GHANA, LA “RESISTENZA” DELLE MINI FATTORIE

GHANAUna catena di mini fattorie satellite, federate attorno ad un’azienda leader molto più grande. Centinaia, migliaia di piccoli agricoltori che fanno capo, come partner, ad una vasta “farm guida” gestita con criteri moderni, in grado di conciliare produzione e commercio, muovendosi agevolmente sul mercato nazionale ed estero, ma attenta a indirizzare i “soci” minori, senza prevaricarne l’autonomia e la proprietà del terreno.

Diversi osservatori vedono in programmi di questo genere l’alternativa vincente al diffuso fenomeno del land grabbing di cui sono protagoniste nel Sud del mondo, e in particolare in Africa, le multinazionali dell’agrobusiness. Ne parla, in una recente inchiesta, James Wan, cittadino britannico originario dell’isola Mauritius, redattore della rivista Think Africa Press, finalista nel concorso internazionale di Giornalismo per lo Sviluppo bandito dal Guardian di Londra. Al centro del servizio c’è il progetto sperimentato in Ghana dalla Gadco (Global agri developement company), una società fondata da due ex operatori della City londinese, Toks Abimbola e Iggy Bassi.

Anche in Ghana – fa notare James Wan – abbondano gli esempi di agrobusiness selvaggio, con l’accaparramento, da parte di investitori stranieri, “dei diritti su vaste aree di terreno, lo sradicamento degli abitanti dalle loro case ancestrali, la costruzione di maxi fattorie chiuse”, la cui produzione non si ferma quasi mai nel paese ma prende la strada dell’esportazione. Il progetto Gadco, inaugurato 3 anni fa, sembra rompere questo schema. La spinta è venuta da una “scommessa” sul riso. Il consumo di questo cereale è in forte espansione in tutta l’Africa Occidentale. In particolare proprio nel Ghana: “In seguito all’aumento dei redditi e ai mutati stili di vita – spiega James Wan – le produzioni di patate, banane e manioca sono in calo rispetto al passato, mentre il riso è visto come il cibo del futuro. Il consumo annuo, che nel 2001 era di appena 17,5 chili a testa, dieci anni dopo, nel 2011, era più che raddoppiato: 38 chilogrammi. E si stima che entro il 2015 arriverà a 63. Tuttavia l’approvvigionamento interno è in grave ritardo. L’Africa Occidentale non produce abbastanza per soddisfare il proprio consumo e i governi devono importare ogni anno milioni di tonnellate di riso dall’Asia. Questa dipendenza sui mercati internazionali assorbe miliardi di preziose riserve in valuta estera e lascia la popolazione vulnerabile agli choc dei prezzi alimentari a livello mondiale. Nel 2007-2008, ad esempio, il prezzo è schizzato alle stelle per l’effetto combinato di speculazione, protezionismo e ‘panico da acquisto’ in tutto il mondo, creando forti tensioni in vari paesi. Proprio queste turbolenze hanno indotto diversi governi africani a incrementare le coltivazioni di riso per arrivare all’autosufficienza”.

La Gadco si è inserita in questo contesto, puntando a produrre riso nel distretto South Tongu, regione dell’Alto Volta, nelle terre dei Fievie, un popolo di piccoli agricoltori che vivono in villaggi sparsi nelle campagne intorno al lago Volta, il più grande bacino artificiale del mondo. Il progetto ha il pieno sostegno del governo. Il ministro dell’economia Fifi Kwetey lo ha definito “strategico”, nell’ambito di un programma più vasto, volto a conseguire l’autonomia alimentare per l’intero paese. E il capo del distretto, Daniel Alormeku, sostiene che il South Tongu è destinato a diventare il “cesto del riso del Ghana”. In verità anche altre società dell’agrobusiness hanno scommesso sul riso, fin dal 2008, destinando a questo tipo di coltura migliaia di ettari. I loro programmi, però, sono falliti o comunque non hanno dato i risultati sperati, a causa di una serie di fattori concomitanti: le dispute nate con le popolazioni sulla cessione delle aree coltivabili, l’ostilità crescente dei piccoli contadini, la mancanza di collegamenti con lo sviluppo locale, la denuncia di varie organizzazioni internazionali che hanno contestato, tra l’altro, il canone irrisorio per la locazione del terreno, pari in alcuni casi ad appena 1,5 dollari per ettaro l’anno per ben 99 anni. La Gadco ha adottato una strategia diversa: nessuna maxi fattoria “chiusa”, di decine di migliaia di ettari, ma una stretta collaborazione con la comunità dei Fievie. “Molte grandi imprese – ha dichiarato Iggy Bassi a James Wan – si sono lasciate tentare dai cosiddetti accaparramenti di terre. Hanno seguito un modello irresponsabile che nel lungo termine si sta rivelando negativo. Anziché puntare su un’agricoltura commerciale su vasta scala, dunque, la nostra squadra ha proposto un modello più sostenibile e meno controverso”.

Si è così deciso di costituire una sola fattoria, di dimensioni relativamente modeste e, invece di affittare il terreno, di trovare un accordo più inclusivo, un partenariato con la comunità locale dei Fievie, circa 10 mila persone guidate da Awuku Atakli. E si è stabilito che per il primo raccolto la Gadco avrebbe avuto l’accesso a 300 ettari in cambio del 2,5 per cento dei profitti lordi. Sono qui le prime novità: una superficie limitata e un criterio diverso di compenso per la cessione del terreno. “A differenza di un contratto di locazione a tariffa fissa – spiega James Wan – questo tipo di intesa lega insieme le sorti della comunità e della società: maggiori profitti per l’azienda significano anche maggiori profitti per i Fievie. Tutti i costi e le spese devono essere comunicati e resi ‘trasparenti’ e accessibili, mentre il denaro che spetta alla comunità va depositato in un conto speciale per essere usato esclusivamente per progetti di sviluppo locale. I contadini sfollati dalle loro terre, infine, devono essere compensati con la cessione di un ettaro sul quale coltivare loro stessi il riso”.

Quei 300 ettari sono stati soltanto il primo passo della “fattoria centrale”. L’obiettivo della società è arrivare ad una estensione di cinque o seimila ettari, mentre via via che cresce la concessione vanno rinegoziati al rialzo anche i rendimenti per i Fievie. Contemporaneamente ha preso avvio la seconda parte del programma: integrare la produzione di questa “farm guida” con una serie di piantagioni satellite condotte dai piccoli agricoltori della regione, per sfruttarne la capacità produttiva, ma assicurando loro semi, fertilizzanti, assistenza tecnica, prestiti. I raccolti di questi piccoli proprietari vengono poi acquistati dalla fattoria centrale, in modo da poter contare complessivamente su una superficie molto superiore rispetto ai 6 mila circa che, a regime, dovrebbero essere gestiti direttamente dalla Gadco. Si parla, infatti, per il programma finale, di almeno altri 5 mila ettari affidati ad agricoltori locali autonomi federati. Ovvero, “invece di investire in terra, questi modelli di agrobusiness africano investono sulle persone”, rileva James Wan citando Jane Harrigan, docente di economia presso la Scuola di studi orientali e africani (Soas) dell’Università di Londra.

La fase iniziale si è rivelata incoraggiante. La “farm” è passata da 300 a mille ettari e il 2,5 per cento del fatturato destinato ai Fievie è stato impiegato per la costruzione di strade, scuole, illuminazione pubblica e altri servizi nei villaggi, attività culturali tradizionali. Non mancano, tuttavia, problemi, dubbi e difficoltà. Il sistema delle “piantagioni satellite” non è una novità in assoluto. In altre realtà, sempre in Africa, ha dato risultati contrastanti a causa, ad esempio, di incomprensioni o scarso coinvolgimento reale dei piccoli agricoltori locali, i quali, dopo la “luna di miele” iniziale, non hanno ritenuto che i propri interessi e obiettivi coincidessero con quelli della società. Anche tra i Fievie più di qualche contadino ha lamentato di avere problemi con la coltivazione del riso richiesta dall’azienda, pur ammettendo che i tecnici della farm non hanno fatto mancare suggerimenti e assistenza. E diversi operai impiegati nel nucleo centrale hanno protestato per le condizioni di lavoro e contestato che il loro salario (4 dollari al giorno) era inferiore a quanto si aspettavano. La Gadco è intervenuta tempestivamente per risolvere questo genere di problemi. “Gli agricoltori – ha detto Bassi a James Wan – entrano nel rapporto con noi in piena libertà. Perché ci restino fedeli, stagione dopo stagione, dobbiamo garantire che il sistema funzioni anche per loro”.

Il problema maggiore, tuttavia, è un altro. E’ lo stesso James Wan a farlo notare, citando ancora la Harrigan: “Secondo molti osservatori, il pericolo di fondo non è che l’azienda venga meno ai suoi impegni volutamente. Il punto è che se la società si integra perfettamente nella realtà locale, in caso di battute d’arresto o, peggio ancora, di un crollo completo, potrebbero esserci ricadute enormi. Fa ben sperare il fatto di poter constatare che i contadini oggi sembrano soddisfatti, ma bisognerebbe anche vedere che cosa accadrà se le cose in futuro dovessero andar male. In particolare per i piccoli proprietari. Uno dei problemi principali dei sistemi di piantagioni satellite, infatti, è che mentre possono fornire una eccellente opportunità agli agricoltori locali, possono anche, di contro, accumulare una pesante serie di rischi su di loro. A volte, anzi, tutti i rischi gravano di fatto solo sui contadini mentre la società commerciale ne resta praticamente fuori. Ad esempio, se c’è un cattivo raccolto o si registrano dei contraccolpi negativi sui mercati internazionali, gli agricoltori devono ugualmente rimborsare i costi di produzione anche se non hanno realizzato alcun profitto? In caso di cattiva stagione la società in genere è protetta dalle perdite, mentre le conseguenze rischiano di scontarle i piccoli proprietari. Peggio ancora in caso di un eventuale fallimento totale: i contadini che hanno dato fiducia alla ditta, privi di proprie ‘reti di sicurezza’, perderebbero ogni contatto con i mercati e potrebbero esserci disastrose conseguenze per l’economia locale”.

La Gadco, pur non escludendo in linea teorica la possibilità di un “collasso”, respinge l’idea che, in caso di difficoltà, verrebbe tutto scaricato sulla comunità locale: “Il trasferimento di conoscenze (nuova professionalità, commercializzazione, cambiamento di mentalità, ecc.) è già di per sé un successo. Un potenziale che questi contadini possono sfruttare nel futuro, anche a prescindere dalla nostra azienda. Il segreto non è nella longevità della presenza di una società ma ciò che questa società lascia dietro di sé”.

Rimane il fatto che il “centro decisionale” spetta comunque alla compagnia-guida. In questo caso la Gadco. Si dice però ottimista anche Awuku Atakli, il capo della comunità dei Fievie: “Il mio obiettivo – ha dichiarato a James Wan – è difendere le risorse della comunità. Non si tratta della ‘mia’ terra: si tratta della ‘nostra’ terra. Qualunque cosa io faccia devo tener conto di questo. Io sono molto scettico quando ho a che fare con forze che appartengono al ‘mercato assoluto’. Tuttavia, la presenza della Gadco finora ha migliorato le condizioni della regione. La strada che abbiamo davanti potrebbe essere accidentata e disseminata di pericoli e la Gadco resta pur sempre una joint a scopo di lucro, che segue i dettami del mercato, mentre io non mi considero certo un pro-capitalisti. So però che se consentiremo a questa azienda di operare come ha promesso, nel giro di cinque o dieci anni qui le cose saranno molto diverse da come sono adesso”. (3. fine)


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