Sono trattenuti a Lampedusa contro la loro volontà. Quasi come reclusi. O, quanto meno, confinati. Sono i profughi eritrei, una quindicina, che hanno trovato il coraggio di raccontare quello che è accaduto all’alba del tre ottobre scorso: l’alba in cui sono morti circa 370 disperati nel barcone affondato a meno di un miglio dalla Spiaggia dei Conigli, dopo aver arrancato per ore attraverso il Mediterraneo, dalla Libia verso il sogno della salvezza in Europa. I compagni scampati alla strage sono stati trasferiti a Roma, ospiti del Campidoglio. Loro non possono partire “per esigenze di giustizia”. Dovranno restare, nel migliore dei casi, almeno fino a dicembre: la Procura di Agrigento li vuole a disposizione per tutti gli interrogatori e le testimonianze eventualmente necessarie nell’ ambito dell’inchiesta aperta sulla tragedia.
In seguito alle indagini iniziate mentre ancora si contavano le vittime, ci sono stati due arresti: un tunisino accusato di essere lo scafista, l’uomo al timone del barcone; e un somalo poco più che ventenne, sospettato di far parte dell’organizzazione di trafficanti che sfruttano a caro prezzo la disperazione di migliaia di uomini e donne, in fuga da guerre e dittature, persecuzioni e galera, torture e soprusi in Eritrea, nel Sudan, in Etiopia, in Somalia. Al giovane somalo, in particolare, vengono attribuiti anche stupri e violenze di cui si sarebbe reso responsabile proprio alla vigilia della partenza del barcone della morte. Una volta sbarcato insieme ai naufraghi, avrebbe cercato di mimetizzarsi tra i richiedenti asilo del campo di Lampedusa, ma è stato riconosciuto e denunciato da alcuni dei superstiti.
Dei quindici testimoni costretti sull’isola, undici i magistrati intendono sentirli in relazione allo scafista; gli altri quattro sul caso più difficile e delicato del presunto trafficante. Quasi tutti, inoltre, hanno raccontato a don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, l’episodio delle due navi rimaste sconosciute, della stazza di una motovedetta o di un moderno peschereccio d’altura, le quali – secondo quanto è stato riferito – avrebbero avvistato il barcone in difficoltà a 800 metri dalla riva ma non sarebbero intervenute in soccorso né per lanciare l’allarme. Una, anzi, avrebbe addirittura compiuto un largo giro intorno al natante dei profughi, come per identificarlo, salvo poi riprendere la navigazione in coppia con l’altra, sempre senza informare nessuno dei presidi di sicurezza presenti a Lampedusa: Guardia Costiera, Finanza, Carabinieri, Polizia. E proprio questa manovra potrebbe essere stata la causa indiretta del naufragio, perché l’incendio che ha scatenato il panico a bordo, provocando il ribaltamento e il conseguente affondamento, pare sia stato originato dal telone intriso di gasolio e dato alle fiamme per attirare l’attenzione di quella nave che, dopo aver girato in circolo senza avvicinarsi, stava puntando verso il largo.
Su tutta questa vicenda l’agenzia Habeshia sta compilando un dossier. Alcuni media ne hanno già parlato, ma non risulta che la Procura se ne stia interessando. Di sicuro nessun magistrato né alcun funzionario di polizia ha ascoltato i ragazzi che la hanno raccontata a don Zerai. Le inchieste riguardano solo il tunisino ritenuto lo scafista e il presunto trafficante somalo: tutto tace, invece, a quanto pare, sulla dinamica precisa del naufragio e su quelle due navi fantasma. A maggior ragione, allora, non si comprende perché quei 15 testimoni, le cui dichiarazioni sono già state verbalizzate, siano stati separati dai compagni sopravvissuti e obbligati a restare a Lampedusa. Secondo le ultime notizie, a meno di imprevisti, dovranno “rimanere a disposizione” ancora per due settimane, relegati nel campo di raccolta dell’isola, che assomiglia più a un carcere che a un centro di accoglienza per rifugiati. Sono già 45 giorni che va avanti questa situazione. Loro la vivono come una reclusione e una violenza. Peggio: una “punizione” per essersi fatti avanti.
Don Zerai si è rivolto sia alla Prefettura che alla Procura di Agrigento. Alla sua voce si è aggiunta quella di Lia Quartapelle, giovane parlamentare del Pd, componente della commissione esteri della Camera. “Secondo la legge – dichiara don Zerai, ripetendo quanto ha scritto al prefetto Francesca Ferrandino e al sostituto procuratore Maggioni – questi profughi non dovrebbero restare più di 72 ore nel centro di accoglienza. Sono lì, invece, praticamente prigionieri, da più di 40 giorni. Al punto che tanti, quasi tutti, mi hanno detto di essersi pentiti della loro scelta di testimoniare. Hanno quasi la sensazione di essere stati ‘puniti’ per non aver taciuto. Sono molto preoccupato del loro stato psicofisico: qualcuno ha detto persino di essere deciso a suicidarsi nel caso sia costretto a restare ancora a lungo a Lampedusa. E’ una tortura psicologica che non sono più in grado di sopportare: bisogna trasferirli tutti e subito. A Roma, dove sono i loro compagni. Tra l’altro, non si capisce come mai, se sono già stati ascoltati dalla Procura, debbano restare sull’isola. Se i magistrati avranno bisogno di sentirli di nuovo, potrebbero andare a interrogarli a Roma”.
Già, una volta verbalizzate le loro prime dichiarazioni, la Procura avrebbe potuto benissimo dare il nulla osta per affidarli al Campidoglio come gli altri superstiti, salvo interrogarli di nuovo a Roma o convocarli ad Agrigento in caso di necessità. In aereo, Roma non è molto più lontana di Lampedusa da Agrigento. E non c’è sicuramente alcun pericolo che quei giovani, dopo essersi fatti avanti, decidano di “sparire”. Semmai il rischio di ripensamenti potrebbe farsi strada proprio a causa di come sono stati trattati finora.
Sorprende anche il fatto che non risultino indagini di nessun genere sul naufragio, in relazione a quelle due navi fantasma. Si è dato grande risalto, invece, agli arresti dello “scafista” e del “trafficante”: secondo quanto hanno dichiarato vari politici e diverse istituzioni a tutti i livelli, trovando una vasta eco nei media, sarebbero la conferma dell’efficacia e della determinazione con cui l’Italia intende condurre la lotta contro il “traffico di disperati” in fuga dall’Africa. Ma, nei fatti, tanta enfasi desta il sospetto che serva solo a coprire carenze e scelte per lo meno discutibili. Quanto alla lotta alla “tratta degli schiavi”, ad esempio, nonostante le ripetute sollecitazioni, mancano quasi del tutto indagini coordinate a livello internazionale, anche tramite l’Interpol e con il coinvolgimento attivo di tutti i paesi di transito e di arrivo dei profughi, per individuare la rete criminale che, secondo i racconti di numerosi fuggiaschi, si gioverebbe di complicità diffuse anche in vasti settori corrotti dell’apparato statale in Libia, nel Sudan, nel Sinai. Oppure, ancora, si fingono di ignorare gli effetti dell’intesa bilaterale tra Italia e Libia che, nel tentativo di blindare e di spostare il più a sud possibile il confine italiano ed europeo, consegna ai lager di Tripoli migliaia di perseguitati che hanno diritto all’asilo e alla protezione internazionale, costringendoli così a rivolgersi ai trafficanti di uomini per tentare di sfuggire al vortice infernale in cui sono precipitati. A quegli stessi trafficanti di uomini che l’Italia e l’Europa giurano di voler combattere.
Se davvero si vuole mettere fine a questo mercato di morte, forse bisogna partire dal superamento immediato di contraddizioni come queste, impostando al più presto una nuova politica dell’accoglienza in tutta l’Unione Europea. Non basta gettare in carcere una pedina della “tratta” o uno scafista. Tanto più che, come si è scoperto in vari casi, capita ormai non di rado che giovani disperati, fuggiaschi come i profughi traghettati dall’Africa, si piegano a fare i Caronte attraverso il Mediterraneo perché non hanno i due, tre, o anche quattromila dollari da versare ai trafficanti per pagarsi il ticket della traversata.
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