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Se questo articolo avesse una colonna sonora sarebbe Us and them dei Pink Floyd. Questo perché, innanzitutto, ho sempre amato questo gruppo la cui musica mi accompagna dall’età dell’adolescenza. E poi perché, in questo caso, il loro brano ha suscitato quella spinta emotiva che, a volte, agisce da catalizzatore per realizzare una nuova proposta di lettura di quello che accade fuori, e dentro di se. Noi e loro, il confine tra quello che mi appartiene e il resto. Un confine sempre più netto, stabilito da legami di sangue, di territorio, d’impossibilità d’immaginare afferenze più eterogenee di quelle di origine tribale, nel regno della morte dei padri.
Quando i padri esistevano ancora le ragioni non erano sempre le nostre. La verità non era quella carpita con la ferocia e la stupidità dell’arroganza, della violenza individuale o di clan. Visto che qui la confusione è facile, mi conviene precisare che per padre s’intende il significato simbolico del ruolo, e non l’interprete di questo. Un’azione paterna infatti può essere agita anche da un essere umano di diverso genere da quello maschile. Quello che conta è che contenga le prescrizioni e le suggestioni tipiche di quel ruolo. Il padre è colui che ammette il figlio nel regno dei giusti solo se questi rispetta le norme etiche che lui ha indicato. Che le assimili e ne faccia anche una sua nuova morale, ma che mantenga comunque lo stesso sguardo attento e responsabile sul mondo.
Ogni essere umano per agire attinge allo scrigno interiore dei valori ammessi dalla cernita tra il bene e il male, governata dal setaccio del messaggio paterno. Perché i padri siano morti e ci abbiano lasciato abbandonati in questo deserto di futuro e di speranza, nell’angoscia e nel terrore di qualsiasi minaccia, è qualcosa di molto complesso da capire. E allora abbandoniamoci al non capire, come socratica aspirazione che per un po’ ci allevia i sintomi dell’ansia da conoscenza. In questo ci viene bene in aiuto il susseguirsi del sottofondo musicale del quartetto psichedelico di Live a Pompei, che continua a spargere la sua sinuosa melopea.
Ma ben presto siamo indotti dalle nostre consuetudini a ridestarci dal torpore vacuo dell’inazione, associando cause e condizioni, per ritrovare il godimento illusivo della ragione. Per esempio a me viene in mente che qualcosa sparisce quando essa non serve più, non è più necessaria, o quando viene sostituita da qualcos’altro. Allora i padri potrebbero aver finito il loro lavoro, magari cedendo ad altre istanze il ruolo di mediatori tra il bene e il male, ritirandosi serenamente negli antri bui della storia. Questa ipotesi mi soddisfa a metà, la metà che vede i padri esclusi dal loro ruolo da nuove entità. Una di queste è la cultura fondata sui principi del capitalismo consumistico, che si sta espandendo sempre più velocemente, destituendo i padri dal loro ancestrale ruolo precettivo, per porre come fondamento etico l’avidità individuale.
La sostituzione dei padri ha generato doppioni di madri che confliggono per partecipare un ruolo genitoriale ormai univoco. La madre, sempre intesa nella sua dimensione simbolica, ha il fondamentale ruolo di accoglimento amoroso, senza obblighi o sanzioni. Ma, oltre a questo, la perdita del significato paterno ha creato, nella società della moralità fluida, un significativo aumento dell’aggressività relazionale, del giustizialismo individualistico, della parcellizzazione del significato del noi, sempre più concentrato sul ristretto gruppo di appartenenza. E di conseguenza si è ridefinito il concetto del loro, tutto il resto, divenendo sempre più straniero e minaccioso.
L’ipertrofia della madre è causa della deriva dei rapporti tra uomo e donna, tradotta nella sua disfunzionale interpretazione in feroce assalto al maschio, qui non solo nella sua accezione simbolica, comunque prodotto dell’assenza paterna e dell’egemonia uterina. Il mancato equilibrio tra maschile e femminile origina il ritrarsi del sentimento di sicurezza e intima partecipazione nel ristretto ed egocentrico confine del sé, della femminilizzazione reazionaria della sessualità e della condotta sociale. Così demonizzando ogni necessario, per la realizzazione dell’identità e dell’indipendenza, attacco alla fortezza del sentimento protettivo conservativo materno, si perde la responsabilità del cambiamento, rendendo la vittima giudice vendicativo del suo carnefice.
La musica sta finendo, e porta via con se le suggestioni di un’epoca in dissolvimento, prima di tutto quella anagrafica (sigh), per noi che partecipammo ancora alla parata degli ultimi padri fieri e sicuri nel loro assistere alla genesi della storia dell’umanità. I domini del fervore autocratico, tragiche risultanze in continua espansione della ricerca idealizzata del padre scomparso, sono i luoghi sociali della germinazione dell’intolleranza, della persecuzione dei fragili, dell’assalto ai nuovi capri espiatori che sono i migranti. C’è oramai soltanto da sperare che nuovi padri si realizzino presto nella nostra culturale indigenza, e che questi, prendendosi la responsabilità del possibile divenire, si occupino di ridarci nuove speranze di futuro. Abbiamo urgente bisogno di fiducia e rispetto nel prossimo, di fede nella collaborazione e nell’equa ripartizione delle risorse e delle incombenze, dell’utopica definitiva rottura del confine tra Us and them…
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Complimenti, bellissimo articolo!