L’ultima vampata della battaglia condotta dagli Herero contro la Germania si è avuta verso la metà dello scorso mese di marzo, quando sono state restituiti da Berlino numerosi crani e scheletri interi, sequestrati dai colonizzatori tedeschi nei primi anni del 1900, per assegnarli a varie università e istituti di ricerca: poveri resti che sono l’ennesima testimonianza dell’olocausto del kaiser, il genocidio in cui sono stati massacrati sistematicamente oltre 65 mila uomini, donne e bambini, l’80 per cento dell’intera comunità tribale di quel tempo. Ovviamente non è stato contestato il rimpatrio in sé. Al centro delle polemiche – che hanno indotto vari leader Herero a disertare sia la cerimonia organizzata a Berlino che quella di “accoglienza” promossa in Namibia, a Windhoek, dal presidente Pohamba – c’è l’accusa alla Germania di continuare a mantenere un profilo molto basso su questa tragedia. “Dopo quasi un secolo di silenzio assoluto – dicono – ora Berlino ammette le sue colpe, ma a denti stretti, cercando di sollevare meno clamore possibile, evitando di confrontarsi direttamente con noi Herero e liquidando tutto con generiche scuse al nostro governo. Senza fare chiarezza sino in fondo. Non è questo che chiediamo. Così si resta fermi a una mezza verità: è come avere una memoria interrotta, parziale…”.
E’ una presa di posizione coerente con quanto gli Herero sostengono ormai da circa vent’anni. La prima richiesta di scuse e di un confronto diretto con la Germania risale al 1998. L’ha formulata uno dei principali leader che all’epoca guidavano la comunità, Munjuku Nguvauva, al presidente federale tedesco Roman Herzog giunto in visita di stato nella Namibia, diventata da appena otto anni indipendente dal Sud Africa, che l’aveva occupata alla fine della seconda guerra mondiale. Herzog si limitò ad esprimere un generico rammarico, senza scuse formali e respingendo in ogni caso la proposta di arrivare a una forma di “riparazione” per dare concretezza alla presa di distanza della Germania democratica da quell’eccidio. Il braccio di ferro dura da allora. A volte in modo sotterraneo, a volte con iniziative che destano vasto clamore. Come nel 2001, quando gli Herero hanno sollevato la questione di fronte all’Onu, sollecitando una condanna formale della Germania. Senza fortuna. Le Nazioni Unite hanno respinto l’istanza, sostenendo che all’epoca del massacro non c’erano leggi a garanzia della protezione della popolazione civile inerme: lo stesso reato di genocidio è stato introdotto solo diversi anni dopo.
A fronte della battaglia incessante condotta dagli Herero, tuttavia, a tre anni di distanza dal “processo” all’Onu la Germania ha ammesso le proprie responsabilità storiche e morali. Ne ha parlato nell’agosto del 2004, a cento anni esatti dalla battaglia di Waterberg, che ha segnato la sconfitta dei ribelli Herero e Nama, il ministro Heidemarie Wieczorek Zeul, lasciando intendere che quanto è avvenuto nell’allora Africa del Sud Ovest tra il 1904 e il 1908 ha in effetti i caratteri del genocidio, tanto da dover formulare scuse formali al governo della Namibia. Wieczorek Zeul si è rifiutato, però, di ‘concretizzare’ queste scuse con un risarcimento, materiale o morale, sostenendo che i torti e le violenze di cui la Germania si è resa colpevole con l’olocausto del kaiser erano stati ripagati con gli aiuti economici fatti arrivare sino a quel momento alla sua ex colonia, 11 milioni di euro, la cifra più alta stanziata tra tutti gli stati occidentali nel paese.
Ancora una volta, così, la sfida non si è fermata. Non l’hanno fermata neanche le prime restituzioni dei crani e degli scheletri di decine di vittime del genocidio, trafugati, trasferiti in Germania e trattenuti a disposizione degli scienziati tedeschi per oltre un secolo. Il primo rientro di quei resti di uomini e donne considerati, nella follia razzista, non persone ma soltanto “materiale” di studio e di sperimentazione, risale al 2011: venti teschi rimandati “a casa” dopo una cerimonia pubblica alla quale è stata riservata grande enfasi e attenzione. Tre anni dopo il Charité Hospital, che ospita la facoltà di medicina delle due principali università di Berlino, ha confermato la volontà di arrivare prima possibile al rimpatrio completo di quelle povere ossa ancora conservate in vari centri di ricerca tedeschi. E nel marzo scorso, appunto, sono tornati in Namibia 18 crani e tre scheletri completi già in possesso proprio del Charité Hospital, insieme ad altri 17 crani che erano custoditi all’università di Friburgo. Ma è solo un’altra tappa. E anche questa restituzione con il contagocce alimenta polemiche. Ci si chiede come mai, dopo tanto tempo, non si sia ancora arrivati a chiudere almeno questo capitolo. E’ vero, infatti, che alcuni reperti sono in possesso di istituti privati, ma è diffusa la convinzione che la Germania avrebbe potuto e dovuto trovare una soluzione praticabile e definitiva. Coinvolgendo direttamente – insistono diversi capi della comunità – non solo e non tanto il governo di Windhoek ma soprattutto la popolazione Herero. “Siamo noi e solo noi – hanno dichiarato a Tendai Marima, giornalista di Think Africa Press – i discendenti diretti di queste vittime. Qualsiasi iniziativa o decisione relativa al genocidio, dunque, non può essere presa senza di noi”. Sulla stessa linea si è schierato il direttore della Namibian National Society for Human Rights: “Non tutto il paese ha sofferto per il genocidio, quindi è ridicolo affermare che gli Herero non andrebbero risarciti personalmente”.
Queste dichiarazioni riassumono i due aspetti forse fondamentali della contestazione. Il primo è che gli Herero vogliono essere gli interlocutori principali della Germania in questa vicenda. I leader della comunità lo considerano un punto irrinunciabile, come spiegano unanimi, ampliando i concetti espressi dalla Namibian National Society: “La strage, le torture, le uccisioni sistematiche, programmate con precisione teutonica, l’uso di esseri umani come cavie non hanno riguardato tutte le popolazioni dell’allora Africa tedesca. Quell’olocausto ha massacrato solo gli Herero e i Nama. Con effetti devastanti, che si trascinano ancora oggi per le nostre etnie. Basti considerare, al di là delle tremende sofferenze subite in quegli anni di mattanza, le conseguenze sul piano demografico. Oggi l’etnia prevalente in Namibia è quella degli Ovambo, con quasi il 50 per cento della popolazione totale. Lo stesso governo è composto per la stragrande maggioranza da Ovambo. Se non ci fosse stata la strage, con oltre 65 mila morti in una comunità che contava in tutto 80 mila persone, oggi noi Herero saremmo circa 1,8 milioni anziché 160 mila. Saremmo, cioè, il gruppo più numeroso, con tutto quello che ne consegue in termini di potere politico ed economico, in una realtà come quella namibiana dove conta ancora tanto l’appartenenza tribale. Ecco il punto, allora: scuse e riparazioni vanno rivolte direttamente alle vittime e ai loro discendenti e solo in seconda istanza al Paese in generale. Su questo non siamo disposti a cedere: per certi versi è un po’ come l’ultimo capitolo della lotta intrapresa dai nostri antenati contro il dominio coloniale tedesco”.
Il secondo aspetto riguarda la natura stessa del risarcimento. “Il governo tedesco – dicono gli Herero – ammette ormai da qualche anno di avere un obbligo morale nei confronti delle vittime del genocidio e, di conseguenza, dei loro figli e nipoti. Ma quanto alle scuse ufficiali siamo ancora fermi alle dichiarazioni fatte nel 2004 dal ministro Wieczorek Zeul. L’anno dopo Berlino si è assunto l’impegno di versare alla Namibia 28 milioni di euro nell’arco di un decennio, come testimonianza della sua volontà di riconciliazione e come contributo allo sviluppo. Non ha parlato e non parla tuttora di ‘riparazione’: né in termini generali, né tanto meno, come sarebbe giusto, nei confronti degli Herero e dei Nama in modo specifico e chiaro. Ecco: il Bundestag non solo sbaglia palesemente l’interlocutore, ignorando le due etnie vittime dell’eccidio, ma non vuole nemmeno sentir parlare di ‘indennizzi’, per dare finalmente concretezza alle sue scuse: ribadisce ogni volta che i milioni di euro promessi sono soltanto un segnale di amicizia, quasi un ‘omaggio generoso’ e non una ‘riparazione’ dovuta. La differenza è evidente: presentare delle scuse senza collegarle però a un risarcimento tangibile, equivale di fatto a continuare a non ammettere le proprie responsabilità sino in fondo”.
Nel 2012 questa contraddizione è stata sollevata anche al Bundestag da alcuni parlamentari, ma la mozione è stata respinta. Secondo i gruppi di opposizione, con la giustificazione, da parte del governo, che riconoscendo che la guerra contro gli Herero si è risolta in un genocidio, la Germania potrebbe essere costretta a pagare miliardi di indennizzi ai discendenti delle vittime.
Per questo, nel mese di marzo, la maggioranza degli Herero ha contestato e disertato la cerimonia per il rientro dei poveri resti delle vittime trovati al Charité Hospital e all’università di Friburgo. E per questo i rappresentanti della comunità si dicono decisi a continuare la lotta, chiedendo magari di nuovo alle Nazioni Unite una condanna formale della Germania. “A suo tempo – dicono – ci si è trincerati dietro il pretesto che nel 1904 non era contemplato da nessuna legge internazionale il reato di genocidio. Ma allora, se resta valido quel pretesto, dovrebbe rimanere impunito e sepolto, ad esempio, anche il genocidio degli Armeni. A nostro avviso non ha senso. Forse vale la pena ritentare la strada dell’Onu, tanto più che negli ultimi anni si è molto affinata la sensibilità su questi temi”.
“Berlino – ha aggiunto Festus Muundjua, uno dei leader Herero, in una dichiarazione resa al periodico online Think Africa Press – potrà anche continuare a rimandare a casa le misere ossa dei nostri antenati. Ma senza una vera riparazione, materiale o anche simbolica, quelle ossa non riposeranno mai in pace”. (2. fine)
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