Un giovane eritreo è stato trovato impiccato in una sala del centro di detenzione per stranieri di Aarau, nel cantone di Argovia. Era in procinto di essere espulso verso l’Italia. Si trovava in Svizzera per la seconda volta. In possesso di un permesso di soggiorno italiano, era già arrivato nella Repubblica Elvetica circa due anni fa ma, dopo un controllo dei documenti aveva accettato di essere inviato a Roma. Era il marzo del 2013. Nello scorso mese di agosto, nonostante il divieto di “entrata”, è ritornato. Fermato, identificato e condotto al centro di Aarau, era in attesa che le autorità argoviesi formalizzassero la sua seconda espulsione. Questa volta non ce l’ha fatta a sopportare la prospettiva di un rinvio in un paese dove non voleva vivere e nel quale aveva trovato solo indifferenza, ostilità, negazione di fatto dei diritti che a parole gli erano stati riconosciuti con il rilascio del permesso di soggiorno. Non ce l’ha fatta al punto che ha preferito farla finita per sempre. Aveva solo 29 anni.
Questa tragedia rischia di essere soltanto all’inizio. Ci sono centinaia, migliaia di immigrati, in gran parte eritrei come quel giovane, che vivono con la paura di essere scacciati dalla Svizzera verso l’Italia. Per 600 di loro è già stato firmato o è in corso di istruttoria il decreto di espulsione. Numerosi altri se ne stanno aggiungendo via via che vanno avanti i controlli di polizia. Si tratta per lo più di giovani, uomini e donne, sbarcati in Italia e che sono riusciti in qualche modo a varcare il confine svizzero per presentare a Berna e non a Roma la richiesta di asilo. Appare evidente che si è messa in moto una politica di forte “restringimento” o addirittura di chiusura nei confronti dei profughi. Lo stesso sta accadendo in tutta Europa. Dalla Francia in questi ultimi mesi sono stati rimandati in Italia oltre 3 mila migranti; dall’Austria, dai primi di luglio a metà settembre, almeno 2.100, mentre sono stati intensificati i controlli al Brennero, al Tarvisio, in tutti i valichi di frontiera. Iniziative o comunque scelte analoghe sono annunciate dalla Germania, dove a più riprese e da più fonti si è cominciato a dire che il Paese non può assorbire altri rifugiati. Una chiusura ancora maggiore manifesta il Regno Unito e sintomi di “malessere” cominciano ad avvertirsi persino nell’ospitalissima Svezia.
E’ scattata, intanto, Mos Maiorum, la gigantesca retata europea di polizia che ha mobilitato ben 18 mila agenti, sotto la direzione del Viminale in virtù del semestre italiano alla guida della Ue, per fermare, controllare, identificare, schedare i migranti irregolari e i richiedenti asilo. Non è stato specificato quale sarà la sorte degli “schedati”. L’obiettivo dichiarato dell’operazione è di risalire alle organizzazioni criminali che gestiscono i canali di immigrazione clandestina. Ma non si è mai visto che per individuare i carnefici si colpiscano prima di tutto le vittime. La realtà più plausibile è che i vari Stati europei vogliano disfarsi del maggior numero possibile di “indesiderabili”. Come? Rispedendoli lì da dove sono venuti. Verso l’Italia, innanzi tutto, dove moltissimi di loro si sa o si sospetta che siano sbarcati. E l’Italia, dopo aver chiuso furbescamente gli occhi per mesi e anni, ora è costretta a fare i conti con le norme del trattato di Dublino, in base alle quali i profughi vanno presi in carico dal primo paese dell’Unione Europea al quale rivolgono la richiesta di asilo o comunque di una forma di protezione internazionale.
Forse, anzi, questa linea dura adottata in gran parte degli Stati europei vuole essere, innanzi tutto, proprio un monito contro Roma: la contestazione al governo italiano che alla sua apprezzabile, giusta “politica” di soccorso in mare nei confronti dei migranti fa poi riscontro una totale indifferenza verso quegli stessi migranti i quali, una volta portati in salvo e sbarcati, vengono abbandonati a se stessi, fingendo tra l’altro di non vedere che moltissimi fuggono dalla penisola per raggiungere altre nazioni comunitarie. Il più esplicito, in proposito, è stato il ministro degli interni bavarese Joachim Herrmann, il quale ha apertamente accusato l’Italia di ignorare le leggi sui rifugiati per non farsene carico e “permettere loro di chiedere asilo in un altro paese”. Solo che a restare stritolati in questo braccio di ferro sono innanzi tutto i rifugiati. La parte più debole e incolpevole. Si profila così, al di là degli atti formali, una enorme ingiustizia sotto il profilo etico-morale: la consegna di migliaia di disperati a un sistema di accoglienza, quello italiano, che di fatto condanna sempre più spesso questi esuli a vivere in una condizione da “invisibili” senza diritti, senza casa, senza lavoro: braccia consegnate ai caporali e allo sfruttamento.
A fronte di questa prospettiva cominciano a levarsi diverse voci per chiedere quanto meno una pausa di riflessione. Lo ha già fatto don Mussie Zerai a nome dell’agenzia Habeshia; si accingono a farlo il Comitato “Giustizia per i nuovi desaparecidos”, diverse organizzazioni umanitarie e di assistenza; si stanno muovendo Barbara Spinelli e altri europarlamentari. L’idea guida, nella prospettiva medio-lunga, è quella di arrivare a un sistema unico di accoglienza, accettato e condiviso da tutti i paesi dell’Unione Europea, cancellando al più presto le strettoie del trattato di Dublino ed eliminando storture come quella del sistema italiano. Nell’immediato, intanto, potrebbero essere sospesi tutti i procedimenti e le pratiche di espulsione in atto. Precedenti per giustificare anche legalmente questa scelta non ne mancano. Due in particolare appaiono significativi: uno di questi giorni, l’altro del 2011.
Il primo è la condanna decisa il 21 ottobre di quest’anno da parte della Corte Europea per i diritti umani, nei confronti dell’Italia per la vicenda di 35 profughi bloccati e respinti dai porti di Ancona, Venezia e Bari, nel 2009, per essere consegnati alla Grecia. La Corte ha contestato all’Italia di aver proceduto ai respingimenti-espulsione, applicando rigidamente i criteri del trattato di Dublino, nonostante fosse ben a conoscenza del duro trattamento riservato in Grecia a profughi e migranti e delle pesanti condizioni di vita nei centri di raccolta per stranieri. Atene, a sua volta, è stata condannata appunto per la sua “politica” nei confronti degli immigrati, inclusa la prospettiva-minaccia di rimpatrio forzato nei paesi d’origine.
Ancora più importante il secondo precedente, noto come “caso” dei dubliners: dei rifugiati, cioè, vittime del trattato di Dublino. Nel 2011 (in particolare nel mese di novembre), ben 41 corti di giustizia tedesche hanno sospeso temporaneamente tutte le espulsioni verso l’Italia dei richiedenti asilo che avevano fatto ricorso alla magistratura. Si tratta di alcuni dei principali tribunali della Germania, tra cui Weimar, Francoforte, Dresda, Friburgo, Colonia, Darmstadt, Hannover, Gelsekirchen. Alla base delle varie sentenze è stato posto proprio il trattamento riservato dall’Italia ai richiedenti asilo. Trattamento documentato in un dossier costruito “sul campo” da parte di due avvocati difensori dei dubliners, dopo un viaggio fatto in varie città italiane per rendersi conto di persona della situazione e raccogliere una lunga serie di testimonianze, tutte concordi nell’asserire che Roma si limita ad assicurare solo formalmente lo status di rifugiato o altre forme di tutela internazionale, perché nel sistema di accoglienza mancano quasi totalmente programmi in grado di condurre a un reale processo di inclusione sociale e di reinsediamento.
Nell’uno e nell’altro caso si è ritenuto che andasse sospeso o comunque non applicato rigidamente il trattato di Dublino, che lega i rifugiati al primo paese Schengen al quale rivolgono la richiesta di asilo. Si è sospesa, cioè, la “legge formale” perché la sua applicazione si sarebbe risolta di fatto in una somma ingiustizia. Ora si chiede di ispirarsi a questo stesso principio. In nome dell’equità, dell’etica, della vita stessa di migliaia di giovani.
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