I SAN DELLA NAMIBIA, LA POVERTA’ DIVENTA APARTHEID

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Foto di Paola Durigon

Al villaggio si arriva da Grootfontein, una piccola città coloniale che sembra ferma a cent’anni fa, nel nord della Namibia, dopo circa 60 chilometri lungo la statale B8 e 90 di sterrato in mezzo al nulla, fino al posto di blocco della polizia veterinaria, e poi altri sei chilometri di pista sabbiosa, percorribile solo con un fuoristrada. E’ il primo di centinaia di villaggi simili, sparsi nel vasto territorio attraversato dalla strada C44 che, girando tutt’intorno alla regione dell’Otjozondjupa, si spinge in direzione sud-est per poi piegare a sud verso il Kalahari e ritornare infine in direzione ovest fino alla statale C22, nei pressi di Gobabis, il principale centro di servizi ai margini del deserto. Una terra difficile, aspra. Ci vivono da millenni i San, forse la tribù più povera del paese, un sottogruppo di 30 mila cacciatori e raccoglitori che appartiene all’etnia Nama.

A entrare tra le capanne, in un piccolo spiazzo della boscaglia, sembra di fare un salto nella preistoria. Le donne indossano solo un perizoma di pelle. Gli uomini un piccolo triangolo, sempre di pelle, fissato dai vertici con due stringhe, una intorno alla vita e l’altra tra le natiche: un rustico “tanga”, talvolta ornato con placchette di uovo di struzzo. I bambini sono nudi. Tutti si danno da fare. Un uomo della medicina e un cacciatore accendono il fuoco ruotando un bastoncino su una base di legno e steli di erba secca. Due cacciatori si stanno costruendo un arco. Uno spella un ramo flessibile, l’altro prepara la corda per tenderlo: macerando la grossa foglia di una pianta grassa si è procurato dei robusti filamenti che ora arrotola e intreccia, inumidendoli di tanto in tanto con la saliva. Una ragazza abbrustolisce dei grossi semi dopo averli sbucciati rompendo il guscio con una pietra. Cinque o sei donne infilano perline per farne collane e braccialetti, dando contemporaneamente un occhio ai bambini che girano lì intorno. Qualcuna ha un piccolo attaccato al seno. Un’anziana buca con un punteruolo una manciata di dischetti di uovo di struzzo: lavora con movimenti veloci, ripetuti chissà quante volte, che le fanno tremare la pelle grinzosa e cadente sulle braccia e sulle spalle magrissime. E’ così piena di rughe che sembra avere cent’anni: ne ha appena 60…

In realtà è solo una rappresentazione. La loro condizione non è cambiata granché, ma i San non vivono più così. Non da molto, tuttavia: fino a 20 anni fa erano ancora la caccia e la raccolta dei frutti spontanei della foresta la loro attività principale. La svolta si è avuta dopo che lo Stato, nell’ambito della lotta al diffusissimo bracconaggio su grande scala e alla tratta dell’avorio, ha proibito di cacciare in tutto il territorio ed ha avviato le tribù seminomadi a un’agricoltura di sussistenza e al piccolo allevamento, cercando di renderle stanziali. Uno dei primi interventi, in questo contesto, è stato quello di portare le scuole primarie nei villaggi più grandi, a servizio anche dei nuclei minori. Il contraccolpo iniziale sulla vita quotidiana, individuale e collettiva, è stato forte, accompagnato da diffidenza e da problemi di adattamento, ma compensato in parte dai programmi della Nyae Nyae Conservancy, una fondazione per la difesa della cultura e della lingua dei popoli indigeni, che ha indotto il governo a introdurre leggi a tutela delle tradizioni San, con tutta una serie di provvedimenti: il riconoscimento del potere politico dei capi tribali; la concessione di certe aree dove tornare ad esercitare una caccia controllata, praticata solo con arco e frecce; la reintroduzione di varie specie di animali tipici della zona in fase di estinzione; la promozione dell’ecoturismo che, al di là del denaro che frutta eventualmente ai vari villaggi, “può rassicurare le comunità San – scrive Alan Murphy, redattore della Lonely Planet – sul fatto che la loro cultura merita di essere preservata per le generazioni future”. Perché, cioè, i ragazzi e i bambini non perdano il contatto con le proprie radici e ne vadano anzi orgogliosi, opponendosi al disprezzo insito nel nome stesso, bushmen (uomini della foresta), con cui i coloni bianchi definivano i loro padri e che talvolta riaffiora ancora oggi.

E’ proprio questo il significato della “rappresentazione” che in genere accoglie i visitatori nei villaggi. Non si tratta della solita recita per turisti: è un modo di presentarsi. Donne e uomini, giovani e vecchi, fanno tutto con estrema convinzione, ripetendo gesti antichi e riproponendo tecniche, abilità manuali, sapori sconosciuti, conoscenza di ogni segreto della macchia, dei frutti che offre, degli animali che la popolano. Tutta la cultura di cui hanno vissuto per generazioni. Miriam, una ragazza di 25 anni già madre di tre bambini, ne parla con una punta d’orgoglio: “Più che una rappresentazione – dice, muovendosi disinvolta con il seno scoperto e vestita solo di un corto gonnellino di pelle di antilope – il nostro vuole essere un racconto rivolto a chi è interessato a starci ad ascoltare ma soprattutto ai nostri figli. Le capanne, gli abiti, tutti gli oggetti che usiamo sono esattamente come quelli dei nostri antenati. Parecchi, anzi, sono molto antichi, passati di padre in figlio fino ad oggi. Qualche vecchio cacciatore, ad esempio, conserva ancora le punte di freccia in osso di giraffa, affusolate e senza ‘alette’, utilizzate prima dell’arrivo degli europei. Le punte di ferro, con la classica forma a triangolo, hanno cominciato ad essere costruite dopo la colonizzazione, quando è stato possibile procurarsi il metallo dai bianchi. Poi si sono diffuse rapidamente ed oggi ci sono soltanto quelle. Ma ciascuno se le fabbrica da sé e ce ne sono vecchie di decenni”.

Lo stesso vale per i monili – collanine, bracciali, orecchini – fatti di semi o di uovo di struzzo. Ce ne sono di molto antichi, ma quelli moderni, in vendita in un piccolo museo all’aperto, poco lontano dal villaggio, sono identici, confezionati con la stessa tecnica, inclusa la funicella in cui sono infilate le perline, ricavata dalla medesima fibra arrotolata e intrecciata che i cacciatori usano per la corda degli archi. Il ricavato va per metà al villaggio, il resto alla fondazione.

Il villaggio moderno, dove vive oggi il piccolo clan che ha scelto da anni questo tratto di macchia, dista circa 800 metri da quello tradizionale, dove la boscaglia è più rada. Un insediamento povero: capanne fatte di pali, rami e paglia. Lo stesso materiale e la stessa tecnica di quelle più antiche, solo che la forma è rettangolare anziché circolare e più di qualcuna è rafforzata da vecchie tavole rimediate chissà dove o da bandoni metallici arrugginiti. Gli abitanti vestono all’europea. Jeans, pantaloni di cotone, magliette o camicie per gli uomini; gonne, tuniche e bluse per le donne. Abiti consunti dall’uso, passati per un  numero indefinito di mani prima di arrivare fin qui. Anche Miriam, terminata la “rappresentazione”, compare tra le baracche con una gonna azzurra che le arriva quasi alle caviglie e una camicia chiara. In testa ha una parrucca corvina di capelli finti, diritti e ispidi: è molto più bella con i suoi ricciolini naturali cortissimi che ne accentuano la rotondità del capo ma, come altre ragazze africane, le piace pagare questa specie di “tributo alla modernità” o a presunti “canoni” europei. Anzi, si pavoneggia un po’.

Nel piccolo abitato il livello di vita non cambia molto rispetto a quello mostrato nel villaggio tradizionale. Un uomo sui 40 anni spinge la sua unica mucca al pascolo verso una radura della foresta. Una donna rientra dalla macchia trascinandosi dietro un carico di rami secchi da ardere, l’unico combustibile che hanno, come cent’anni fa. Una ragazza si dà da fare davanti a un fuoco sul quale è sistemata una pentola annerita dal fumo. Sciami di bambini dappertutto: la scuola è chiusa per le vacanze estive. Si trova, la scuola, nel villaggio vicino, accanto alla casermetta e alla stazione di controllo della polizia veterinaria. E’ lì anche il pozzo, sormontato da un’alta pompa a vento: i rifornimenti d’acqua arrivano a forza di taniche e bidoni, trasportati da un vecchio pick-up fuoristrada, che sembra stare insieme per miracolo. Un ragazzo sosta appoggiato a quel suo pick-up, con il quale, quando capita, accompagna al villaggio i turisti che arrivano al posto di blocco sulla strada sterrata: “Il motore va ancora bene – assicura – Il problema è la carrozzeria”. Lui, Samuel, è uno dei pochi fortunati: portando avanti e indietro i turisti riesce a cavarsela. Non sono molti, in realtà, i visitatori. Lui ne intercetta due o tre per volta. Non tutti i giorni. A otto dollari americani a viaggio per passeggero tra andata e ritorno, però, è già qualcosa. “Diciamo – racconta – che in un mese, quando va bene, posso arrivare di media fino a 200 dollari netti, tolte le spese per la benzina”. Non è molto in assoluto, ma è un tesoro rispetto ai contadini che strappano la vita nei villaggi della zona coltivando fazzoletti di terra a mais, miglio o sorgo. Ed è molto di più di quanto riescano a guadagnare i giovani che lasciano il villaggio per andare a lavorare a Grootfontein, il centro urbano più vicino, o in altre città.

Non sono tantissimi, in realtà, quelli che tentano l’avventura lontano dal villaggio, anche se stanno aumentando. Fanno i mestieri più disparati: addetti ai distributori di benzina, commessi, manovali, personale di servizio presso le famiglie dei bianchi o in qualche ristorante e lodge per turisti. Qualcuno tenta di entrare nella polizia o nell’esercito. Il salario è poca cosa. Una commessa o un operaio guadagnano intorno ai 100 dollari americani al mese e spesso a quelle di lavoro devono aggiungere ore di cammino dal villaggio fino al negozio o al cantiere, perché i trasporti pubblici sono scarsissimi e costosi: usandoli ogni giorno se ne andrebbe un terzo dello stipendio. La maggior parte, così, dopo un po’ si trova una sistemazione in città, quasi sempre con l’aiuto di parenti o amici, tornando a casa sempre più raramente.

“E’ un flusso in crescita – dice Miriam – Una tendenza che rischia di spopolare a poco a poco i villaggi. Per questo credo sia importante il progetto di conservazione della nostra cultura tradizionale, che stiamo attuando anche grazie al turismo di persone sensibili ai valori della ‘diversità’ e, dunque, alla battaglia che noi San e altre tribù stiamo conducendo”. Non è un caso che a sostenere questo programma siano diversi giovani San che, dopo la scuola primaria, hanno continuato a studiare, trasferendosi in città ma decisi a tornare nei villaggi dopo il diploma: sono loro a dar vita alle cooperative che gestiscono il “turismo responsabile” nella regione. I ragazzi che riescono ad andare alle superiori, tuttavia, non sono tanti. E’ un problema di costi: la scuola è obbligatoria e gratuita solo sino alle elementari, poi, per chi vuole proseguire, le spese sono tutte a carico della famiglia. Parecchi di loro, poi, finiscono per tagliare i ponti con il villaggio. Ma c’è chi raccoglie la sfida di tornare “a casa” per “spendersi” tra la sua gente: maestri, addetti alle cooperative, guide, impiegati nei piccoli musei…

“A casa” guadagnano pochissimo. Tanto più che il costo della vita in Namibia è tra i più elevati dell’Africa: una birra costa un euro; una coca cola da 50 a 75 centesimi; un pasto frugale in un ristorante intorno agli 8 euro. Poco rispetto ai prezzi europei ma un’enormità per chi non arriva a racimolare 100 dollari al mese. Tutto è commisurato sul reddito della minoranza bianca, che è appena il 6 per cento scarso della popolazione ma controlla quasi l’intera ricchezza del Paese. Già, la Namibia è un paese ricco. Uno dei più ricchi dell’Africa. L’industria mineraria è tra le più importanti del pianeta, con il primato continentale assoluto per l’esportazione di minerali non combustibili: uranio (quinto produttore mondiale), diamanti, zinco, piombo, argento, ferro, tungsteno. Il reddito pro capite supera di sei volte quello dei paesi africani più poveri. Solo che c’è una disuguaglianza enorme nella distribuzione del benessere: più della metà dei due milioni di namibiani risulta sotto il livello di povertà. Sono i bianchi a gestire le miniere, il commercio, il turismo e non di rado i capitali prodotti da queste attività, anziché essere reimpiegati in Namibia, vengono investiti all’estero.

E’ come se ci fossero due Namibie: quella dei bianchi e dei pochi neri che “ce l’hanno fatta” (magari attraverso la politica) e quello della massa dei poveri, con una disoccupazione enorme e salari mensili che non bastano nemmeno a pagarsi due notti in un buon hotel a Swakopmund, il piccolo gioiello coloniale tedesco sull’Atlantico, rimasto un’enclave europea. E’ una eredità del regime di apartheid in vigore fino all’indipendenza e che ha creato un divario enorme tra ricchi e poveri. “L’apartheid è finita nel 1990, quando l’ultimo soldato sudafricano se ne è andato – dice Samuel, il ragazzo del pick-up – Soltanto l’apartheid politica, però. Perché quella economica e sociale è rimasta. I bianchi sono ancora padroni di tutto quello che conta mentre noi siamo in miseria. I nostri salari sono così bassi perché l’economia si basa proprio sul costo irrisorio della manodopera. Con la guerra d’indipendenza, durata dal 1966 al 1990, abbiamo raggiunto un primo traguardo. Ora dobbiamo eliminare le enormi differenze nella distribuzione della ricchezza, che creano di fatto una nuova apartheid. Sarà una battaglia lunga, ma è già iniziata”.


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