Una ventina di anni fa mi recai in visita, dopo anni di lontananza, al paese originario di mia madre, un piccolo borgo contadino del centro sud. Fui invitato a cena da mia cugina e suo marito, dopo un pasto eccellente a base di prodotti del posto, pasta fatta in casa, pollo da loro allevato, si scusò con me per la, secondo lui, inadeguata proposta gastronomica offertami, indegna di un ospite cittadino. Così mi promise che “La prossima volta ti prepariamo qualcosa di più moderno”, declinando euforico il nome di una allora celebre carne inscatolata.
La destrutturazione culturale, come quella subita dai miei parenti rurali, crea attraverso la pubblicità, intesa sia come messaggio promozionale commerciale che come modello comunicativo globale oggi attivo in tutte le forme di comunicazione, una svalutazione di un sistema culturale, come di uno economico e produttivo, a vantaggio di un altro. La cultura destrutturata dalla manipolazione pubblicitaria vive un momento di regressione, ponendosi in una condizione depressiva che scatena rancore, sofferenza, rabbia e idealizzazione positiva del modello culturale aggredente.
Nelle analisi psico-storiche del successo dell’ideologia nazista nella Germania degli anni Trenta si evidenzia come l’insieme della ferita narcisistica sociale derivata dalla sconfitta subita nella prima guerra mondiale, e il decadimento economico conseguente, abbia portato i tedeschi ad abbracciare l’ipotesi glorificante, il tentativo di cura della ferita, di un popolo superiore e invincibile proposta da Hitler.
Il narcisismo individuale tenta di ricomporre le inevitabili sconfitte del sé attraverso la creazione, momentanea o pericolosamente definitiva, di un sé idealizzato e potente, disprezzante gli altri che cerca di coprire la fragilità depressiva dell’io sconfitto. Lo stesso possiamo invocare a livello sociale, dove il sé sociale, una sorta di espansione culturale di quello individuale che appartiene alla struttura collettiva della psiche umana, in caso di crisi di un sistema culturale crea un sé grandioso che cerca oggetti da idealizzare, solitamente capipopolo manipolatori e narcisisti, e vittime su cui scaricare la rabbia. La stessa rabbia che oggi troviamo nelle periferie urbane dove miserabili italiani si scagliano contro miseri profughi e migranti, aizzati da extracomunitari della civiltà, fascisti, leghisti e marmaglia varia, che si pongono alla guida del riscatto delle ferite sociali subite.
Non ci vuole grande genio nel commentare tali fatti, come la nuova, ed emblematica in quanto efficace discriminante di razzismo anche tra i benpensanti di sinistra, caccia ai Rom. Infatti non serve accesa immaginazione nell’osservare che c’è chi coltiva la rabbia dei popolani, incialtroniti da modelli culturali egoistici e consumistici, con lo scopo di far crollare il quel rimasuglio di sistema solidale e collaborativo che ancora tiene in piedi questo paese.
Gli aggressori dei Rom e dei migranti sono gli stessi che con facce inebetite vagano negli androni dei centri commerciali sbavando ad ogni vetrina. Gli stessi che formano comitati nelle scuole dove far cacciare i bambini zingari per paura di contaminazione con i loro figli resi sempre più stupidi, fragili e immaturi da un’azione genitoriale ormai endemicamente incapace. Sono sempre quelli, o buona parte di loro, che partecipano alle fiaccolate contro l’insediamento di campi Rom che possono deprezzare i loro miserabili investimenti immobiliari. Sono ancora loro che non leggono i dati sulla criminalità che assegnano la stessa percentuale di delinquenzialità agli italiani e ai Rom, nonostante le diverse protezioni sociali ed economiche, che s’indignano perché, nonostante le loro nobili missioni appena descritte, “loro non s’integrano”.
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