“Arrivano con ancora il sale addosso. Gli stessi abiti della traversata, segnati di sudore e acqua di mare. Sono stremati dalla fatica e dalla paura di essere rintracciati, costretti a farsi identificare e, dunque, a restare in Italia. Quasi tutti africani. In maggioranza eritrei ma anche somali, sudanesi, qualche etiope”.
Daniela D’Angelo, il medico volontario che guida lo staff sanitario di “Cittadini del mondo” a Palazzo Selam, la “città invisibile” dei profughi alla Romanina, dipinge in poche parole uno degli aspetti più drammatici dei continui arrivi di rifugiati in Italia. Sottolinea come, subito dopo lo sbarco, centinaia, migliaia di migranti preferiscano continuare la fuga anche in Italia piuttosto che finire negli ingranaggi del nostro sistema di accoglienza. Questo sistema assurdo che si mobilita per prestare soccorso in mare ma poi, a terra, abbandona nel nulla i disperati che ha salvato, avviandoli a ingrossare le schiere di “non persone” che popolano sempre più numerose le nostre periferie. Uomini e donne senza diritti, esposti a ogni rischio, regalati allo sfruttamento, al lavoro nero o, peggio, talvolta alla criminalità.
Il palazzo autogestito a ridosso del grande raccordo anulare, nella zona sud di Roma, è diventato un punto di riferimento per i profughi sbarcati in Italia che vogliono sottrarsi a un futuro da “ombre”. In Africa, nei campi di prima sosta sparsi in Etiopia e in Sudan, lo conoscono tutti. Molti hanno parenti o amici che ci abitano o vi sono stati più o meno a lungo. Così, appena mettono piede sulla costa italiana, in tanti puntano direttamente lì, scappando prima di essere registrati, rifiutando di farsi prendere le impronte digitali, approfittando della ressa nei centri di soggiorno per filtrare tra le maglie della sorveglianza. Sanno che alla Romanina possono contare su un aiuto sicuro. Tacito, precario, fatto di piccole cose, ma sicuro.
Arrivano con ogni mezzo. Si dice che ci sia addirittura un servizio di pullman diretto dalla Sicilia a Roma utilizzato in pratica solo dai profughi in fuga: si paga, si sale e nessuno ti fa domande. “L’altro giorno – racconta un volontario – ne sono arrivati addirittura due di pullman. Stracarichi. Un centinaio di persone. Quella è stata una giornata record: circa 150 arrivi. Ma è un flusso continuo, senza fine”. Più di qualcuno sceglie il treno: viaggia con i vecchi intercity o gli interregionali, che costano di meno e dove non c’è bisogno di prenotazione con nome e cognome. Altri si affidano a mezzi di fortuna. Qualcuno si è fatto tutta la strada a piedi. “Soltanto questa mattina – dice un altro volontario – ne ho visti presentarsi alla spicciolata una trentina. Sono entrati con discrezione nel cortile del palazzo, trascinandosi dietro fagotti o piccoli zaini, accompagnati o accolti da alcuni amici”.
Vengono sistemati nel seminterrato o al primo dei sette piani dell’edificio in vetro-cemento, già strapieno. Trovano un giaciglio dove riposare, qualcosa da mangiare, bagni, docce. Un clima di solidarietà. E una visita medica assicurata dall’equipe sanitaria di “Cittadini del mondo”, che ha allestito un ambulatorio aperto a tutti ogni giovedì pomeriggio. “Molti però – spiega uno dei volontari – preferiscono non aspettare il medico. Hanno fretta: si fermano solo qualche giorno, quattro o cinque al massimo. Gli basta essersi riposati un po’. In Italia non vogliono restare: hanno in mente paesi come la Germania, la Svizzera, l’Olanda, la Svezia…”.
Quei quattro o cinque giorni di sosta a Roma, nel totale anonimato, spesso senza neanche uscire da Palazzo Selam, servono anche per mettersi in comunicazione con conoscenti e familiari residenti in altre nazioni europee e disposti ad accoglierli o almeno ad aiutarli. Poter disporre di un contatto di questo tipo spesso si rivela un fattore decisivo. In ogni caso, ripartono subito: lasciare al più presto l’Italia ed eludere i controlli è essenziale per poter chiedere asilo altrove, aggirando le norme del trattato Dublino II, in base alle quali ogni rifugiato deve stabilirsi nel primo Stato dell’Unione al quale si rivolge per ottenere una qualunque forma di protezione internazionale. Non altrove. “Ora sono diventati esperti – fa notare Kibrom, un giovane eritreo che vive a Roma da oltre cinque anni – Stanno attenti a non lasciare tracce del loro passaggio in Italia e comunque nessuno si tradisce più per un’inezia o una ingenuità, come è accaduto a un mio amico in Olanda, che si è fatto scoprire perché, mentre giurava alla polizia di non essere mai stato in Italia, indossava un giubbino con la sigla di un Centro di accoglienza siciliano”.
Alì è il “sindaco” della comunità africana di Palazzo Selam: presiede il comitato di autogestione che viene rinnovato periodicamente con elezioni interne alle quali ogni inquilino può partecipare. “Noi cerchiamo di offrire tutto l’aiuto possibile – spiega – E’ un fatto di solidarietà umana. Accogliamo questi nostri fratelli al meglio che possiamo, li ospitiamo, diamo loro qualche indumento perché spesso hanno solo la maglietta e i pantaloni che indossavano allo sbarco. Se c’è qualcuno che ha bisogno di cure informiamo i medici che ci aiutano. E’ preziosa, per tutto questo, l’opera dei volontari italiani. Nessuno dei nuovi arrivati, però, intende stabilirsi qui: vogliono tentare di ricostruirsi una vita in altri paesi europei. Non in Italia”.
I portavoce di “Cittadini del mondo” spiegano senza mezzi termini le ragioni di questa volontà di andarsene al più presto: “Tutti conoscono il tipo di accoglienza che c’è in Italia. Palazzo Selam ne è un po’ l’emblema. O meglio: uno dei risultati. I profughi che arrivano alla Romanina sanno che, rimanendo a Roma, al massimo potranno passare dal seminterrato dell’edificio a uno degli altri piani, dove vivono alla meglio da anni i loro amici, bloccati qui dalle norme di Dublino II e costretti loro malgrado a diventare ‘precari a vita’ ai quali non è concesso nulla: non una vera casa, non un lavoro in regola, persino non una residenza ufficiale. Lo Stato li ha accolti, gli ha concesso il permesso di soggiorno come richiedenti asilo o comunque una garanzia di protezione e poi li ha abbandonati a se stessi. Ecco perché non vogliono essere identificati e talvolta scoppiano vere e proprie sommosse allo sbarco per sottrarsi all’obbligo di registrare le impronte digitali. Ecco perché scappano e non vogliono lasciar traccia di sé. Ecco perché per loro Palazzo Selam è solo una breve tappa della fuga verso l’Europa. Ecco perché, una volta arrivati qui, sono restii a fare dichiarazioni e si rifiutano assolutamente di farsi fotografare. Per loro è essenziale passare inosservati: sparire del tutto per ricomparire poi altrove, dove il sistema di accoglienza è più efficiente e umano ed offre possibilità concrete di integrarsi”.
E’ difficile pensare che la polizia non sia a conoscenza di questi “itinerari segreti”. Quello che conduce alla tappa di Palazzo Selam ma anche altri simili che passano da realtà come la Romanina (solo a Roma ci sono tre altri grandi siti “spontanei” occupati da centinaia di profughi) o magari si basano su una rete di solidarietà più minuta, attraverso parenti e amici. “Probabilmente la polizia lo sa – suppone un collaboratore dell’agenzia Habeshia che segue da anni il dramma dei rifugiati e dei migranti – ma fa finta di nulla. Vien quasi da sospettare che ci sia una disposizione ufficiosa di ‘chiudere un occhio’ per bypassare Dublino II, consegnando così di fatto all’Europa quanti più profughi possibile delle migliaia che continuano a sbarcare in Italia. Come una tacita valvola di sfogo…”.
Proprio la costante rotazione dei fuggiaschi provenienti dalla Sicilia consente a Palazzo Selam di non “esplodere”. Gli ospiti sono attualmente circa 1.500: oltre 1.200 gli “stanziali” (con un aumento medio di un centinaio l’anno) e almeno 300 “provvisori”, migranti che arrivano e al più se ne rivanno nel giro di una settimana, subito sostituiti da altri. Senza questo puntuale “ricambio” la situazione sarebbe precipitata da tempo. Totalmente fuori controllo. Già adesso, del resto, i problemi sono enormi. L’autogestione che i profughi sono riusciti a organizzare è un esempio di efficienza e tolleranza reciproca: gli spazi sono stati divisi equamente, tenendo conto per quanto possibile delle esigenze di tutti; ci sono orari e regole da rispettare, servizi da assicurare a turno, riunioni periodiche per confrontarsi e discutere sulle decisioni da prendere nell’interesse comune. “Qui vivono giovani di etnie, religioni ed idee diverse – fa notare un volontario – ma non si è mai verificato un contrasto serio, mai uno scontro”. Ci sono questioni, però, che da soli profughi e volontari non possono risolvere. La manutenzione dell’edificio, ad esempio. Dopo otto anni di occupazione, la struttura, nata per ospitare uffici, avrebbe bisogno di lavori importanti, a cominciare dal rifacimento dei servizi. I migranti, aiutati da “Cittadini del mondo”, si sono dati da fare con piccoli interventi. Ad esempio portando a 55 i bagni e a 36 le docce oggi disponibili. “Quello che abbiamo potuto realizzare finora – spiega però un ingegnere edile che fa parte dell’associazione – è ormai poca cosa rispetto al restauro generale che servirebbe. Ma con le nostre forze soltanto e con così tanta gente ospitata, dal seminterrato al settimo piano, è impossibile farcela. Dovrebbero intervenire le istituzioni…”.
Un altro problema enorme è quello della residenza. Dei 1.200 ospiti “stanziali”, molti dei quali abitano lì da anni, solo duecento risultano ufficialmente residenti a Palazzo Selam, in via Arrigo Cavaglieri 8, alla Romanina. Tanti figurano ancora nei Centri di accoglienza da cui provengono. La maggioranza è stata virtualmente “presa in carico” a suo tempo dal primo Municipio. Per più di qualcuno la pratica si è persa in qualche meandro della burocrazia. “E senza residenza – fa notare Raffaella, che si occupa dei contatti esterni e in particolare con il Municipio Roma 7 e le altre istituzioni locali per conto di “Cittadini del mondo” – i profughi sono in pratica tagliati fuori da tutti i servizi di base: assistenza sanitaria e sociale, asilo e scuola per i bambini, corsi di italiano… Diventano difficilissime anche cose in apparenza di routine, come rinnovare i documenti scaduti. In una parola, è impensabile ogni forma di integrazione. Sono come mille fantasmi: la burocrazia non li ‘vede’. Anzi, per la burocrazia non esistono e, dunque, nessuno se ne può far carico. Non dovrebbe essere difficile per il Campidoglio trovare una via d’uscita. Invece sono anni che sbattiamo contro un muro di gomma”.
E’ chiaro, allora, che la soluzione vera può arrivare solo dalla politica. Ma è proprio la politica a latitare. O addirittura a creare ostacoli. Comune, Regione e Governo conoscono bene realtà come quella di Palazzo Selam ma finora si sono defilati. Dimenticati anche gli impegni presi in più occasioni. Come quelli del gruppo di parlamentari che qualche mese fa ha ispezionato l’edificio. O come quelli dell’allora ministro degli interni Anna Maria Cancellieri la quale, sull’onda dello scandalo suscitato a livello internazionale da una inchiesta pubblicata in prima pagina dall’Herald Tribune, promise solennemente di intervenire in modo rapido e radicale. Era l’epoca del governo Monti. Sono passati anni, ci sono state nuove elezioni e si sono succeduti altri due governi, prima con Letta premier ed ora con Renzi. Non è cambiato nulla. Anzi, va peggio di prima: con il decreto Lupi, che nega la residenza a chi vive in stabili occupati, per i 1.200 inquilini di Palazzo Selam si apre un buco nero senza fondo. Inclusi i duecento che in qualche modo la residenza l’hanno ottenuta. E non è una situazione isolata: accade lo stesso per migliaia di altri rifugiati che, in mancanza di alternative, sono stati costretti a invadere edifici e case abbandonate, magari poco più che ruderi. Eppure nessuno in Parlamento, neanche tra i deputati prodighi di promesse, ha sollevato il problema di uno Stato schizofrenico il quale, dopo aver accolto migliaia di migranti come richiedenti asilo, fa di tutto per trasformarli in un popolo di “invisibili”
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