MERCANTI DI MORTE SULLA FRONTIERA ERITREA-SUDAN  

Eritrea-SudanJohannes è un ragazzo di Asmara poco più che ventenne. Da diversi giorni è prigioniero da qualche parte nel sahel del Sudan, chiuso in una casetta in muratura, incatenato a una quindicina di giovani come lui. Lo ha preso una squadra di predoni poco lontano dal confine con l’Eritrea, mentre cercava di raggiungere Khartoum: se non riuscirà a pagare il riscatto preteso per rilasciarlo, rischia di sparire per sempre. Di diventare un altro delle migliaia di profughi “desaparecidos” morti o uccisi nel deserto, inghiottiti dal Mediterraneo, resi schiavi dalle organizzazioni criminali dei trafficanti di uomini.

La sua storia è stata raccontata dai familiari che, dopo averlo visto partire per il servizio militare, avevano poi saputo che, gettata la divisa come fanno migliaia di coscritti, era fuggito dalla dittatura di Isaias Afewerki. Johannes – ma il nome è fittizio, per evitare ritorsioni nei confronti dei parenti rimasti a casa – viene da una famiglia poverissima. Il padre è morto combattendo per la libertà dell’Eritrea contro l’Etiopia. Anche la madre ha preso parte alla resistenza ma il paese soggiogato dal regime di Afewerki dopo l’indipendenza, non è quello che sognava: è stata costretta a rifugiarsi in Uganda. Lui, da allora, ha sempre vissuto con la zia e i cugini. Finché è arrivata la chiamata alle armi. Si è presentato al reparto, ma non se la sentiva di servire come soldato una dittatura che ha vanificato il sacrificio di suo padre e costretto la madre a scappare. Così ha disertato ed è riuscito a varcare il confine con il Sudan. Sembrava fatta e invece è precipitato in un girone infernale.

A pochi chilometri dalla frontiera, lungo la strada che porta al campo profughi di Shakarab, è stato intercettato da una banda armata. Era insieme ad altri tre giovani, tutti sui 20-23 anni, tutti ex militari che avevano deciso di farla finita con l’esercito di Asmara. Non hanno avuto scampo: li hanno caricati su un pick-up e portati in un posto sconosciuto, una rustica costruzione isolata nel deserto, dove c’erano già alcuni ragazzi eritrei catturati in precedenza. Altri se ne sono aggiunti nei giorni successivi, fino ad arrivare ad una quindicina. A tutti i predoni hanno chiesto un riscatto: almeno 15 mila dollari subito a testa, se vogliono essere rilasciati.

Johannes ha contattato la zia in Eritrea. Ed è stata proprio la zia a dare l’allarme all’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai per la sorte che si profila per lui e per i suoi compagni. Ha raccontato che il nipote l’ha chiamata con il cellulare che gli hanno messo a disposizione i rapitori: “Vogliono 15 mila dollari. Per me è una cifra enorme: non ce la farò mai a metterla insieme, neanche vendendo tutto quello che ho e chiedendo aiuto a parenti e amici. Siamo tutti poveri…”. Ed ha aggiunto: “Johannes non riusciva quasi a parlare: piangeva e urlava dal dolore perché, mi ha detto, mentre telefonava lo picchiavano e lo torturavano, in modo da rendere più ‘convincenti’ le sue parole. Per farmi capire che non esiteranno ad ucciderlo…”. E’ la tecnica usuale di questi banditi: se la famiglia non ne pagherà la liberazione, i predoni venderanno Johannes ad un’altra banda e poi magari ad un’altra ancora. E ad ogni passaggio il prezzo del riscatto salirà, con la minaccia finale di metterlo a disposizione per il traffico di organi per i trapianti clandestini. Un destino analogo si profila per i suoi compagni.

Con Johannes è prigioniero, tra gli altri, un ragazzo ancora più giovane: non ha neanche vent’anni. E’ stato preso in un’altra retata dei trafficanti, sempre a pochi chilometri dalla frontiera. Ed anche lui è stato costretto a telefonare a casa per il riscatto. Il padre è disperato. E’ un anziano maestro elementare che guadagna meno di 20 euro al mese: non riuscirà mai a trovare i 15 mila dollari pretesi per salvare la vita al figlio. Ha chiesto aiuto ad Habeshia come ultima speranza, confermando che, come gli ha riferito il suo ragazzo, sono una quindicina i prigionieri della banda.

Tutto lascia credere, a questo punto, che la tragedia di questi 15 giovani sia solo un piccolo capitolo di una razzia di uomini molto più vasta: che siano decine e decine i profughi finiti nelle mani dei trafficanti, anche se i loro familiari non hanno ancora potuto o voluto darne notizia. Ovvero, che i mercanti di morte controllino ormai la linea di frontiera tra l’Eritrea e il Sudan e il retroterra lungo le strade che portano ai campi di accoglienza o verso Khartoum. E’ probabile che appartengano alle stesse bande, legate a organizzazioni internazionali del crimine, che per anni, nel Sinai, hanno sequestrato, ricattato, torturato e non di rado portato alla morte centinaia di migranti che, costretti a fuggire dai paesi del Corno d’Africa o dell’Africa sub sahariana, tentavano di raggiungere e varcare la frontiera tra Egitto e Israele. “La loro presenza ai margini del confine settentrionale eritreo – rileva Habeshia – appare la prosecuzione dello stesso business mafioso, giocato sulla vita di chi non ha altra alternativa che la fuga per sottrarsi a guerre, persecuzioni, galera, torture. L’unica differenza è che adesso le basi operative della varie bande sono in Sudan e non più nel deserto del Sinai. E che alle vecchie bande di predoni si sono aggiunti probabilmente gruppi di terroristi che fanno del traffico di uomini una lucrosa fonte di finanziamento”.

Gli indizi di questo trasferimento “operativo” sono emersi sempre più numerosi e concreti negli ultimi tempi. Una spinta decisiva è sicuramente arrivata dalla costruzione della barriera pressoché insuperabile e lunga centinaia di chilometri, che ha blindato la frontiera israeliana, ma non ha certamente posto fine al flusso crescente di profughi: lo ha solo spostato altrove e i trafficanti hanno seguito questo spostamento. I primi segnali si sono avuti con la presenza sempre più numerosa di emissari dei mercanti di morte intorno o addirittura all’interno dei campi profughi in Sudan: personaggi senza scrupoli che si propongono come intermediari per la traversata del Sahara verso la Libia o addirittura rapiscono nei campi stessi le loro vittime, per venderle poi alle varie bande organizzate. Ora si ha la certezza che questo sistema criminale si è insediato e ramificato in tutta la zona intorno ai confini con l’Eritrea e controlla di fatto sia la frontiera che il suo retroterra, intercettando e sequestrando un numero crescente di profughi. Senza che la polizia sudanese ne sappia nulla o che comunque intervenga.

Don Zerai chiede che la comunità internazionale si faccia carico di questa nuova catastrofe umanitaria. In particolare si rivolge al Sudan e all’Italia, che aspira a svolgere un ruolo guida per l’Europa nel Corno d’Africa. “E’  una logica di morte – afferma – alla quale bisogna porre fine al più presto, con ogni mezzo. Prima di tutto cercando di liberare e salvare quei ragazzi. E poi ‘bonificando’ dai trafficanti la fascia di confine con l’Eritrea, il suo hinterland e le zone limitrofe ai campi di accoglienza. Ecco perché chiediamo con forza al Sudan, all’Italia, all’Unione Europea, all’Unione Africana di intervenire subito per individuare e assicurare alla giustizia queste organizzazioni criminali. E’ già tardi: episodi come questo dei 15 ragazzi rapiti nei giorni scorsi confermano che le bande si sono radicate nel Sudan. Non risulta che se ne sia minimamente parlato nella riunione convocata alla metà di ottobre a Khartoum tra gli Stati del Corno d’Africa, con il viceministro Lapo Pistelli, per discutere di emigrazione. Eppure già allora i sintomi di quanto sta accadendo erano evidenti. Nei prossimi giorni, del ‘Processo di Khartoum’ si tornerà a dibattere a Roma, sempre sotto l’egida dell’Italia, anche in virtù del semestre di presidenza all’Unione Europea. Occorre che almeno in questa occasione la tragedia dei mercanti di morte che operano al confine tra Sudan ed Eritrea diventi un punto centrale della discussione, individuando tutti i possibili interventi – politici, diplomatici, militari, di polizia, di intelligence e giudiziari – da mettere in campo a livello nazionale e internazionale. E’ un passaggio essenziale: se verrà trascurato o anche soltanto sottaciuto, il ‘Processo di Khartoum’ non avrà alcun senso”.

 

 

 

 

 


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