AFRICA, MILIONI DI ETTARI SOTTRATTI AI CONTADINI

29 Villaggio Galeb 5E’ più facile che una multinazionale ottenga dallo Stato migliaia di ettari che una famiglia di contadini un fazzoletto di poche migliaia di metri quadrati da coltivare, appena sufficienti per riuscire a vivere con un minimo di dignità e magari a vendere un po’ del surplus produttivo. E’ tutto qui il meccanismo del land grabbing in Africa, l’accaparramento delle terre migliori da parte dei signori dell’agrobusiness.

La misura del fenomeno, che sta espellendo dai campi di cui vivono da generazioni migliaia di piccoli agricoltori e allevatori, la forniscono la Fao (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione) e la Banca Mondiale, le quali considerano che il land grabbing si configura a partire dalla cessione, a una compagnia di investitori stranieri, di mille ettari di superficie, pari a 10 chilometri quadrati, che rappresentano l’autosufficienza per 500 famiglie. Ma altroché mille ettari: le società occidentali o di paesi emergenti come Cina, India o Brasile, non scendono mai sotto i 10 mila ettari di terra arabile. Anzi, le aziende tipo di “soli” 10 mila ettari sono una minoranza: la media viaggia oltre i 50 mila ettari, con punte addirittura di 200 o 300 mila. Estensioni enormi, che le multinazionali ottengono in concessione per periodi lunghissimi, da 50 a 99 anni, pagando un canone irrisorio: a volte appena un euro o poco di più l’anno per ogni ettaro. Rari i casi nei quali si arriva a 10 o 20 euro.

Non c’è paese africano che si salvi da questa “epidemia”, con il favore dei governi centrali e contro la volontà e gli interessi delle popolazioni locali. Secondo una indagine pubblicata dalla rivista Le Monde  Diplomatique, nel 2011 si era già arrivati complessivamente ad almeno 60 ma forse addirittura a 80 milioni di ettari accaparrati. Gli effetti sono devastanti. Le società titolari di queste aziende enormi non puntano su colture destinate a soddisfare il consumo alimentare locale, ma su produzioni industriali rivolte all’esportazione. In particolare, sul biocarburante. Non a caso il fenomeno ha subito un’accelerazione fortissima dopo che, con il protocollo di Kyoto, si è stabilito che entro il 2020 il dieci per cento della benzina o del gasolio per i trasporti nell’Unione Europea deve essere di origine biologica e che il venti per cento del consumo energetico generale va garantito con fonti rinnovabili, incluse le biomasse.

Il primo contraccolpo lo subiscono i contadini allontanati dai loro campi. Secondo gli accordi con lo Stato, dovrebbero essere assunti dalle aziende concessionarie del terreno. Nella maggior parte dei casi, in effetti, vengono ingaggiati come braccianti. Ma dura poco: le condizioni di lavoro sono spesso così pesanti e i salari così bassi (in genere dai due ai quattro dollari al giorno) che in breve tempo la maggioranza preferisce andarsene. Espulsi di fatto dai loro villaggi, sono costretti a vivere nei terreni “residui”, spesso a grande distanza da quelli confiscati. Molti tra i più giovani, ormai ex agricoltori, vanno a ingrossare il sottoproletariato che popola le baraccopoli nelle periferie delle metropoli africane: disperati che si arrangiano come possono, con il lavoro che capita, e che non di rado finiscono per alimentare la diaspora dei profughi e dei migranti in fuga verso l’Europa.

L’effetto più a lungo termine è ancora peggiore: si riduce fortemente la produzione di cibo in nazioni che spesso già non riescono a raggiungere l’autosufficienza alimentare, moltiplicando il numero di famiglie sotto il livello di povertà o addirittura alla fame e aumentando in generale la dipendenza dalle importazioni per garantire il minimo indispensabile per l’alimentazione. Ovvero: cresce senza freni il debito estero mentre diminuisce, di conseguenza, la sovranità economica e, in definitiva, anche politica dello Stato. La stessa gravissima carestia del 2010, che ha causato migliaia di vittime e un esodo biblico di sfollati nel Corno d’Africa e nell’Africa sub sahariana, oltre che dalla siccità legata al cambiamento climatico globale, secondo numerosi osservatori è stata causata proprio dal crollo della produzione agricola di beni alimentari in realtà dove il land grabbing è più sviluppato e feroce.

Un caso emblematico è quello dell’Etiopia, come emerge nell’inchiesta, pubblicata da Le Monde Diplomatique, condotta dalla giornalista Agnes Stienne, esperta dei problemi del Sud del mondo. In questo paese l’assalto alle terre coltivabili è partito dall’inizio degli anni 2000, quando l’allora presidente Meles Zenawi ha affidato all’Agricoltural investment support directorate (Aisd), un’agenzia del ministero dell’agricoltura, il compito di proporre la locazione di vasti territori a compagnie estere. “Secondo uno studio dettagliato realizzato dall’Oakland Institute nel 2011 – scrive Agnes Stienne – almeno 3,6 milioni di ettari di terre (di cui solo due milioni all’incirca hanno proprietari identificati) sono stati già trasferiti agli investitori. Una cifra confermata dall’associazione Human Rights Watch (Hrw), la quale aggiunge che altri 2,1 milioni di ettari di terre sono messi a disposizione mediante l’Aisd a condizioni estremamente vantaggiose: prezzo derisorio e disponibilità di abbondanti risorse idriche”.

L’impatto ambientale è stato pesante: “Dietro le alte recinzioni che cingono queste enormi aree consegnate all’ipersfruttamento, talvolta con la polizia locale a fare da guardia, l’artiglieria pesante dell’agrobusiness rimodella i paesaggi: flotte di bulldozer, serre di plastica a perdita d’occhio, meccanizzazione, ecc.”. L’impatto sociale si è rivelato ancora più devastante. Contemporaneamente alla cessione delle terre è scattato un piano di reinsediamento, che ha coinvolto oltre un milione e mezzo di persone: 500 mila nella regione di Afar, altre 500 mila nel Somali, 225 mila nel Gambela e 225 mila nel Benisciagul-Gumus. Nella maggior parte dei casi, in pratica, una vera e propria deportazione. “Nel Gambela, dove il 42 per cento delle terre è stato confiscato – rileva ad esempio Agnes Stienne – gli abitanti sono stati ‘pregati’ di andare a pascolare il loro bestiame altrove”. Era previsto un programma di  “villaggizzazione” da attuare in tre anni, a partire dal 2010, per spostare 45 mila famiglie: villaggi più moderni, con servizi e infrastrutture migliori (acqua, scuole, centri sanitari, strade, mercati), e tre o quattro ettari di terra irrigabile a ogni famiglia. Queste le promesse sulla carta. La realtà si è invece rivelata disastrosa. “Il progetto – denuncia Agnes Stienne – non ha tenuto conto dei bisogni più elementari delle greggi: bere, per esempio. Inoltre, i responsabili non hanno previsto nessuna misura per il periodo successivo all’abbandono dei campi che avevano i contadini e dei loro raccolti. Né per quello in cui avrebbero dato i loro frutti i nuovi appezzamenti destinati alle colture alimentari, che occorreva dissodare, seminare e coltivare. Dopo aver visitato l’area nel 2011, Human Rights Watch riportava che, avendo rifiutato il piano di reinsediamento presentato dal governo regionale, gli abitanti erano stati costretti ad abbandonare i luoghi, cacciati dalla polizia e dall’esercito. Questa repressione avrebbe causato trecento morti. Molti abitanti del villaggio sono stati imprigionati e numerose donne sarebbero state violentate”.

Non solo. Molte famiglie, anziché i tre o quattro ettari promessi, si sono viste assegnare appena mezzo ettaro, per di più poco fertile e da dissodare senza macchinari; non c’erano mulini per i cereali; le scuole erano senza insegnanti e i centri sanitari quasi senza medici o con personale poco preparato. Persino l’acqua potabile è risultata insufficiente o comunque molto scarsa.

Di certo sono rimasti solo gli affari dei giganti dell’agrobusiness. Al saccheggio partecipano quasi tutti i paesi del Nord del mondo, quelli che papa Francesco ha definito i “potenti della terra”. Tra i 2,121 milioni di ettari di terra occupati da investitori “documentabili” su un totale di 3,6 milioni, più della metà (1,22 milioni) sono andati ad aziende indiane, con in testa la Karaturi. Ce n’è una, in particolare, di quasi 300 mila ettari. Seguono a distanza la Germania (206 mila ettari), Israele (168 mila), l’Arabia, in particolare con il gruppo Saudi Star (140 mila), gli Stati Uniti (121 mila). Poi, sempre in ordine di dimensione, il Regno Unito (85 mila), il Sud Africa (50 mila), la Cina (25 mila), i Paesi Bassi (24.300), l’Egitto (20 mila), il Brasile (18 mila), la Danimarca (15 mila), il Libano (10 mila), Gibuti (7 mila) e persino il Liechtenstein (6 mila). Infine l’Italia, con 5 mila ettari. Quasi tutte le maxi aziende censite puntano sugli agrocarburanti. A questo tipo di produzione alcune delle società più grandi (India, Arabia, Israele) affiancano colture come cereali, cotone, canna da zucchero, soia, caffè, the, riso, verdure. Persino enormi serre per fiori e piante ornamentali. Quasi l’intero raccolto, però, è destinato all’esportazione verso le nazioni “madre” delle società e non al consumo interno.

Nella graduatoria rilevata da Agnes Stienne l’Italia figura all’ultimo posto. Indagini più recenti sul land grabbing, però, dicono che la superficie occupata in Etiopia da aziende italiane è molto aumentata. Secondo un rapporto dell’associazione Re Common, si è saliti a 70 mila ettari. Dallo stesso dossier elaborato da Re Common emerge che l’Italia ha ottenuto in concessione, in tutta l’Africa, quasi due milioni di ettari coltivabili, suddivisi tra una quarantina di aziende e destinati in massima parte al biocarburante. Per l’esattezza, 1,987 milioni. Quasi la metà (850 mila ettari) con il gruppo Nuove Iniziative Industriali. Seguono l’Agroils e la Green Waves, con 250 mila ciascuna, e la Green Power con 170 mila. Nell’ordine dei 100 mila ettari si attestano la Tre (Tozzi Renewable Energy) e la Troiani e Ciarrocchi. L’Eni è presente con poco più di 80 mila ettari. Poi varie altre società, con superfici variabili tra i 10 e i 30 mila ettari.

Quanto alla ripartizione per paesi, a parte l’Agroils che divide le sue concessioni tra numerose nazioni (Algeria, Camerun, Egitto, Ghana, Guinea, Marocco, Mozambico, Senegal e Togo), le maggiori concentrazioni si hanno in Guinea (710 mila ettari), Benin (250 mila), Madagascar (230 mila), Nigeria (100 mila), Etiopia (70 mila), Mozambico (51 mila), Senegal (50 mila).

Il fenomeno è in crescita in tutta l’Africa. In Etiopia il nuovo presidente Hailemariam Desalegn ha confermato la politica seguita da Meles Zenawi, il suo predecessore. Gli ultimi progetti, denunciano l’Oakland Institute, Survival International e Human Rights Watch, riguardano la bassa valle dell’Omo, fitta di villaggi di etnia Galeb-Dhasanech. “Migliaia di agro-pastori – scrive David Turton, ex direttore del Centro studi sui rifugiati presso l’università di Oxford, in un servizio per la rivista Think Africa Press – vengono sfrattati dal governo, senza indennizzo, dalle loro terre agricole più preziose lungo le rive dell’Omo, per far posto a progetti di irrigazione su larga scala, ai quali è interessata la Ethiopian Sugar Corporation”. I governi africani continuano a giustificare questa resa di fatto alle multinazionali asserendo di aver bisogno di fondi per costruire infrastrutture necessarie allo sviluppo e alla modernizzazione. Ma basta controllare i canoni di affitto annuo per smentirli. “Come spiegare – denuncia Agnes Stienne – che terre di qualità equivalente a quelle che in Malesia sono affittate a 300 euro per ettaro l’anno, qui in Etiopia vengano cedute per 1,5 euro?…”. Già, come spiegarlo? E come non comprendere le rivolte dei piccoli contadini contro questa rapina che ne sconvolge la vita e finisce per rendere il loro paese schiavo della finanza internazionale?  (1. continua)


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