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“E’ stato creato un sistema che alimenta il traffico di esseri umani, consegnando agli ‘scafisti di terra’ migliaia di profughi”: Abel, un giovane interprete eritreo, non usa mezzi termini per mettere sotto accusa il piano di ricollocamento. Anzi, come sottolinea lui stesso, “il fallimento del piano di ricollocamento”. Sono le cifre a confermare la debacle totale del programma messo in piedi da Bruxelles per trasferire in altri paesi dell’Unione Europea almeno parte dei rifugiati sbarcati in Italia o in Grecia. Secondo le previsioni, dovevano essere 160 mila entro il 2017 ma in realtà – rileva un rapporto dell’Organizzazione internazionale per le immigrazioni pubblicato a fine luglio – siamo ad appena 3.567, dei quali 902 dall’Italia e 2.665 dalla Grecia. “Di questo passo – insiste Abel – ci vorranno quasi cinquant’anni per completare il progetto. Così i profughi non si fidano più e, nonostante tutti i rischi che sanno di correre, preferiscono rivolgersi ai trafficanti”.
“Non si fidano più…”. Per l’Europa è l’ennesimo suicidio. Dopo una fase iniziale di titubanza, il piano di ricollocamento aveva suscitato grandi speranze tra i profughi. “Era considerato una grande occasione di immigrazione legale verso l’Europa – fa notare Amr, un altro interprete che collabora con la Croce Rossa e altre istituzioni italiane – Nei paesi d’origine e di transito, ad esempio in Eritrea, in Sudan, in Egitto, la notizia del progetto di relocation è arrivata con il passaparola: molti dei profughi sbarcati in Italia tra i mesi di marzo e maggio/giugno ne erano al corrente ed hanno aderito subito, mostrando piena fiducia: si sono fatti identificare ed hanno dichiarato di essere pronti ad andare in qualunque paese fosse stato loro proposto. Pensavano insomma che, una volta vinta la scommessa della traversata del Mediterraneo, in Europa ci fosse finalmente una strada da percorrere. Una strada verso il futuro. La realtà si è rivelata totalmente diversa: partenze con il contagocce, tempi lunghissimi di attesa, mesi di limbo in un centro di accoglienza, senza prospettive e quasi senza informazioni. Una incertezza totale. Così, alla fiducia è subentrata una grande delusione. Molti si sentono letteralmente truffati”.
Il punto è che solo pochi paesi europei sono disponibili ad accogliere dei profughi in base al programma di ricollocamento. Da mesi, ormai, Germania, Svezia, Norvegia, Austria, gli Stati verso i quali è maggiore il numero delle richieste, hanno chiuso le frontiere. Sono “aperte” attualmente solo la Francia (che da sola ha accolto circa un terzo dei 3.567 migranti “ricollocati”), la Spagna, il Portogallo, la Slovenia, la Romania e la Lettonia. Olanda e Belgio aprono i confini “a intermittenza”. E anche i governi “disponibili” si muovono a rilento. La Spagna, ad esempio, si è impegnata con Bruxelles ad accogliere 16.000 rifugiati ma a metà luglio erano ancora meno di 200, saliti poi a 315 nei giorni successivi, neanche il due per cento.
C’è, in sostanza, un vero e proprio blocco. Magari non dichiarato, ma comunque un blocco. E le conseguenze sono pesantissime. Molte delle persone in attesa nei centri di accoglienza sono spesso fragili e molto provate. Come due giovani donne eritree arrivate a Castelnuovo di Porto. In Libia, prima di riuscire a imbarcarsi, sono state a lungo prigioniere di miliziani dell’Isis: una, in stato di gravidanza, è stata costretta ad assistere all’assassinio del marito, sgozzato sotto i suoi occhi. “Il bambino le è nato poco dopo l’arrivo in Italia – racconta Ribka, una mediatrice culturale che da anni si occupa di rifugiati – E’ disperata, ancora terrorizzata dell’esperienza terribile che ha vissuto. Avrebbe bisogno di un’assistenza psicologica continua. Anzi, non sarebbe mai dovuta entrare, nelle sue condizioni, in un centro di accoglienza come quello di Castelnuovo. Ma intanto è lì e non intravede alcuna prospettiva”. E i più deboli finiscono per cedere: sempre a Castelnuovo sono stati segnalati almeno due tentativi di suicidio, fortunatamente sventati dall’intervento di amici e familiari. Uno, in particolare, riguarda una ragazza che in Libia è stata sequestrata e violentata da un gruppo di miliziani: è salva solo perché il marito, avendo intuito il suo stato di disperazione, la teneva costantemente d’occhio.
I più risoluti scelgono di scappare. Abbandonando le residenze a cui sono stati destinati nella lunghissima attesa del trasferimento in un altro paese europeo o evadendo dai centri di accoglienza poco dopo lo sbarco, spesso prima ancora di aver indicato se intendono aderire al programma di ricollocamento o chiedere asilo in Italia. Essendo stati comunque identificati, sanno bene di rischiare di essere rispediti indietro se incappano in qualche controllo oltre la frontiera delle Alpi, ma sono pronti a correre questo pericolo. E quasi sempre, nella fuga, si affidano a organizzazioni di trafficanti: mettersi in contatto non è difficile, quasi tutti hanno dei numeri di cellulare a cui fare riferimento e del resto spesso sono gli stessi scafisti ad avvicinare i potenziali “clienti”. “Preferiamo tentare la sorte – ha detto Ali, un ragazzo sudanese di passaggio a Roma – Con un po’ di fortuna, si può arrivare in Germania, in Svezia o in Olanda, persino in Inghilterra. E poi trovare una qualche sistemazione e aspettare. Le cose possono cambiare. In ogni caso, è sempre meglio così che rimanere ‘dimenticati’ in un Cara o in una residenza ‘straordinaria’ in Italia, senza prospettive”.
In questa situazione, l’impressione è che ci sia una specie di gioco delle parti tra l’Italia e l’Europa. L’Italia è stata finora essenzialmente un paese di transito e con ogni probabilità vuole continuare ad esserlo. Attualmente ospita tra 120 e 130 mila rifugiati, poco più di due ogni mille abitanti, la metà circa della media europea e molto al di sotto di paesi come la Svezia (20 ogni mille abitanti), la Germania (9/10) o l’Olanda (7/8). Fino all’anno scorso Roma ha praticamente fatto finta di non vedere le migliaia di “transitanti” che risalivano la penisola per varcare le Alpi. Dopo i ripetuti richiami di Bruxelles, i blocchi di Ventimiglia e del Brennero, gli stop al confine svizzero, quasi tutti i migranti vengono identificati allo sbarco. Moltissimi però continuano a fuggire pressoché indisturbati. “Li vedono tutti questi fuggiaschi, ma tutti fanno finta di niente – dice Abraham, un profugo eritreo – Io ho un sospetto: penso che l’Italia si trinceri dietro l’alibi che le procedure di identificazione sono state rispettate e che tutte queste fughe sarebbero dovute proprio alla sostanziale ‘paralisi’ del piano di ricollocamento. Certo, la mia è solo un’ipotesi, ma forse non così lontano dalla realtà”.
Per quanto riguarda invece l’Europa, questa “paralisi” della relocation magari non è casuale: potrebbe essere una scelta di fatto, una tacita forzatura, per costringere l’Italia ad ospitare più rifugiati, fino ad arrivare almeno alla media europea. Come dire: 240/250 mila, il doppio di quelli presenti ad oggi. Anche una volta raggiunta questa cifra, però, non è detto che la Ue apra i confini. Con l’ultima modifica del regolamento di Dublino, è vero che sono previsti interventi e correttivi da parte di Bruxelles ma, ha rilevato don Mussie Zerai, dell’agenzia Habeshia in una recente intervista, “questi correttivi sono applicabili solo in caso di ‘arrivi sproporzionati’, vale a dire il 150 per cento in più del numero considerato gestibile rispetto alla grandezza e al benessere del paese”. Se questo è il criterio, allora Roma non potrà “chiedere aiuto” fino a quando i profughi presenti stabilmente in Italia non avranno superato quota 500 mila.
Appare evidente che a restare incastrati in questo presumibile ingranaggio sono la parte più debole: i richiedenti asilo che bussano alle porte della Fortezza Europa ma finiscono per trovarsi di fronte una ulteriore barriera, pur essendosi affidati a quella che è stata presentata da Bruxelles come l’unica via di immigrazione legale. Occorre, dunque, quanto meno fare chiarezza prima possibile sull’attuazione del programma di ricollocamento. Ma per pretendere dall’Unione Europea chiarezza e il rispetto degli impegni assunti, è necessario che Roma, a sua volta, abbia le “carte in regola”. Che cioè, in estrema sintesi, proceda a una rapida, efficace riforma del suo sistema di accoglienza, oggi pieno di falle e basato essenzialmente su una mentalità “emergenziale”, mentre si tratta di risolvere un problema strutturale, con il quale bisognerà fare i conti per chissà quanti anni ancora. Non a caso degli oltre 120 mila posti oggi disponibili, quasi 100 mila fanno riferimento ai Cara o più ancora ai Cas, i centri si accoglienza straordinaria, contro gli appena 25 mila offerti dal circuito Sprar, il sistema organizzato in collaborazione con i Comuni, che è l’unico a prevedere un percorso di inserimento sociale stabile.
“Bisogna quanto meno invertire al più presto questa proporzione – ha rilevato più volte Enrico Calamai, portavoce del Comitato Nuovi Desaparecidos – per offrire ai profughi un’accoglienza dignitosa e con un minimo di concrete prospettive per il futuro. Non è un caso che finora la grande maggioranza dei migranti sbarcati nella Penisola abbiano scelto di andarsene, facendo dell’Italia essenzialmente un paese di transito: il nostro è uno dei sistemi di accoglienza peggiori d’Europa, è tempo di adeguarlo a quello dei paesi più avanzati. Un ruolo decisivo in questo senso possono svolgerlo i sindaci. Proprio i Comuni sono, in concreto, l’istituzione chiamata ad affrontare e a risolvere il problema dell’accoglienza e ne conoscono le difficoltà da affrontare giorno per giorno. E allora è opportuno e giusto che siano loro a dettare la linea per una riforma del sistema. Il nostro Comitato ha appena lanciato un appello a tutti i sindaci italiani in questo senso. Tenendo conto che solo quando avrà risolto questa questione cruciale, Roma potrà chiedere con forza di arrivare a un sistema unico di accoglienza europeo, condiviso ed applicato da tutti gli Stati membri della Ue, con i medesimi livelli di trattamento e possibilità di inclusione”.
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