EUROPA SOVRANA

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A seconda di molti, osservando le varie iniziative più o meno confuse a favore del rafforzamento dell’idea europeista, ci sarebbe un comune sentire, culturale ed etico, che affratellerebbe tutti gli abitanti del vecchio continente. Non so se questo è vero, ma sicuramente c’è la preoccupazione condivisa della possibile riattivazione dei conflitti tra i vari stati europei che in passato hanno mostrato parecchia bellicosità, fino alla tragedia dell’ultima guerra mondiale. Certo, come sostengono comprensibilmente gli europeisti più convinti, la nascita dell’Europa comunitaria, che si è sviluppata inizialmente soprattutto su base economica e commerciale, ha contribuito senz’altro al miglioramento dei rapporti tra le nazioni del nostro continente. Ma credo ci siano stati altri fattori che hanno favorito la pace in Europa, come la reazione culturale e politica antifascista del dopoguerra, con il conseguente smantellamento, prima di tutto concettuale, dei poteri dispotici, e lo sviluppo più articolato e partecipativo della democrazia.

Quello che sta mancando secondo me nell’attuale vivace dibattito sulle prospettive di una comunità europea in grado di affrontare le questioni geopolitiche più urgenti è la considerazione sulle strutture di potere che dovrebbero caratterizzare l’unione europea del futuro. L’analisi psicosociale ci porta a considerare che quando c’è un problema urgente, reale o mistificato che sia, la nostra attenzione di esseri umani rincorre automaticamente una strategia di ricerca di soluzioni semplici e sbrigative, perdendo l’attenzione verso la naturale complessità delle situazioni critiche vissute. E’ questo credo stia accadendo nella maggior parte dei casi nella costruzione della nuova idea europeista, che cerca di contrastare il pericolo di nuovi imminenti conflitti armati. In soccorso all’angoscia di una nuova guerra si prospetta la visione salvifica di un’Europa più forte militarmente, capace di contrastare con vigore le aggressioni esterne vissute come sempre più prossime.

Ma immaginare la costruzione di una nuova comunità senza prevedere nel dettaglio le strutture di gestione dei poteri, è un errore che può avere conseguenze catastrofiche. Non credo gioverebbe alla pace universale la creazione di un altro mega-stato ipertrofico e pseudodemocratico su modello americano, russo, cinese e simili. Quelli che per esaltare l’ideologia europeista ci narrano della meraviglia pacificante tra gli stati americani realizzatasi con la loro unione, dimenticano di raccontare di quanta violenza imperialista, condizionando in negativo le sorti della gran parte del resto del mondo, ha generato la creazione della federazione degli Stati Uniti d’America. Non credo che abbiamo bisogno, come appartenenti alla comunità mondiale, di un’altra superpotenza che, non si capisce per quale motivo, avrebbe doti intrinseche di illuminata capacità diplomatica in politica estera, attitudine pacifica verso altri stati e di equità e tolleranza nella gestione delle necessità e dei conflitti sociali.

La creazione di un immaginario comunitario immune ai diversi problemi inerenti la gestione della democrazia e del potere, è un effetto della necessità dei membri della specie umana di creare supporti esterni alla costruzione necessaria del sé positivo. Come i tifosi di una squadra di calcio affidano alle sorti delle competizioni sportive l’esito del loro sentimento di autostima ed efficacia, così i vari nazionalismi, ora sempre più impregnati di beceri sovranismi e suprematismi, sono utilizzati per aizzare le vocazioni scioviniste e antidemocratiche sempre più in aumento. Come per l’idiozia del premierato, o di altri tentativi di ricompensare la fragilità di una immagine paterna debole e inefficace attraverso la costruzione di un potere sempre più autocratico, l’Europa, se non stiamo attenti, può divenire un altro sistema di proiezione del narcisismo compensatorio di sé fragili in cerca di rivalsa. Quindi, sia essa una squadra di calcio, o un sentimento nazionalista, che ci fa sentire più forti e più importanti dei nostri diversi competitori, quando la sconfitta sociale ci investe siamo indotti a partecipare, anche con estrema violenza, alla glorificazione del nostro appartenere contro il destino inevitabilmente misero degli altri.

Sono infatti convinto che sono le strutture che assegnano poteri eccessivi ai, se pur eletti democraticamente, rappresentanti istituzionali, che generano violenza e oppressione interna ed esterna. I più pericolosi despoti, del passato e attuali, non avrebbero potuto esprimere le loro qualità distruttive se non, come nella maggioranza dei casi, fossero stati portati al vertice del potere dagli elettori, e se, soprattutto, fossero stati stabiliti istituzionalmente dei limiti solidi e irrevocabili al loro mandato nella gestione del potere. L’Europa non ha bisogno di un esercito comunitario, che nel caso dovrebbe essere almeno potente come quello dei possibili aggressori, riportandoci indietro nell’idea dell’equilibrio del terrore della guerra fredda del secolo scorso. Così si riproporrebbe il nefasto mito della forza dissuasiva delle armi, con il conseguente sviluppo di rischiosi superpoteri politici e militari con il compito di gestire una pericolosa pace armata. L’Europa, e con essa intendo tutti gli europeisti, per prevenire altri disastri ha forse bisogno di comprendere più approfonditamente i meccanismi di creazione e gestione del potere in relazione alle caratteristiche, e soprattutto alle fragilità, della psiche umana e alle conseguenti implicazioni psicosociali.

In considerazione di tutto ciò, se depurata da miti irrazionali e mistificatori, l’idea di una comunità europea più efficace può diventare terreno fertile per un  nuovo pensiero in merito alla gestione della pace e della reale democrazia. Per esempio credo sia importante lavorare su un diverso modello di difesa, non più a base militare, ma sulla costituzione di nuovi, e il rafforzamento in senso democratico e di autorevolezza di quelli già esistenti, organismi internazionali per il rispetto del principio di non aggressione e per la messa al bando definitiva delle armi e della guerra. Il cambiamento efficace ed evoluto si ha con il mutamento dell’organizzazione mentale in merito alla gestione dei problemi. E’ il considerare una aggressione non più come l’atto conseguente alla potenza, questa considerata in senso positivo e quindi da imitare del nemico, ma, come per tutti gli  eventi dove un  forte si accanisce contro un più debole, come un atto di miserabile e riprovevole vigliaccheria.  

In definitiva, ciò che serve non è una corsa alla potenza né una nuova mitologia identitaria che rimpiazzi le vecchie, ma un profondo ripensamento collettivo sulle modalità con cui intendiamo convivere e risolvere i conflitti. Un’Europa che voglia davvero rappresentare un’alternativa credibile alle logiche di dominio globale deve rifiutare la scorciatoia dell’armamento e della centralizzazione autoritaria, e impegnarsi invece nella costruzione di istituzioni capaci di favorire la partecipazione, la giustizia sociale e la cooperazione solidale. Come ricordava Gino Strada, “i diritti devono essere di tutti, sennò chiamateli privilegi”, ed è forse proprio da questo principio che dovremmo ripartire, per evitare che la nostra paura si trasformi in ulteriore violenza, e perché l’utopia della pace torni ad essere una responsabilità concreta, non un’illusione da accantonare.

 


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