Sono eritrei oltre il 25 per cento dei circa 66 mila profughi arrivati finora in Italia quest’anno. E il trend continua ad aumentare: nel 2014 sfioravano il 23 per cento. Perché scappano lo ha denunciato la Commissione d’inchiesta Onu sulla violazione dei diritti umani: oltre un anno di indagini ha prodotto un pesantissimo atto d’accusa contro la dittatura di Isaias Afewerki, sottolineando che il regime si regge sul terrore e la violenza e, di fatto, che l’Eritrea è diventata uno stato-prigione, dove regnano paura e sospetto; dove tutti i giovani, donne e uomini, sono schiavi di un servizio militare senza fine; dove ogni forma di dissenso è bandita; dove chiunque osi opporsi al potere, o anche solo protestare, rischia il carcere, la tortura, la vita stessa; dove sono migliaia le persone fatte sparire nel buio di una prigione, spesso senza alcuna accusa specifica e senza alcuna possibilità di difendersi. Desaparecidos come i ragazzi che contestavano il regime dei generali in Argentina negli anni 70 del secolo scorso. E’ un quadro impressionante, che sembra avere tutti gli elementi per aprire un processo per lesa umanità di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia.
A sostegno della sentenza della Commissione Onu, in occasione della presentazione ufficiale del rapporto, il 26 giugno, si è svolta a Ginevra una grande manifestazione della diaspora: oltre tremila giovani provenienti dall’intera Europa, con delegazioni di esuli e rifugiati anche dagli Stati Uniti. Qualche giorno prima, il 22, sempre a Ginevra, c’è stata anche una manifestazione-contestazione anti Onu dei migranti eritrei filogovernativi, sostenuti dalle varie ambasciate di Asmara nei paesi europei. Secondo gli organizzatori, anche questa protesta è stata massiccia: alcuni media vicini al regime parlano di seimila partecipanti. Stime “neutrali” dicono meno di duemila. Secondo gli oppositori, neanche 1.500 e, fanno notare, “in gran parte anziani, emigrati da anni e lontani dalla realtà e dalle sofferenze del nostro popolo, dei ragazzi, in particolare”. Ma, al di là della “guerra di cifre”, la mobilitazione in Svizzera contro la dittatura, ha segnato una svolta: per la prima volta si è fatta strada la proposta di unire le forze, superando quelle innumerevoli divisioni che finora hanno fortemente indebolito l’opposizione, sminuendone la stessa credibilità.
L’iniziativa è partita dal Coordinamento Eritrea Democratica che, fondato nel 2013, riunisce in Italia gran parte dei gruppi della diaspora schierati contro Afewerki e che ha colto l’occasione di Ginevra non solo per sostenere il rapporto dell’Onu che condanna e isola ulteriormente la dittatura di Asmara, ma per elaborare un progetto politico ben preciso: la costituzione di un Comitato Nazionale unitario in grado di porsi, di fronte alla comunità internazionale, come soggetto politico alternativo all’attuale governo.
“Questo nuovo comitato – spiega Yonas Negasi, esule a Bologna, a nome del Coordinamento italiano – dovrà essere formato in maniera paritaria da tutte le forze di opposizione, sia della diaspora che in Eritrea, superando ogni forma di contrasto e divisione di natura politica, ideologica, religiosa, etnica, ecc., in vista dell’obiettivo prioritario di abbattere il regime con metodi democratici e di costruire una nuova Eritrea. Il punto di partenza saranno i valori e i principi della Costituzione varata nel 1997, che la dittatura ha cancellato, ma che prefigura una nazione libera, democratica, aperta a tutti, assolutamente garante dei diritti umani. Intendiamo sottoporre il nostro progetto a tutte le comunità della diaspora: prima quelle sparse in Europa e via via alle realtà presenti in America, in Africa, ecc., oltre che ai gruppi in lotta all’interno della stessa Eritrea.. Il passo successivo sarà quello di chiedere il riconoscimento ufficiale della comunità internazionale, per porci come unico interlocutore credibile su tutti i problemi interni ed esterni che interessano l’Eritrea e su tutti i rapporti che la stessa comunità internazionale nel suo insieme o i singoli Stati intendono allacciare con il nostro Paese”.
Può essere un passo decisivo. “Una volta costituito il Comitato Nazionale – insiste Ali, un militante del Coordinamento – né l’Unione Europea, né i singoli governi nazionali, né più in generale la comunità internazionale, potranno dire che manca un interlocutore in antitesi al governo di Asmara. Anzi, dovranno scegliere tra la dittatura che insanguina e imprigiona l’Eritrea, costringendo i suoi giovani a fuggire, e le forze che rappresentano i veri interessi della grande maggioranza della popolazione e che, interpretandone il desiderio di libertà e cambiamento, sono le sole in grado di garantire il passaggio dalla dittatura alla democrazia con metodi pacifici, scongiurando il rischio di derive incontrollate di violenza e vendette di parte, ma promuovendo una radicale operazione di verità e giustizia, per chiudere definitivamente la pagina del governo militare che da troppi anni schiavizza il nostro popolo”.
La proposta arriva, oltre tutto, in un momento in cui non solo il rapporto dell’Onu ribadisce la condanna e l’isolamento del regime, ma in una fase di difficoltà e ribellione interne allo stesso apparato di potere. A parte i ricorrenti raid e attacchi armati messi in atto nelle regioni del sud, soprattutto da ribelli di etnia Afar, nei giorni scorsi si è addirittura parlato di un nuovo tentativo di colpo di stato, organizzato da alti ufficiali dell’aeronautica. Qualcosa di simile al fallito golpe del febbraio 2013. La notizia, diffusa da ambienti della diaspora, non ha trovato conferma. Tuttavia – dicono alcuni gruppi di opposizione – sarebbe comunque il segnale del diffuso, profondo malessere che sembra investire ormai anche le strutture dello Stato, a cominciare dalle forze armate. “Non è un caso – si fa notare – che Afewerki si sia dotato di una guardia personale praticamente mercenaria, formata quasi interamente da miliziani etiopici contrari al governo di Addis Abeba: evidentemente non si fida più, o non si fida completamente, del suo stesso esercito”.
I segnali di malessere, in effetti, si moltiplicano. L’ultimo è la fuga dell’ambasciatore eritreo presso l’Unione Africana, Mohammed Idris che, a metà maggio, ha chiesto asilo politico in Etiopia. Mohammed Idris non è un diplomatico qualsiasi, ma un personaggio di primo piano, che ha svolto ruoli di altissimo livello all’interno del partito al potere (il People’s Front for Democracy and Justice, Pfdj) e che non a caso era stato accreditato dal regime in un posto importante come la sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba. E’ eloquente quanto scrive di lui, su Africa Express, Massimo Alberizzi, un giornalista esperto della realtà eritrea: “Conosce parecchie cose sicuramente interessanti sulle relazioni di Asmara con i gruppi islamici: in particolare deve sapere i dettagli delle relazioni con gli Shebab, i fondamentalisti della Somalia ai quali, secondo le Nazioni Unite, Asmara ha fornito armi, supporto logistico e istruttori militari, e con i Paesi del Golfo, Iran compreso”.
Né quello di Mohammed Idris è un caso isolato: prima di lui – a conferma che malessere e insofferenza sono sempre più diffusi anche ai vertici – diversi altri diplomatici, funzionari, ufficiali hanno fatto la stessa scelta, fuggendo essi stessi dall’Eritrea per chiedere asilo all’estero o facendo fuggire i propri familiari. A volte in circostanze drammatiche. Il caso più doloroso è il massacro di tredici ragazzini al confine tra l’Eritrea e il Sudan, nel settembre scorso. Tutte le vittime, adolescenti tra i 13 e i 18 anni, appartenevano a famiglie di “uomini dello Stato”, militari o civili, spesso ex combattenti della guerra d’indipendenza. Famiglie, cioè, teoricamente legate al regime ma che, evidentemente, non sopportano più il clima che si è instaurato nel Paese, tanto da organizzare l’espatrio clandestino in massa dei loro figli più giovani, pur sapendo benissimo a quali rischi vanno incontro fin dai primi passi, con la polizia che ha l’ordine di sparare a vista, per uccidere, contro chiunque tenti di varcare la frontiera.
“Questa strage orrenda di giovanissimi – dice Yonas – è uno dei tanti crimini di cui l’Eritrea libera che stiamo costruendo chiederà conto ad Afewerki e ai gerarchi che lo sostengono. Senza alcuna volontà di vendetta. Chiederemo solo verità e giustizia, perché le gravi responsabilità della dittatura emergano di fronte agli occhi del mondo. Di quella comunità internazionale che finora si è ostinata a non voler vedere quanto accade da anni al nostro popolo”.
*INVIA UN COMMENTO VOCALE (Max 120 secondi). ---- Per registrare il commento vocale cliccare su Record, poi su Stop una volta terminata la registrazione. Infine cliccare su Save per inviare il contributo audio. (Inviando il contributo audio si autorizza alla sua pubblicazione.)
0
Lascia un commento