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Quando ho cominciato avrò avuto otto anni. Passavo le giornate con un’automobilina in una mano e la penna nell’altra. Facevo tardi la sera per catalogarle tutte e per scrivere la collocazione su un quadernone che tenevo sotto al letto. Mio padre mi regalava spesso automobiline, me ne portava una o due ogni volta che ci vedevamo: accadeva di rado, purtroppo. Lui lavorava fuori, sempre in giro. Faceva l’interprete ed era spesso in viaggio in l’Europa. Io stavo con i nonni, perché mia madre non stava bene. Lavorava al ministero ma non ci andava quasi mai a lavorare. Era spesso in una clinica a curarsi i nervi.
Io stavo bene coi nonni: mi lasciavano fare quello che volevo. E sapevo che mio padre mi voleva bene. Lo sapevo che avrebbe voluto passare più tempo con me. Ma non poteva. Quando ci vedevamo mi abbracciava stretto e non vedeva l’ora di tirare fuori dalla tasca quell’automobilina nuova. Solo che non poteva ricordarsi che magari quel modello lo avevo già e quindi capitava anche che ne avessi due o tre dello stesso tipo. Se ero fortunato erano di diverso colore (e questo lo segnalavo comunque nella collocazione). Ma a volte capitavano due modelli identici e allora dovevo mettere sotto la scocca dell’automobilina un segno di vernice bianca fatto con il pennellino. Avevo iniziato a catalogare vedendo tutte le mie automobiline sparse per la stanza. Non sapevo quante fossero. Solo dopo aver finito con la catalogazione seppi che erano 108, ma immancabilmente ne sarebbero arrivate delle altre. Fino a un certo punto, che dirò poi.
Per la catalogazione mi ero inventato un sistema basato sui numeri: a ogni numero corrispondeva una lettera, quella dell’iniziale della marca dell’auto. Era facile: 1 uguale A, 2 uguale B eccetera. Il secondo numero indicava un’altra marca che iniziava con la stessa lettera. Così se l’Alfa Romeo era 1.1, l’Audi era 1.2, l’Austin 1.3. Il terzo numero indicava il modello che era poi descritto in una legenda che tenevo in un foglio a parte. Ricordo che la Giulietta era la mitica 1.1.1, mentre la Giulia, che avevo catalogato dopo, era 1.1.2. Poi se c’erano doppioni indicavo il colore: B era bianco, BL blu, BLM blu metallizzato. Di Fiat 2300 ad esempio ne avevo 2. La 6.1.5. BLM e la 6.1.5 R, che era rossa. I doppioni identici venivano distinti da bis, tris e via dicendo. Proseguendo con le lettere passai dalle Bentley, alle Chrysler, alle straordinarie Dkw della Germania orientale, alle Jaguar, che avevo dovuto inserire nell’alfabeto italiano alla casella 10. Dovetti saltare temporaneamente la H perché non se ne trovavano di marche che cominciassero con quella lettera. Le asiatiche in Europa non erano ancora diffuse e quindi non c’erano Honda o Hyundai. Arrivai alla fine alla 22, cioè alla sovietica Zaz, senza che la scheda 8, quella della H, fosse riempita.
Fu verso la fine della mia attività di catalogatore di automobiline che da Londra mio padre arrivò con l’automobilina che mancava. Era la macchina che aspettavo: una Hillman, una strana auto inglese abbastanza rara (in tutta Roma ce ne saranno state, a quell’epoca, tre o quattro). Un’auto piccolina che come luci posteriori aveva due tondi sovrapposti: luci di posizione e frecce direzionali. Molto particolare, affascinante in un certo senso: era un’auto piccola ma molto ben fatta e rifinita, una due volumi ante litteram. Così, grazie a questa auto inglese riuscii a riempire la casella 8.
Qualche mese dopo decisi di smettere con questa attività. Ormai avevo tredici anni e mio padre piano piano smise di regalarmi automobiline e iniziò con i libri. Ci riflettei un po’ e arrivai alla conclusione che non mi andava di catalogarli, sarebbe stato troppo oneroso in quanto non avrei potuto usare lo stesso sistema di catalogazione utilizzato per le auto, ma avrei dovuto affidarmi al sistema classico: oltre alla collocazione sarebbe stato opportuno indicare autore, titolo, editore, edizione, numero di pagine. Troppo noioso. Mi limitai a sistemare i libri sugli scaffali prima destinati alle automobiline (che nel frattempo erano state stoccate in soffitta in ventidue scatole di diverse misure) raggruppandoli secondo il colore del dorso, un sistema bizzarro che però me li faceva ritrovare sempre. Anche perché avevo notato che i colori corrispondevano in qualche modo al contenuto. Quelli che parlavano di malavita, casi irrisolti, persone scomparse, misteri vari, erano neri. I libri storici spesso invece avevano il dorso rosso.
Frequentavo il liceo da qualche settimana – il nostro liceo signorina – quando iniziai a catalogare la mia nuova passione che erano le ragazze. Era un mondo nuovo. Fino alle medie le classi erano maschili. Ora eravamo tutti mischiati. Cominciai a ragionare sugli elementi che dovevo inserire nella collocazione. Anche qui il nome della ragazza era il numero corrispondente alla lettera iniziale del nome. In caso di doppioni interveniva il cognome, con lo stesso principio. Poi decisi di inserire il colore dei capelli, R, C, B, N (rossi, castani, biondi, neri) quindi un giudizio sulla bellezza: da 4 a 8, come i voti che date al liceo. La prima fu Anna Contini, una moretta abbastanza carina: 1.3.N.7, quindi Anna Santercole, una con i capelli castani, non bella, certamente: 1.18.C.5. Continuai con Barbara, Carla, Diana, fino ad arrivare a Silvia, Tiziana. Per trovare Ursula, Vanessa e Zaira dovetti andare fuori scuola, cioè pescare nel quartiere. Vanessa era la ragazza del bar che spesso stava alla cassa. Era una B8: una biondona molto bella con la quale uscii qualche volta a passeggiare nei prati dietro la chiesa. Ursula era la figlia della portiera, una rossa piuttosto magra e insignificante, una R5. Con Zaira mi affidai alla parrocchia: una Zaira, seppi da don Giacomo, era appena arrivata da Milano. In seguito la incontrai e mi presentai. Era discreta, capelli castani e un fisico non male. Si dava un po’ di arie, ma era una C7, per intenderci. Anche qui – professoressa, mi ascolta, vero? – si presentò lo stesso problema delle automobiline. La H non si trovava, né nel quartiere né a scuola. Chiesi anche ai bidelli se avessero avuto notizia di ragazze straniere arrivate a scuola magari da un paese lontano, esotico, di quelli che hanno i nomi di persona che iniziano per H.
Tenevo il mio archivio in un quadernone a spirale. A ogni nome e cognome seguiva la collocazione, una breve descrizione e a fianco la foto che facevo con la Polaroid (qualche volta di nascosto, non tutte amavano farsi fotografare). Anche qui la pagina otto era vuota. Finché non arrivò lei, signorina, è questo che volevo dirle. È per questo che sono qui, per raccontarle questa cosa. A lei, che ora mi sta guardando in quel modo, quel modo lì. Lo stesso sguardo di quando ci trovammo in classe da soli che dovevamo mettere a punto la gara d’inglese. In effetti non eravamo soli, c’era tutta la classe. Ma seduti a quel tavolo un po’ appartato, a me sembrava fossimo soli. Arrivò lei, la nuova, giovane, professoressa d’Inglese. Da Londra, come la Hillman. Prima l’ho vista scendere dall’autobus, signorina Higgs, bella come sempre. Come quando in classe passa tra i banchi leggendo Keats e camminando in quel modo, quando si china su di me per guardare quello che ho scritto, e io sento il suo profumo, perché lei è così vicina e sento i suoi capelli biondi che mi sfiorano la guancia. Lei che mi ricorda qualcosa che non so, qualcosa che manca. Prima l’ho vista in strada che era appena scesa dall’autobus e l’ho seguita fino a sotto casa. Poi lei si è voltata, mi ha visto, e mi ha invitato a salire. Mi ha fatto accomodare sulla poltrona mentre si è tolta le scarpe e si è rannicchiata sul divano di fronte a me, ad ascoltarmi. E ora penso, ma che storia assurda che le sto raccontando, che storia senza senso. E lo penso quando sto per chiederle se posso fotografarla, la numero 8: come l’infinito, come la forma dei suoi occhiali che incorniciano quegli occhi verdi che ora guardano me. Me che sono sempre più confuso, adesso che ti sei alzata in piedi e che cammini ancora in quel modo, con quelle gambe lunghe. E adesso che vieni verso di me, e mi guardi così, e avvicini la tua bocca alla mia. Helen, amore mio.
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