“Ho aiutato centinaia, migliaia di profughi a raggiungere l’Europa. Soprattutto eritrei, sudanesi e somali. L’ho fatto per denaro, certo. Quello era, diciamo, il mio lavoro. Ma non solo per denaro. Sentivo che, in qualche modo, ciò che facevo era utile per quella gente. E comunque, allora, c’erano certe regole, una specie di codice che i più rispettavano. Oggi non è così. E’ subentrato un sistema per il quale i profughi non sono uomini o donne, ma numeri che danno profitto. Contano solo i soldi. Per questo ho smesso…”.
A parlare è un eritreo poco più che trentenne. Si fa chiamare Yousef, ma chissà qual è il suo nome vero. Viene da Cheren, la terza città eritrea per numero di abitanti, a nord ovest di Asmara, ma ora vive tra Khartoum e Tripoli. Anzi, soprattutto in Libia, anche se, a furia di “fare affari con tutti”, ha messo insieme consistenti interessi in prevalenza a Khartoum, dove è titolare di due ristoranti, due internet point e una piccola compagnia di trasporto, con tre autobus di linea e qualche auto. Detto senza mezzi termini, è un trafficante di uomini che si è riciclato, ripulendo in attività lecite il denaro incassato, e che ora cerca di prendere le distanze dal suo passato. Non a caso, pur non nascondendo più di tanto le sue “origini”, si presenta come “imprenditore”. La sua è una storia emblematica: perché dimostra quanto renda trafficare in uomini e perché fa il punto sull’evoluzione di questo mercato, nel quale per personaggi come lui sembrerebbe esserci sempre meno spazio, sotto l’incalzare di organizzazioni più grandi e, se possibile, ancora più prive di scrupoli.
Yousef ha cominciato la sua attività nel 2004, appena fuggito da Cheren. A raccontarne i “primi passi” è un profugo eritreo rifugiato in Italia ormai da tempo, Abel (un nome di copertura), che lo ha frequentato a Khartoum dieci anni fa. Da allora i rapporti tra i due non si sono mai interrotti, soprattutto ad opera di Yousef, per un debito di riconoscenza.
“Quando ho conosciuto Yousef – dice Abel – io ero a Khartoum già da qualche mese. Avevo un alloggio e mi ero trovato un lavoro in attesa di poter emigrare in Europa. L’ho incontrato per caso: era appena arrivato ed ho intuito che non sapeva dove andare, così l’ho ospitato a casa mia. Lui ha cominciato a guardarsi intorno ed ha capito subito come funzionavano le cose per i profughi che dal Sudan volevano raggiungere il Mediterraneo e l’Europa. A me non ha mai chiesto niente. Stava fuori quasi tutto il giorno. Poi ho scoperto che si era messo d’accordo con alcuni trafficanti: avvicinava i migranti e li accompagnava dai ‘passatori’ per la traversata del Sahara fino alla Libia. Per ogni ‘passaggio’ riceveva una percentuale. Un giorno è sparito senza dirmi una parola. Pensavo fosse partito per la Libia anche lui. Invece, dopo la collaborazione iniziale con certi trafficanti, aveva pensato di mettersi in proprio: insieme al fratello ha organizzato una via di fuga dal confine eritreo a Khartoum e da qui in Libia, probabilmente in società con altri trafficanti sudanesi. Quando è ricomparso a Khartoum non è più venuto a stare da me, anche se si faceva vedere spesso. Era sempre indaffarato, ma cominciava ad essere chiacchierato, se non altro per la disponibilità di denaro che dimostrava. La conferma delle voci che giravano sul suo conto l’ho avuta quando la polizia sudanese è venuta a cercarlo. Era il 2006. Lui non si è fatto prendere: è fuggito in Libia ed ha continuato ad operare da lì. La rotta dei trasferimenti dei profughi prevedeva di passare il Sahara seguendo varie piste, non sempre la stessa. Una volta superato il confine libico, però, queste piste convergevano su Kufra, dove funzionava una specie di centro di smistamento verso Bengasi o verso Tripoli. E a Tripoli era anche la base operativa collegata con gruppi di scafisti per attraversare il Mediterraneo”.
In breve tempo Yousef a Tripoli è diventato un piccolo boss, con una rete di contatti con le autorità locali e una struttura in grado di gestire anche prestiti per i profughi rimasti senza soldi. “Tra i migranti eritrei e sudanesi era famoso – riprende Abel – Si diceva che poteva risolvere qualsiasi problema: denaro, alloggio, lavoro. Quando sono arrivato a Tripoli, durante la mia fuga verso l’Italia, nel 2007, ho sperimentato io stesso le ‘capacità’ di Yousef. Ci siamo incontrati e lui si è messo a disposizione. ‘Non dimentico, mi ha detto, che a Khartoum mi hai portato a casa tua’. E poi: ‘Hai bisogno di soldi? Non hai che da chiedere’. Io, in effetti, avevo bisogno di un po’ di dollari: la mia scorta si era assottigliata e temevo che non bastasse per pagarmi un posto su un barcone. Gliel’ho fatto presente e lui non ha perso un attimo: mi ha mandato a suo nome presso un certo ristorante, specificando che avrei potuto chiedere qualsiasi cifra, il proprietario non avrebbe fatto obiezioni. A me servivano 500, 600 dollari. Ho fatto come mi diceva e il suo uomo non ha battuto ciglio: ha tirato fuori 600 dollari e me li ha messi in mano, senza fare domande. Circa un mese dopo sono arrivato in Italia. Lui è rimasto a Tripoli. Ora si divide tra la Libia e il Sudan, ma dopo il caos in cui è precipitata la Libia ha concentrato i suoi investimenti a Khartoum. Lo so perché di tanto in tanto ci sentiamo e mi racconta della situazione. Ora dice di non occuparsi più del traffico di profughi, né via terra, né via mare, e che sono subentrati gruppi legati a potenti clan malavitosi o a varie fazioni di miliziani, che da questo mercato traggono una delle principali fonti di finanziamento: gente spietata anche rispetto ai ‘vecchi’ trafficanti, che pure di scrupoli se ne facevano assai pochi”.
A parlare delle nuove bande è lo stesso Yousef, in un racconto per il quale ha fatto da ponte Abel. “Quando io ho iniziato – ha detto Yousef – operava una serie di piccole organizzazioni, ciascuna con uno, due, al massimo tre pick up o furgoni. Una specie di servizio ‘spontaneo’, quasi improvvisato, per i tanti profughi decisi a raggiungere il Mediterraneo per imbarcarsi. Si procedeva per tappe. Prima la traversata del Sahara e il passaggio della frontiera con la Libia. Poi il viaggio in Libia verso la costa, quasi sempre su un mezzo diverso da quello partito da Khartoum. Infine, l’imbarco. Era, insomma, un viaggio lento: spesso durava settimane o addirittura mesi. Una volta arrivati in Libia, i profughi si concentravano nelle città più grandi, come Bengasi, Misurata o Tripoli, dove potevano nascondersi meglio e magari trovare qualche lavoro per integrare la riserva di denaro accumulata prima di iniziare la fuga. I rischi erano tanti: lungo la strada si poteva incappare nei frequenti controlli di polizia oppure, una volta arrivati in una città, finire in una delle retate organizzate periodicamente dalle forze di sicurezza. Noi, per quanto possibile, cercavamo di ridurli questi rischi. Era nel nostro interesse: con il passa parola è facile acquisire la fama di affidabilità se le spedizioni riescono a giungere a buon fine. Io poi, ma anche altri come me, ho sempre considerato di avere a che fare con uomini e donne a cui avevo promesso di farli arrivare per lo meno a Tripoli”.
Sono numerose anche in quegli anni, in verità, le denunce di complicità e collusione con la polizia e le forze di sicurezza libiche, con conseguenti arresti, detenzione in autentici lager in condizioni disumane, ricatti e tangenti per essere lasciati andare. O, ancora, casi di compravendita di interi gruppi di migranti tra diverse bande di trafficanti, con prezzi di riscatto sempre più alti. Yousef, però, glissa su questo aspetto. Si limita a ribadire di aver sempre cercato di mostrarsi “affidabile e leale”, rispettando il “contratto” sottoscritto con i profughi. Insiste, invece, che il sistema di questi viaggi sta cambiando rapidamente.
“Il viaggio ora è più veloce, quasi senza soste intermedie fino alla costa – ha spiegato Yousef – Ma a gestire il traffico sono organizzazioni più vaste e spregiudicate. Ne fanno parte, insieme a trafficanti libici, anche eritrei, sudanesi, somali. Insomma, di quasi tutti i paesi di provenienza dei profughi. Su Khartoum confluiscono tre filoni di immigrazione: dal Medio Oriente, dal Corno d’Africa e dall’Africa sub sahariana. Ciascun filone fa capo a uno o più clan in combutta tra di loro, che si sono spartiti il campo di interessi. Non partono quasi più macchine singole ma autocolonne di almeno cinque pick up chiusi o camion container, stracarichi di gente. Lasciata Khartoum, ogni clan segue certe piste particolari attraverso il Sahara. Si può star certi che prima o poi queste carovane vengono fermate a un posto di blocco della polizia già in Sudan. E’ tutto previsto: con una tangente di mille dollari a macchina si riesce a passare. Ovviamente questi mille dollari gravano sul prezzo del viaggio, che ormai costa non meno di seimila dollari a persona, contro i 4 o 5 mila del passato. Una volta superata la frontiera libica, poi, si corrono gli stessi rischi di prima. L’organizzazione ha emissari anche in Libia, ma si può sempre incappare in un posto di blocco di miliziani fuori controllo o della polizia. E ai check point non si esita un istante a sparare se non ci si ferma all’alt. Uno dei punti più pericolosi è Sabha, nel Fezzan, un nodo dove confluiscono le strade provenienti dal Sahara e dal quale si diramano quelle dirette a nord. Se si superano indenni i controlli di frontiera e quelli lungo la strada, i camion puntano verso la costa, saltando le grandi città”.
Secondo Yousef è in questa parte finale del viaggio a terra, quella che precede l’imbarco, che si sono avuti i cambiamenti maggiori, con i migranti che vengono in pratica fatti sparire fino a quando prendono il mare: “Mentre l’itinerario attraverso il Sahara e la Libia è gestito generalmente da sudanesi ed eritrei, oltre che da libici, una volta sul litorale tutto passa in mano ai soli libici. I punti di concentramento sono disseminati sulla costa, in piccoli centri, dove i trafficanti dispongono di capannoni, case, alloggi di fortuna. Anche questi tutti rigidamente sbarrati. I profughi, avendo viaggiato sempre rinchiusi in camion-container, non sanno dove sono arrivati. Né possono scoprirlo dopo, perché da questi lager non si può uscire per nessuna ragione. Chi ci prova viene pestato duramente. Le condizioni di vita sono peggiori di quelle terribili dei centri di detenzione ufficiali, che nominalmente dipendono dal ministero degli interni. Ogni profugo diventa un ostaggio, un prigioniero. I trafficanti libici sequestrano a tutti persino i cellulari, per impedire qualsiasi contatto: non vogliono che trapeli il minimo indizio su dove si trovano e su quando presumibilmente si imbarcheranno. Questo buio totale dura diversi giorni, spesso settimane. Per i profughi è impossibile conoscere in anticipo la data della partenza. Aspettano fino a che c’è un barcone disponibile. Anzi, più che un barcone, ormai, si tratta sempre più spesso di un vecchio gommone. I bagagli sono proibiti. Le scorte di acqua e di cibo scarsissime. Agli scafisti i trafficanti libici consegnano un telefono satellitare per segnalare la loro posizione in mare. E’ l’unico filo di collegamento che resta. A meno che uno della banda non riesca a far avere di nascosto un cellulare a qualcuno dei profughi. Tra i trafficanti eritrei o sudanesi c’è chi lo fa, sfidando i divieti dei libici, se a bordo ci sono dei connazionali. Ma capita di rado. Tutti così dipendono dallo scafista, che però appena può si libera del satellitare, gettandolo in mare, per eliminare una evidente prova a suo carico”.
Il viaggio è più rapido, insomma, ma dalla partenza da Khartoum in poi i profughi sono in completa balia dei trafficanti. “E i trafficanti – ha insistito più volte Yousef – li considerano solo un ‘affare’, non esitando ad abbandonarli in caso di difficoltà, come lo stop a un posto di blocco non connivente”. E’ accaduto proprio così, ad esempio, ai due camion fermati qualche mese fa da miliziani dello Stato Islamico, che hanno prelevato tutti gli eritrei e gli etiopi di religione cristiana: i responsabili del trasporto non si sono preoccupati nemmeno di dare l’allarme. “La manovalanza (autisti, guardiani, scafisti), inoltre, è costituita da ragazzi sempre più giovani, che pensano soltanto a far soldi, inesperti e violenti. Barche e battelli pneumatici, infine, sono caricati molto più di prima. In pratica, fino al limite del galleggiamento. Sui pescherecci è costretta a salire tanta gente che nella stiva non si può resistere per più di tre o quattro ore, ma i portelloni vengono chiusi, in modo da impedire di salire in coperta. Così, in caso di naufragio, per chi è là sotto non c’è scampo”.
Lo conferma la strage di pochi giorni fa, ad appena 15 miglia dalla costa libica. Ma a chi gestisce questo mercato di morte non importa: al momento dell’imbarco tutti i profughi hanno già pagato il ticket, sono ormai solo merce a perdere.
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