«Non si dà pace per quanto successo, ha ammesso di averlo fatto. E’ un qualcosa che va al di là di un discorso di degrado sociale. E’ consapevole che non potrà vedere mai più suo figlio che sostiene di amare più di qualsiasi cosa al mondo».
E come potrebbe darsi pace un padre che ha ucciso un figlio?
Negli ultimi tempi gli infanticidi si consumano con una frequenza spaventosa ed hanno ben poco a che vedere con la spettacolarità mediatica: essi sono la manifestazione ultima, finale del lato orribile e disturbato dell’identità individuale, familiare e non ultima sociale.
Come possiamo fermarci alla bidimensionalità del fatto, liquidandolo con facili spiegazioni: “il raptus di un padre squilibrato”
Ma un raptus che cos’è?
È un gesto finale che suscita orrore, è quell’orrore, dal quale ognuno di noi si difende, che inibisce la capacità del pensiero umano di comprendere la complessità dei fatti.
Di andare oltre ai titoli di giornale, di rendere tridimensionale ciò che appare bidimensionale per necessità di fare audience.
Evitando di cadere nel giustificazionismo, quello di Franceschelli è un gesto estremo che da solo può unicamente fare inorridire e per contrapposizione attivare reazioni di giudizio difensivo che si rifanno a categorie nette definite per differenziare chi ha compiuto l’atto da un essere umano “normale”, perdendo di vista la complessità dei fatti, tra questi il contesto familiare, socio-culturale in cui questo soggetto è inscritto.
Tutto viene presentato come un solo fotogramma finale.
Possiamo per certo affermare che tale gesto trova le sue radici molto prima, chissà infatti quanti altri gesti hanno preceduto l’ultimo, quanti segnali non hanno ricevuto risposta, ma questo i media non lo dicono, non c’è minimo accenno al background famigliare di questo uomo, sappiamo solo che è disoccupato, molte informazioni sono contraddittorie, da una parte si legge che il ragazzo aveva piccoli precedenti penali, da un’altra che era stato più volte agli arresti domiciliari per spaccio di stupefacenti.
Mettendo insieme i pezzi emerge il quadro di un grande malessere, segnalato su più fronti, aveva picchiato la compagna più volte, anche se lei non aveva mai voluto denunciarlo, l’ultima volta due giorni prima della tragedia, quando l’aveva riportata nella casa materna di Trastevere, provata dall’anoressia, con un segno di coltello sul braccio, sussurrandole una promessa: «Se mi lasci ammazzo tuo figlio». Eppure nessuno tra i familiari e gli amici immaginava, proprio la madre della ragazza più volte ha affermato “No, Patrizio non è un pazzo, come lui stesso si definisce” aveva detto. Sostenendo anche che riempiva di botte la compagna, madre del bambino, sua figlia. Sembra che ci sia una negazione famigliare che non ha permesso di correre ai ripari, di prendere delle misure di sicurezza rispetto ad una situazione che aveva già ampiamente mostrato il suo potenziale di violenza.
Ora la nonna va a parlare in tv, ha paura che il giovane possa commettere ulteriori gesti violenti, perchè arrivare agli estremi prima di allarmarsi? Talvolta anche le persone che sono più vicine possono non essere in grado di valutare, proprio perchè la valutazione è una funzione dell’Io integro, tale funzione può essere deficitaria e solitamente quando questo accade non riguarda il singolo ma l’intero nucleo familiare, come se ci fosse una partecipazione implicita di ogni componente famigliare che contribuisce a creare quel sistema patologico. A chi spetta allora intervenire prima che sia troppo tardi?
Possiamo per certo dire che un atto estremo come l’infanticidio, non è sempre estemporaneo,come spesso si crede, non è sempre dettato da un impulso immediato e incontrollato È il frutto, il più delle volte, di una lenta elaborazione, di una conflittualità interiore che affonda le sue radici lontano e che è strettamente connesso al cambiamento nel tempo dei ruoli familiari e sociali dei membri del nucleo di appartenenza.
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