E’ un coro. Stampa, televisioni, politici, istituzioni, governo: tutti a dire che l’Italia, in prima linea e da sola, sta salvando migliaia di migranti, in maggioranza profughi e richiedenti asilo. Si è aggiunta anche la voce del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per esaltare, in particolare, la nostra marina militare che, con l’operazione Mare Nostrum, soccorre decine di barconi che arrancano verso la Sicilia, carichi di una umanità disperata. Dall’inizio dell’anno, in effetti, è un susseguirsi di sbarchi: si è già a oltre 60 mila arrivi e tutto lascia credere che entro dicembre saranno intorno a centomila. Tanti: il triplo rispetto al 2013 e circa il doppio del 2011, considerato finora l’anno record a causa delle crisi esplose nel Nord Africa dopo le “primavere arabe”.
Non c’è dubbio: a Mare Nostrum devono la vita migliaia di uomini, donne, bambini. L’operazione, tuttavia, era stata concepita con scopi e criteri diversi: le migliaia di salvataggi effettuati appaiono quasi un effetto collaterale non previsto. O, comunque, non previsto certo in queste dimensioni. Il progetto, deciso sull’onda dell’emozione per la tragedia di Lampedusa, è nato infatti come strumento di contenimento e di dissuasione contro i “clandestini del mare”, con l’obiettivo più o meno esplicito di interrompere o almeno limitare le partenze dalla Libia di “barche a perdere” cariche di migranti. Contando anche sulla collaborazione del governo di Tripoli. Una sorta di barriera difensiva. Lo testimoniano le ripetute dichiarazioni del ministro dell’interno Angelino Alfano, il quale ha sempre parlato di “tutela delle frontiere”. “Uno Stato che non sa difendere i propri confini – è arrivato a dire – non è uno Stato degno di questo nome…”. Solo che la situazione è sfuggita di mano. In Libia non ci sono ormai “autorità” di governo affidabili, alle quali fare riferimento, mentre si è moltiplicato il numero di profughi presenti nel paese che, abbandonati in balia dei trafficanti di uomini, sono pronti a imbarcarsi su qualsiasi rottame sia in grado di galleggiare. Su vecchi pescherecci o su gommoni malandati che poi, intercettati dalle numerose navi militari italiane che incrociano nel canale di Sicilia, non possono ovviamente non essere soccorsi. Come prevedono le norme internazionali e, va detto, con impegno e dedizione da parte degli equipaggi di Mare Nostrum.
Stampa e politici si soffermano spesso su queste storie di salvataggi, dilungandosi in tutti i particolari: dalla prima richiesta di aiuto agli interventi in mare aperto, dalle cure prestate a bordo delle navi allo sbarco in Sicilia. Già, fino allo sbarco. Ecco: dallo sbarco in poi, su quelle migliaia di fuggiaschi cala il silenzio. Anche quando si tratta di ragazzini minorenni arrivati da soli. E’ una strana storia: fino alla banchina del porto i profughi sono sotto i riflettori, un attimo dopo scompaiono. Quasi nessuno ne parla più. Se ne occupano poco i giornali. Non se ne occupano quasi per niente i politici e le istituzioni. Non si dice che, da quando mettono piede in Italia, quei giovani costretti a fuggire dal proprio paese precipitano in un secondo girone infernale, dopo quello vissuto sotto le violenze dei trafficanti di uomini e il ricatto di miliziani fanatici o di poliziotti corrotti, durante il viaggio nel deserto e la traversata del Mediterraneo. Non se ne parla forse perché anche solo accennarne cancellerebbe immediatamente quella immagine di “italiani brava gente” che si cerca di trasmettere con i soccorsi di Mare Nostrum, contrapponendola alla “insensibile Europa”. E denuncerebbe tutte le enormi carenze e ingiustizie del nostro sistema di accoglienza per i migranti. Una realtà inconfessata per la quale cominciano ad esplodere proteste e vere e proprie sommosse. Per tacere del numero crescente di giovani profughi che, vinti dalla disperazione, decidono di farla finita per sempre.
Qualche esempio. I centri di prima accoglienza (Cpa) dovrebbero ospitare i rifugiati solo per pochi giorni, giusto il tempo di rifocillarli e identificarli, per poi avviarli verso strutture teoricamente più adeguate, i centri di assistenza per richiedenti asilo (Cara). Accade invece che la permanenza si prolunga per mesi e mesi: attese snervanti, in un limbo senza “risposte” e senza tempo e, per di più, in complessi affollati all’inverosimile, non attrezzati per lunghi soggiorni, con servizi insufficienti o addirittura quasi inesistenti. Basti ricordare quanto è accaduto per anni al Cpa di Lampedusa, chiuso soltanto dopo lo scandalo provocato dalle immagini “rubate” con un telefonino e trasmesse dal Tg-2: giovani nudi messi in fila e irrorati di disinfettante. Senza alcun rispetto per la loro dignità. Come in un lager.
Per chi riesce ad arrivare ai Cara non va meglio: strutture improvvisate, del tutto insufficienti, invivibili, sempre isolate e lontane dai centri urbani. Quasi una prigione, dove i giornalisti non possono entrare per documentare cosa vi accade davvero. E i tempi di attesa sono ancora più lunghi: c’è chi vi è rimasto confinato per oltre un anno prima che la sua richiesta di asilo fosse esaminata ed accolta. Sempre senza alcuna spiegazione. Un muro di silenzio. Anche per chi può dimostrare di avere in Europa parenti disposti ad aiutarlo e ad accoglierlo. Come è accaduto nel dicembre scorso, sotto Natale, a un diciottenne eritreo, trovato impiccato nel Cara di Mineo, in Sicilia. E’ una storia emblematica. Quel ragazzo aveva due sorelle, una in Svizzera e l’altra in Svezia, pronte a prenderselo in casa. Lui aveva inoltrato la domanda di ricongiungimento familiare, bussando a tutte le porte. Nessuno gli ha dato ascolto. Fino a che, abbandonato per otto mesi nel nulla di quel campo dove la vita è impossibile, ha deciso di togliere il “disturbo”. Quando un compagno lo ha visto esanime non c’era più nulla da fare.
Un gesto di protesta estrema. Pochi però ne hanno parlato. Una notiziola nelle pagine interne di qualche giornale e tutto è finito lì. Dimenticato. Mentre al Cara di Mineo non è cambiato nulla. Anzi, ora probabilmente, con tanti nuovi arrivi, va anche peggio. Come in tutti gli altri Cara sparsi in Italia. Basti ricordare il caso della stessa Roma, dove negli ultimi mesi il Cara, situato nell’hinterland, a Castelnuovo di Porto, è stato al centro di tre episodi drammatici. Prima la piena del Tevere, che ha inondato l’intero complesso, allagando il piano terra e portandosi via le povere cose dei profughi. Poi, due rivolte, la seconda appena una settimana fa, con tanto di blocco della via Tiberina e cariche della polizia.
L’inferno continua anche per chi finalmente esce dai Cara, con il riconoscimento di una forma di protezione internazionale: status di rifugiato, tutela umanitaria, ecc. Da quel momento si è in regola a tutti gli effetti, con tanto di permesso di soggiorno e documenti di viaggio. Ma esattamente dal momento in cui i profughi si lasciano alle spalle i cancelli dei Cara, l’Italia si disinteressa totalmente di loro: se ne è assunta la tutela ma li consegna al nulla. Non sanno dove andare, dove e come trovare una casa e un lavoro. In una parola, come e dove poter vivere. Diventano “non persone”, invisibili che finiscono per popolare vecchi plessi abbandonati, ruderi, baraccopoli: disperati esposti a mille rischi, regalati al lavoro nero e allo sfruttamento e tra i quali cerca di trovare manovalanza anche la criminalità.
Roma ne è piena. Oltre 1600 in un palazzone della Romanina, uno scandalo finito in prima pagine sull’Herald Tribune e poi ripreso dalle principali testate giornalistiche europee e americane; mille e passa in un altro edificio invaso al Collatino; tra 400 e 450 nel palazzo occupato mesi fa in piazza Indipendenza, nel cuore della città; almeno 300 nella baraccopoli di Ponte Mammolo, sull’Aniene. Senza contare vari altri piccoli insediamenti sparsi. Un fiume enorme di umanità ignorata ed emarginata. Sono gli stessi uomini e donne per i quali ci si è commossi quando sono stati soccorsi nel canale di Sicilia, sui barconi a perdere. Ora, però, nessuno si commuove più o se ne preoccupa. Spesso, anzi, se ne parla con fastidio o addirittura con ostilità. Sono gli stessi di prima, ma sono visti come “l’altro”, il “diverso”.
“Il fatto è che vengono tutti in Italia: sono tanti, troppi”, è una delle giustificazioni ricorrenti. Non è così. Certo, sono tanti, ma non più di quanti ce ne siano negli altri paesi europei. Al contrario. Nel 2011, a fronte dei 60 mila arrivi in Italia, ad esempio, la Grecia ne ha registrati 100 mila circa, nella stragrande maggioranza dalla Siria. Ancora più significativa l’ultima relazione del Commissariato dell’Onu, pubblicata nel 2013, sul numero di profughi ospitati nei paesi europei: in Italia risulta un rifugiato (1,07 per l’esattezza) ogni mille abitanti (in totale, 64.779), una proporzione che è meno della metà di quella del Regno Unito (2,37) e ancora più bassa rispetto a quelle della Francia (3,28) e dell’Olanda (4,63). Per non dire della Germania (7,07) e della Svezia, con ben 9,67. I dati si riferiscono al 2012 ma nel 2013, stando alle prime indicazioni, il rapporto è rimasto sostanzialmente identico, né sembra possa cambiarlo di molto, viste le cifre di partenza, il flusso registrato nella prima metà di quest’anno. In più, come rilevano numerose associazioni umanitarie, in tutte queste nazioni europee non è nemmeno ipotizzabile una situazione infernale come quella dei centri di accoglienza italiani. I quali, tra l’altro, hanno costi elevatissimi: spese per milioni di euro l’anno a fronte di un trattamento inaccettabile, come confermano le proteste esplose anche in questi giorni. Al punto da alimentare il sospetto che il “sistema Italia” serva soprattutto a chi è incaricato di assicurare l’assistenza più che agli “assistiti”, a chi è il destinatario di questa “assistenza”.
Il problema di fondo, allora, è cambiare la politica dell’accoglienza. Istituendo, dai paesi di transito o prima sosta, corridoi umanitari per l’emigrazione legale, in modo da sottrarre i fuggiaschi al ricatto dei trafficanti di uomini per attraversare il Sahara e il Mediterraneo. E adottando un sistema comune in tutta l’Europa, sul modello degli Stati più virtuosi. Con una distribuzione equa ed equilibrata in ogni nazione dell’Unione, ma comunque sempre tenendo conto che chi fugge da guerre e dittature, da galera e persecuzioni per motivi politici, religiosi o razziali, ha il diritto di essere accolto e aiutato.
Alla Ue sta per iniziare il semestre italiano. Se davvero il nostro Paese vuole voltare pagina sulla tragedia dei profughi, è l’occasione migliore. Non ne avrà altre così favorevoli e importanti.
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