al nome del Dottor G., un luminare che con il suo immenso saper fare può placare le ansie della mamma di Sergio, il cui unico interesse è quello di avere un figlio normale, con passioni maschili. Il dottor G. guarda Sergio da dietro uno specchio speciale e lui, in una stanza piena di giocattoli da bambino e da bambina, deve solamente giocare. Durante la cura Sergio vede la sua mamma cambiare: l’angelo dolce e accogliente lascia il posto a una donna fredda e lontana, che non lo guarda, che non risponde alle sue domande.
La colpa è delle bambole? Sergio smette di giocarci e la mamma torna ad essere affettuosa.
Sergio non resiste alla tentazione di giocare con una Barbie nuova? La mamma torna a dimenticarsi di lui.
Sergio non gioca più con le bambole, ma neanche con i soldatini, semplicemente non gioca più.
E da quel momento associa sempre il desiderio al dolore, che in lui si manifesta con dei tremendi dolori di stomaco che lo dilaniano non appena si concede ciò che desidera. E così diventa un bambino-talpa, senza desideri e slanci, nascosto nella sua tana al riparo da tutto e da tutti, che reprime sé stesso ostinatamente, che veste di grigio e di marrone anche se adorerebbe farlo di viola e fucsia, che evita di mangiare il tiramisù – per cui impazzisce – per non vomitarlo sul tappeto della nonna o sulla nonna stessa, che allontana l’uomo di cui è innamorato e con cui era sul punto di crearsi una vita, che sposa una donna perché questa è la normalità.
Ma la propria natura non può rimanere nascosta in una tana buia per sempre e, a volte, il sentirsi inadeguato e sbagliato porta a sacrificare tutto. E la talpa si uccide a 38 anni.
La storia è ispirata alla vita di Kirk Andrew Murphy che a 5 anni fu realmente sottoposto ad un trattamento sperimentale per la prevenzione dell’omosessualità della University of California ad opera dello psicologo George Rekers, che garantiva di poter guarire in 22 mesi un bambino da comportamenti omosessuali, anormali, sconvenienti.
Poco meno di 1 ora e 30 minuti di monologo e gli occhi e l’intensità di Galliano Mariani, la dinamicità dell’abile regia di Anna Cianca ti fanno sentire parte della storia, fanno tuoi i dolori di chi non si sente accettato per ciò che è (esperienza che, a vari livelli, abbiamo vissuto tutti) ma, soprattutto, ti fanno sentire colpevole di far parte di una società che mette spalle al muro chi è reo solamente di voler essere libero di esprimersi.
Sì, perché a 40 anni di distanza la situazione non è cambiata: fortunatamente ci siamo liberati delle terapie correttive, salvo alcuni sporadici casi da denuncia, ma il senso di inadeguatezza dell’identità omosessuale, purtroppo, non è del tutto svanito nella nostra cultura.
E uscendo dal teatro ti chiedi se è poi così estrema la tua convinzione per cui la genitorialità non dovrebbe essere un diritto di tutti, ma solo di chi mette la felicità e la libertà del proprio figlio sopra ogni altra cosa.
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