“L’Italia ci ha accolto come rifugiati, ma poi ci ha abbandonato”: il dramma dell’edificio di via Cavaglieri, a Roma, è tutto nelle parole di Tesfay Teklay un giovane profugo eritreo intervistato da La Repubblica, che vive dal 2007 in quel lager, dove ha conosciuto la ragazza poi diventata sua moglie e dove è nata la sua bambina. Con lui abitano lì, come in un villaggio fantasma, oltre 800 rifugiati arrivati da tutto il Corno d’Africa: Etiopia, Eritrea, Somalia, Sudan. In massima parte giovani: uomini, donne, famiglie intere con i piccoli.
Lo scandalo di questo luogo di disperati, già sede dell’università di Tor Vergata, alla Romanina, e ribattezzato Salam Palace, il Palazzo della Pace, è esploso perché se ne è impadronita la stampa internazionale. L’Herald Tribune ne ha parlato in prima pagina, chiamando pesantemente in causa le istituzioni italiane, che prima accolgono e poi si dimenticano di migliaia di esuli e richiedenti asilo. Ce n’è per tutti: dal Governo centrale al Comune di Roma. Colpevoli di aver lasciato per anni in condizioni inumane questa gente scacciata dal proprio paese da guerre, persecuzioni e fame. E che si è rivolta all’Italia per vedere rispettato il diritto alla vita e alla libertà, oltre che per inseguire il sogno di un futuro migliore. Come prevedono non solo e non tanto le convenzioni internazionali firmate dallo Stato, ma la stessa Costituzione repubblicana con il comma 3 dell’articolo 10, che vale la pena ricordare: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”. Ecco, l’Italia ha accolto questi disperati, riconoscendo loro lo status di rifugiati, ma poi li costringe di fatto a vivere in un lager: “non persone” che nessuno “vede” e ascolta.
Questo della Romanina non è un caso isolato. Ma ora è diventato il simbolo di una situazione diffusa quanto sottaciuta. Don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia che si occupa dell’assistenza ai migranti del Corno d’Africa, conosce a fondo questa storia. E’ amico di molti dei profughi prigionieri in quel palazzo cadente ed è anzi un testimone diretto di quanto è accaduto negli ultimi anni. Meglio: un protagonista, perché è stato lui a trattare in prima persona con varie autorità e istituzioni, come portavoce e per conto di questi giovani africani.
“Tutto ha avuto inizio nel 2006 – racconta – Anzi, per meglio dire, dal 2004-2005 quando, nonostante le promesse fatte dalla giunta Veltroni, sono rimasti in mezzo alla strada, in balia di se stessi, tantissimi profughi scacciati dall’ex deposito ferroviario della Tuburtina, conosciuto come Hotel Africa. Solo pochi di quei disperati evacuati con la forza hanno trovato una sistemazione nelle strutture del Sistema nazionale di accoglienza. Di tutti gli altri nessuno si è preoccupato. Così molti di loro hanno occupato un palazzo abbandonato in via Collatina. Ma presto anche quella soluzione ‘spontanea’ si è rivelata insufficiente: sono arrivati sempre più migranti senza altre possibilità di alloggio fino a che, nel gennaio 2006, alcune centinaia di loro hanno invaso l’edificio di via Cavaglieri, lasciato libero dall’università di Tor Vergata. Altri sono rimasti in via Collatina, dove sono tuttora ospitati oltre 500 giovani, in maggioranza eritrei ed etiopi. Ma l’occupazione della Romanina ha provocato reazioni immediate e molto decise: dopo pochi giorni il complesso è stato sgomberato dalla polizia. E’ da quel momento che è iniziata la lotta che continua tuttora”.
Che genere di lotta, come si sono organizzati quei profughi?
“Il primo passo è stato l’apertura di una trattativa con il sindaco e il prefetto di Roma, che allora era Achille Serra. Per dar forza alle loro richieste i ragazzi non si sono dispersi: si sono riuniti in una tendopoli, in pieno inverno, spesso sotto la pioggia, sempre in mezzo al fango e perseguitati dal freddo, ma decisi a resistere. E’ andata avanti così, tra mille peripezie, per oltre un mese, fino a che il prefetto Serra ha indotto il Campidoglio a trovare una soluzione. Ma quella scelta dal Comune si è rivelata una soluzione assurda: tutti quei disperati sono stati riportati nel palazzo che avevano occupato alla Romanina e dal quale erano stati sgomberati. Con una variante offensiva della loro dignità di persone che l’Italia ha accolto come perseguitati politici. Quel palazzo è di sette piani. Ebbene, dal primo al quinto piano nelle scale sono stati murati tutti gli accessi ai vari locali. A disposizione degli ‘ospiti’, oltre 250, sono stati lasciati solo gli ultimi due piani, con 4 bagni in tutto, due al sesto e due al settimo pianerottolo. Di media, dunque, un solo bagno da dividere tra oltre sessanta persone. E tra quei 250 c’erano famiglie intere, con adolescenti, ragazzine, bambini. C’è stata una ribellione generale: dopo un mese di lotta sotto le tende, si sono sentiti presi in giro, tanto da dover vivere nello stesso palazzo dal quale erano stati costretti a uscire trenta giorni prima dalla polizia, ma in condizioni molto peggiori di quando lo avevano occupato. Il giorno dopo, allora, hanno buttato giù le pareti che chiudevano i corridoi dei primi cinque piani e invaso di nuovo tutto l’edificio. Per certi versi era una sfida, oltre che un’affermazione di dignità. Per dire che occorreva riprendere le trattative per arrivare a una soluzione condivisa e rispettosa dei loro diritti. E la trattativa è ripresa, anche con la mediazione del decimo Municipio.
Il gabinetto del sindaco ha fatto l’ennesima promessa: un ampio progetto di inclusione sociale che offriva non solo una casa, ma spazi e strutture autogestite. Sembrava fatta, ma il progetto ha incontrato la forte opposizione di alcune cooperative interessate a occuparsi della struttura e che temevano di vedersi estromettere se i profughi avessero potuto autogestirsi. Così si è bloccato tutto. I colloqui si sono trascinati per oltre un anno e mezzo fino a che, nell’estate del 2007, il Campidoglio, sempre tramite il gabinetto del sindaco, ha proposto il trasferimento in altre tre strutture, sulla base di un piano da attuare a più mani: Comune, Municipio, rifugiati e Provincia di Roma”.
Come mai anche questo progetto è naufragato?
“La diffidenza dei rifugiati, a quel punto, era enorme. Dopo tante delusioni non credevano più a nessuno. Una delegazione, attraverso la mia mediazione, ha chiesto al sindaco di poter visitare queste tre nuove strutture, prima di cominciare a trasferirsi, in modo da dissipare i dubbi e le resistenze della stragrande maggioranza di loro. Una richiesta comprensibile: si trattava di lasciare il certo, sia pure in quelle condizioni, per l’incerto. Un ‘incerto’ che avrebbe potuto rivelarsi una trappola. Ma il Comune non ha voluto acconsentire a questa specie di ispezione: bisognava accettare e basta. Risultato: ognuno si è arroccato sulle sue posizioni ed è stato mandato in fumo un anno e mezzo di riunioni, assemblee, discussioni, mediazioni. Un lavoro faticoso e difficile vanificato in un attimo. Da allora i colloqui si sono interrotti. E il problema è stato sepolto nell’indifferenza. Irrisolto ma sotterrato e dimenticato. Come tanti altri problemi analoghi in Italia. Non si è mosso nulla neanche dopo il rapporto pesantissimo del commissario europeo per i diritti umani, Nils Muiznieks che all’inizio dell’estate è stato alla Romanina per visitare il palazzo di via Cavaglieri. Fino a che c’è stato il servizio dell’Herald Tribune”.
Che è come dire che il Governo e il Campidoglio tornano a preoccuparsi non perché la questione sia grave in sé e hanno il dovere di affrontarla, ma solo perché il caso sta suscitando un clamore enorme a livello internazionale.
“E’ proprio così. Lo dimostra il fatto che situazioni del genere ce ne sono tantissime. A Roma, tanto per fare un esempio, ci sono anche rifugiati che vivono da anni in baraccopoli indegne. Una delle più grandi è a Ponte Mammolo. Una discarica a cielo aperto che è diventata il rifugio di centinaia di ‘invisibili’ che lo Stato italiano ha abbandonato”.
Una discarica di umanità sconfitta, intende?
“Anche. Ma soprattutto una discarica di tutte le buone intenzioni sempre sbandierate ma mai concretizzate da parte delle istituzioni italiane, sia nazionali che locali. L’Italia ha un sistema di accoglienza incapace di rispondere alle esigenze dei rifugiati perché non è pensato per dare una soluzione ai loro problemi. No, è concepito con l’esigenza primaria di creare posti di lavoro per cooperative e associazioni, una macchina farraginosa per la quale i soldi non bastano mai, ma che in realtà non si prende cura delle persone per le quali dovrebbe attivarsi”.
Ma ci sono in Europa esempi di sistemi diversi?
“Certo che sì. In Svizzera o in Scandinavia, ad esempio, a ogni profugo viene garantito un alloggio sicuro, con un aiuto per pagare l’affitto e trovare un lavoro. Quando poi cominciano a lavorare, gli assistiti restituiscono a rate mensili la somma che lo Stato ha speso per loro. E questo denaro viene reinvestito nell’accoglienza. Ne nasce un circuito virtuoso per cui, di fatto, con il sostegno pubblico, i rifugiati fanno la loro parte non solo per ‘inserirsi’ ma per contribuire ad aiutare altri richiedenti asilo”.
Il ministro degli interni Anna Maria Cancellieri, di fronte allo scandalo, ha finalmente “scoperto” la questione, promettendo interventi per l’emergenza e un vasto piano di “inclusione sociale”. La realtà è che, come denuncia il Commissariato Onu per i rifugiati, l’Italia accoglie quasi la metà delle richieste d’asilo che le pervengono ogni anno, ma poi si disinteressa del tutto degli uomini e delle donne che sono dietro quelle domande. Il Sistema di protezione (Sprar) nel 2011 ha messo a disposizione e garantito l’assistenza per 3.000 posti. Solo che le domande presentate sono state 35 mila circa e di queste ne sono state accolte più di un terzo. Quindi ci sono 3.000 posti disponibili a fronte di oltre 12.000 persone che ne hanno diritto. Tre su quattro resteranno per strada, senza sapere a chi rivolgersi e senza trovare ascolto.
“E’ proprio questo il punto. Speriamo che le parole del ministro Cancellieri siano davvero il preludio per una soluzione seria, assegnando case popolari e garantendo contributi per pagare l’affitto a tutti coloro a cui è stata concessa la protezione umanitaria. Torniamo alla legge Martelli, che prevedeva sussidi in denaro al diretto interessato. Poi ognuno si trova una soluzione come meglio crede. Non servono a nulla accoglienze per sei mesi o un anno. Quello che sta accadendo è il prodotto proprio di queste scelte sbagliate”.
Scelte sbagliate con in più una buona dose di insensibilità, disinteresse e, soprattutto, di “silenziamento”, in modo che resti tutto sotto traccia e non se ne parli. Il silenzio come “soluzione”. Solo che ogni tanto spunta un Herald Tribune.
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