Afewerki è un ragazzo di Asmara. Ha lo stesso nome del dittatore che opprime il suo paese. Forse per questo, non solo perché è più “facile”, ora che è in Italia ha chiesto agli amici di chiamarlo Tony. E’ passato anche lui da Lampedusa, arrivando dalla Libia, al termine di una fuga avventurosa. Non era sul barcone che è affondata, giusto sei mesi fa, a poche centinaia di metri dall’isola, portando con sé in fondo al mare oltre 380 profughi, quasi tutti eritrei come lui, con tantissime donne e bambini. Ha conosciuto, però, parecchi dei superstiti e ne ha raccolto i racconti drammatici, condividendone la pena. Ora vive in un centro di accoglienza siciliano, in attesa che finalmente la commissione ministeriale si decida ad esaminare la sua domanda di asilo. E’ andato almeno un paio di volte ad Agrigento, a pregare sulle tombe di quei giovani disperati che la morte ha strappato al loro sogno di libertà, quando già erano a un passo dalla salvezza. A pregare, ma anche a ricordare e a riflettere. “In quei giorni di dolore – dice – sono state fatte mille promesse. Tutti prendevano impegni. Parlavano di coscienza. Dicevano che dopo Lampedusa nulla sarebbe più stato come prima. Che l’Italia e l’Europa non potevano non farsi carico della tragedia dei profughi. E invece tutto è ancora come prima. Ci si è già dimenticati. Dei morti e dei vivi…”.
Già, a sei mesi dal disastro quasi nessun impegno è stato mantenuto. Né per i morti, né per i vivi. Proprio come dice Tony-Afewerki.
I morti. Erano stati promessi funerali di Stato e lutto nazionale. E poi la restituzione delle salme ai familiari, a spese del nostro governo. Qualche parlamentare si è spinto addirittura a ipotizzare un volo umanitario per riportare in Eritrea tutte le vittime, con l’idea magari di seppellirle insieme in un unico sacrario, come insieme erano morte proprio nell’ultima tappa della loro lunga “fuga per la vita”. Le promesse mancate sono iniziate da lì. Niente funerali di Stato, niente restituzione delle salme. Solo una cerimonia frettolosa ad Agrigento, praticamente senza neanche la presenza di parenti e amici. In compenso c’era l’ambasciatore eritreo, il rappresentante in Italia di quello Stato dal quale quei giovani, uomini e donne, erano scappati per sottrarsi a guerra e persecuzioni. Quello Stato che, se li avesse ripresi, li avrebbe gettati in galera o anche peggio e che non di rado, per scoraggiare gli espatri, sottopone a rappresaglie i congiunti più stretti dei fuggiaschi. Da allora è calato il silenzio. Nessuno si cura di quelle povere tombe scavate in tutta fretta, quasi a nascondere la vergogna di una tragedia annunciata: una mattanza provocata anche dall’assurda, colpevole politica italiana che, blindando a riccio i confini, consegna di fatto migliaia di profughi e migranti in cerca di protezione ai trafficanti di uomini. A quei mercanti di morte che continuano ad arricchirsi organizzando la traversata del Sahara e del Mediterraneo verso l’Europa: solo nei primi tre mesi di quest’anno hanno fatto sbarcare sulle coste siciliane circa 10 mila altri disperati.
Ecco, i vivi. Anche nei loro confronti non è cambiato nulla in questi sei mesi. I confini restano blindati e, grazie ai trattati bilaterali siglati prima da Berlusconi (2009), poi da Monti (2012) e infine da Letta (2013), la sorveglianza continua ad essere affidata alla Libia. La Libia che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui diritti di rifugiati e migranti e tratta da criminali tutti coloro che ne varcano la frontiera senza documenti. La Libia dei centri di detenzione-lager, dove i profughi sono costretti a condizioni di vita spaventose, in balia di carcerieri che li tormentano con mille angherie, umiliazioni, soprusi, violenze, stupri. La Libia dove si è sviluppato un autentico business del dolore: una catena di arresti e di taglie per la scarcerazione, che è diventata una delle principali fonti di finanziamento per gruppi di miliziani ribelli o per clan di banditi dai sistemi mafiosi. La Libia disgregata e, secondo molti osservatori, sull’orlo di una frantumazione “balcanica”, sotto la spinta di formazioni separatiste sempre più forti. Basterebbe anche uno solo di questi fattori per mettere in discussione e revocare il trattato bilaterale inaugurato quasi cinque anni fa. Invece no. Nessuno in Italia lo contesta quel trattato. Anzi, si continua a cercare di “spostare” sempre più a sud il confine blindato dell’Italia e dell’Europa. Con Berlusconi e Monti è stato portato di fatto sulle coste africane; con Letta si è cominciato a parlare di chiudere anche la frontiera meridionale della Libia, in pieno Sahara, come ha promesso a Roma, nel luglio dello scorso anno, Alì Zeidan, il premier di Tripoli ora deposto. Senza curarsi delle conseguenze drammatiche di questa scelta.
“Si è creato un circolo vizioso – denuncia don Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia – Appena sono catturati mentre cercano di varcare il confine sahariano o in una qualsiasi delle province libiche, per i miliziani o i poliziotti corrotti i profughi diventano ‘merce’ da sfruttare nel traffico di esseri umani. Il primo passo è la taglia pretesa per lasciarli andare, in genere non meno di mille dollari. Per chi non paga c’è una detenzione fatta di pestaggi, torture, minacce. Una volta fuori, l’odissea non finisce. C’è sempre il rischio di essere catturati da una banda diversa. Chi arriva alla costa, poi, precipita nel giro degli scafisti. Spesso, anzi, c’è un collegamento diretto: sono gli stessi miliziani del carcere a indirizzare verso un particolare clan di scafisti. Inizia così il secondo ricatto: mille, duemila dollari, ma anche di più, per la traversata del Canale di Sicilia, sempre col pericolo di finire di nuovo in carcere se si viene sorpresi dalla polizia sul litorale o la barca viene intercettata dalla guardia costiera di Tripoli dopo la partenza. E per chi torna in carcere il sistema di ricatti ricomincia. Quasi all’infinito. Eppure in Italia si continua a tacere su tutto questo”.
A tacere e a perpetuare l’accordo bilaterale. Il neopremier Matteo Renzi sembra guardarsi bene dal rottamarlo. Non ne ha neanche fatto cenno. Come non ha detto una sola parola concreta su una eventuale nuova politica di accoglienza per i rifugiati e, più in generale, sull’emigrazione. Peggio: ha abolito persino il ministero dell’integrazione che, introdotto da Letta, si è mosso tra mille incertezze e contraddizioni, ma era comunque un segnale importante di cambiamento e di una sensibilità diversa rispetto al passato.
Rischia di rivelarsi un bluff anche la “revoca” del reato di clandestinità. Il governo Renzi si vanta di averlo abolito. In realtà il Parlamento ne ha votato solo la depenalizzazione nell’ambito del decreto svuota carceri, tramutandolo in illecito amministrativo. Per abolirlo davvero Sel aveva presentato un emendamento specifico, ma a favore hanno votato, oltre ovviamente a quelli di Sel, soltanto i deputati grillini. “E tra l’altro – sottolinea Andrea Scanzi sul Fatto Quotidiano – si tratta dell’ennesima legge delega che contiene di tutto. Il Governo ha ora otto mesi di tempo per depenalizzare questo reato insieme ad altri. Ma al momento non ha depenalizzato un bel nulla. E’ solo una promessa. Un’altra delle tante”.
Resta bloccato anche il vecchio sistema di accoglienza. Nulla per migliorare le condizioni di vita nei vari centri di soggiorno e assistenza per i rifugiati. Nulla per abbreviare le procedure di esame delle richieste di asilo. Anzi, proprio in questi giorni il Ministero degli Interni ha parlato di “rischio collasso” o comunque ha manifestato il timore che i tempi, che già ora arrivano mediamente a un anno, possano addirittura raddoppiare. Mancano, si afferma, fondi e personale per poter fronteggiare la prossima ondata di rifugiati che, secondo le stime, nel 2014 dovrebbe attestarsi attorno a 45-50 mila persone. Grossomodo come nel 2013. Ma sono stime al ribasso: da gennaio a fine marzo sono già sbarcati sulle coste siciliane più di 10 mila uomini e donne, contro i mille circa dei primi tre mesi dell’anno scorso. E, ancora, nulla si è fatto perché coloro che hanno ottenuto una forma di protezione internazionale possano vivere dignitosamente in Italia: restano abbandonati a se stessi, senza casa e condannati a diventare braccia per il lavoro nero. Non persone destinate a ingrossare il “popolo degli invisibili” che affollano palazzi in disuso occupati abusivamente, baraccopoli, alloggi di fortuna.
Nulla, infine, dei “corridoi umanitari” per favorire l’immigrazione regolare e sottrarre vittime ai trafficanti di uomini. Se ne è parlato a lungo nei giorni immediatamente successivi alla tragedia di Lampedusa. Un sistema da organizzare in collaborazione tra Commissariato dell’Onu, ambasciate e consolati europei, in modo da esaminare le richieste di asilo direttamente in Africa, nei paesi di transito e di prima sosta dei fuggiaschi. Ovviamente trasformando gli attuali campi profughi africani in centri di accoglienza vivibili, sotto il controllo diretto dell’Onu stessa e dell’Unione Europea. Cessato il clamore della strage, però, è calato il silenzio: il progetto è sparito dalla discussione politica. Anzi, in diversi consolati si moltiplicano le difficoltà anche per rilasciare i documenti di viaggio per i ricongiungimenti familiari, nonostante il Ministero degli Interni abbia già concesso il nulla osta attraverso le prefetture delle province di residenza dei congiunti in Italia. “E’ un atteggiamento incomprensibile – denuncia l’agenzia Habeshia – Accade in Etiopia, in Sudan e in Uganda, soprattutto nei confronti degli eritrei, in genere donne e bambini, giovani madri con i figli piccoli o magari in stato di gravidanza”.
In compenso si continua ad esaltare l’operazione Mare Nostrum: il pattugliamento del Canale di Sicilia affidato a una flotta di navi da guerra. Mascherando il fatto che anche questa è, in sostanza, una ulteriore blindatura dei confini, che costa dai 10 ai 12 milioni al mese e che prescinde dalla sorte dei profughi e dalle cause che li hanno spinti a fuggire. L’ennesimo capitolo, insomma, di una visione emergenziale del problema. Ecco, è proprio questo il punto. Quello dei profughi è da anni un problema “strutturale” che si può risolvere solo con interventi “strutturali”: nel breve periodo con un sistema di accoglienza più aperto ed efficiente; nel medio e lungo periodo, cercando di eliminarne le cause attraverso una politica diversa, più equa e più attenta ai diritti fondamentali, da parte dei “potenti della terra” nei confronti del Sud del mondo. E’ proprio questo il significato dell’appello lanciato da papa Francesco a Lampedusa nel luglio scorso. Un appello che governi e politici di tutta Europa, Italia in testa, hanno condiviso ed esaltato. Salvo dimenticarsene appena è cessata l’eco degli applausi.
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