Pochi giorni fa ho visto un documentario sull’Amazzonia. Parlava dei riti d’iniziazione degli uomini. Nel documentario gli uomini raccoglievano con i bastoni delle formiche grandi tre centimetri la cui puntura causava un dolore equivalente alla puntura di sette api. C’era solo un modo che permetteva di manipolare le formiche – dovevano essere addormentane nel concentrato dalla resina di un albero, e poi messe in una specie di guanti fatti con le foglie. Per superare il rito iniziatico gli uomini dovevano indossare i guanti per circa dieci minuti, mentre tutto il gruppo di persone ballava in cerchio con loro tenendoli per le spalle. Il dolore dalle punture lo sentivano ancora per un giorno intero dopo l’evento di iniziazione. Questo rito mette gli uomini in contatto con il dolore, devono dimostrare che sono capaci di sopportarlo e viene ripetuto regolarmente. Gli uomini credono che in questo modo il corpo e l’anima vengono puliti dagli spiriti del male.
Questo documentario mi ha fatto riflettere sul significato del dolore nella nostra società. Nei pensieri sono tornata alla mia esperienza lavorativa in ospedale di 7 anni fa, con le persone malate di cancro. Tanti di loro nella solitudine si sentivano in imbarazzo e in colpa per la propria malattia. Per tanto tempo si vergognavano persino di parlarne, e non solo perché la malattia era diventata qualcosa molto intimo per loro – ma anche perché era diventata la loro fragilità, qualcosa che li ha tolti dalla vita produttiva. Ho visto giovani molto attivi che erano abituati a lavorare senza pausa e che anche nel letto con un computer non si fermavano cercando così di superare la realtà della malattia.
Le persone malate di cancro devono affrontare i dolori non solo fisici, ma anche i pensieri sulla propria morte. Il dolore è collegato con la paura dalla morte, e le due cose oggi sono poste ai confini dell’attenzione della nostra società, e purtroppo vengono spesso usate per la manipolazione per interessi del potere.
A quel punto mi sono resa conto che nella storia non è stato sempre così difficile vivere il proprio dolore. La società non spingeva sempre le persone malate via dagli occhi di tutti perché erano scomode. Non sempre si creava un grande spazio di solitudine attorno quelli sfortunati.
Quando non esisteva ancora il sistema degli ospedali e degli ospizi come oggi, e qualcuno si ammalava gravemente, o era semplicemente arrivato il suo tempo e si sapeva che non c’è più niente da fare, quella persona rimaneva a casa. Così, la persona che se ne doveva andare, faceva sempre parte della propria famiglia, e la famiglia si doveva organizzare in qualche modo per prendersi cura del elemento più fragile. Infatti, anche oggi si sta sviluppando sempre di più il sistema del ospizio domiciliare che permette alle persone nello stato terminale di vivere l’ultimi momenti a loro casa.
Una volta ho sentito un argomento assurdo contro questo sistema dei ospizi domiciliari. Qualcuno diceva che non è carino di far partecipare dei bambini alla sofferenza dell’altro… E’ vero che oggi i bambini vengono spesso separati per crescere nella loro cosiddetta sicurezza, e si dimentica che la perdita del contatto con la realtà non è un bene per la loro vita futura. E’ sicuramente più difficile accompagnare un bambino nei momenti emozionalmente pesanti anche per noi stessi, che metterlo semplicemente da parte come un oggetto. Invece nel passato, quando il dolore e la morte erano ancora la parte naturale della vita, partecipavano anche i bambini in un certo modo a tutto ciò accadeva a casa.
Fermiamoci un attimo all’aspetto fisiologico del dolore. Oggi sappiamo che il dolore è un fenomeno molto complesso, e la sua percezione dobbiamo considerare su tanti livelli del sistema nervoso. Il dolore non si crea nel punto che è ferito o nel danno tissutale, ma nasce nel cervello. In realtà è più corretto parlare di una matrice di dolore, perché il dolore non si può localizzare in un unico punto, ma si crea in una rete nel cervello e nel midollo spinale che elabora le informazioni provenienti dalle diverse parti del corpo. I fattori che influenzano la percezione di dolore sono diversi: i geni, lo stato fisico e psichico dell’individuo, l’esperienza del passato. Come viviamo il dolore dipende dalla dimensione affettiva e cognitiva, dalle esperienze passate di relazione con la sofferenza, dalla struttura psichica e dai fattori socio-culturali.
Vorrei fermarmi un attimo proprio ai fattori socio-culturali e riflettere sul ruolo della nostra cultura nella percezione del dolore. Guardiamo le pubblicità che ci promettono che con una pillola passano subito tutti i dolori del mondo. Presentano il dolore come un nemico che ci ruba il tempo e l’energia per vivere la nostra vita – l’energia per produrre un valore economico. Prendiamo in considerazione come le persone gravemente malate si sentono in colpa e si vergognano per la propria malattia. Vediamo come nel sistema del lavoro ci dobbiamo sentire quasi criminali se dobbiamo prenderci un paio di giorni liberi per malattia. La nostra società chiude gli occhi davanti ai malati che hanno anche dei problemi economici – praticamente non hanno valore perché non producono denaro, quindi sono vissuti come un peso per il sistema economico. La capacità di capire il dolore fisico è collegata con la capacità di capire, sopportare e risolvere il disagio psichico. E la nostra società sta diventando sempre più fragile da questo punto di vista.
In alcune parti del mondo, come per esempio nelle culture orientali, la malattia, il dolore e la morte, con tutte le paure e le ansie che ne derivano, fanno ancora parte naturale della vita. Io credo che questa relazione efficace con la sofferenza, nonostante i meccanismi di negazione disfunzionali elaborati dalla nostra cultura, sia ancora dentro le nostre strutture psichiche e dovrebbe essere risvegliata per permetterci un più sano rapporto con la realtà.
Mi sono venute in mente le parole di un malato terminale in un ospizio in Inghilterra pochi giorni prima di morire, che ho sentito ad un seminario sulla psicologia palliativa. Oggi le offro a voi per chiudere il nostro incontro.
Quando venite da me, anche se sapete quello che sappiamo tutti – che sto morendo…
Quando venite da me, anche se rappresentate le professioni che hanno fallito per la mia guarigione…
Quando passate il tempo con me anche se non ve lo posso ripagare…
Quando mi percepite come un’ individualità…
Quando vi ricordate delle piccole cose che mi fanno piacere…
Quando vi ricordate anche delle persone che mi stanno accanto, della mia famiglia…
Quando vi interessa il mio passato e riuscite a parlare del mio futuro…
Quando non vi concentrate su miei stati d’umore ma mi prendete come una persona intera…
Quando riusciamo a sorridere ed essere felici insieme nel vostro lavoro difficile…
In questi momenti mi sento al sicuro nelle vostre mani e sto prendendo sicurezza che ce la faccio quando arriverà il momento della mia morte.
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